Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 3532 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 3532 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 11/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso 37989/2019 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , COGNOME NOME, elettivamente domiciliate in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentate e difese dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in atti;
-ricorrenti –
contro
COGNOME NOME, RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliate in ROMAINDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, che le rappresenta e difende giusta procura in atti;
-controricorrenti – avverso la sentenza n. 5837/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 26/09/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/12/2024 dal Consigliere NOME COGNOME;
La Corte osserva
RAGIONE_SOCIALE con atto di citazione espose di avere accumulato un debito ammontante a € 86.379,21 nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, con la quale aveva intrattenuto rapporti di agenzia, per omessi riversamenti di premi assicurativi e che, in violazione del divieto di patto commissorio, ceduto il credito a RAGIONE_SOCIALE, la esponente aveva stipulato un contratto con il quale aveva venduto a quest’ultima l’immobile di sua proprietà, all’interno del quale conduceva la propria attività d’impresa, per il prezzo sottostimato di € 75.000,00, con patto di riscatto in esito all’estinzione del debito. Concluse chiedendo dichiararsi la nullità dell’atto anzidetto.
Sulla resistenza di RAGIONE_SOCIALE e di NOME COGNOME (intervenuta), l’adito Tribunale, dichiarata inammissibile la domanda nei confronti di RAGIONE_SOCIALE e la carenza d’interesse di NOME COGNOME, dichiarò la nullità dell’atto di compravendita di cui detto, condannando RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME al pagamento delle spese.
La Corte d’appello di Roma rigettò l’impugnazione di RAGIONE_SOCIALE e di NOME COGNOME.
2.1. La Corte distrettuale ha, in sintesi, ragionato come appresso.
Il Tribunale aveva appurato che amministratore della società cessionaria del credito era NOME COGNOME; il prezzo di vendita (atto del 19/6/2003) era stato indicato in € 28.000,00 e quello di retrovendita fissato in € 75.000,00; l’immobile era rimasto in comodato alla venditrice fino al 31/12/2005; in caso di mancato riscatto entro quest’ultima data l’alienante avrebbe dovuto pagare un canone di locazione; le spese notarili erano state poste a carico
della venditrice; non erano state indicate le modalità di pagamento del corrispettivo di € 28.000,00, dovendosi, quindi, concludere che fosse mancato l’effettivo pagamento, al contrario di quel che avviene in un normale contratto di scambio; nella scrittura integrativa il diritto al riscatto era condizionato al versamento della somma di € 75.000,00, ritenuta ‘ valore attuale di vendita ‘ e non prezzo della vendita.
Da ciò quel Giudice aveva dedotto che <>.
In definitiva, <>.
Il contratto stipulato presentava <>.
Sempre il Giudice di prime cure, riporta ancora la Corte d’appello, aveva evidenziato gli elementi sintomatici che denunciavano il patto commissorio: esistenza di una situazione debitoria e la sproporzione tra entità del debito e valore del bene alienato in garanzia.
In definitiva, per il primo Giudice, ricorda ancora la sentenza d’appello, il contratto di vendita era nullo ai sensi degli artt. 1344 e 2744 cod. civ., <>.
Quanto sopra ripreso, riportate le censure d’appello, la Corte locale conferma il ragionamento del Tribunale, specificando ulteriormente quanto di seguito.
(a) <>.
(b) Mancava la stima imparziale del valore del bene.
(c) Il divieto di patto commissorio sarebbe rimasto violato anche nell’ipotesi in cui <>.
(d) Non assumeva rilievo la circostanza che RAGIONE_SOCIALE si era appropriata di somme di danaro ai danni di RAGIONE_SOCIALE e che RAGIONE_SOCIALE era soggetto giuridico distinto, in quanto la scrittura integrativa del 19/6/2003, che aveva perfezionato il patto vietato, era intercorsa fra tutti i soggetti coinvolti.
Infine, sotto altro profilo, l’interveniente, che neppure aveva contestato la propria carenza d’interesse, era da reputarsi soccombente.
RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME ricorrono sulla base di cinque motivi. NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE resistono con controricorso.
Con atto del 17/7/2024 per le controricorrenti si è costituito l’AVV_NOTAIO, in sostituzione del precedente difensore.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Con il primo motivo NOME COGNOME, in proprio, denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 100, 91, 132 cod. proc. civ. e 111 Cost., assumendo l’ingiustizia della di lei condanna alle spese, fondata sull’errato presupposto che fosse priva d’interesse.
Interesse che, invece, a dire della ricorrente, sussisteva, avendo rivestito il ruolo di liquidatore. Per contro, l’esponente sottolinea che la sentenza aveva reputato che spettasse ai soci subentrati e non all’ultimo liquidatore informare il giudice della cancellazione della società. La sentenza aveva riconosciuto la legittimazione degli ex soci, negandola per la ricorrente, nonostante che un tale ruolo la stessa avesse rivestito.
4.1. Il motivo è privo di fondamento.
La ricorrente è intervenuta senza avervi interesse, non potendo assumere rilievo la circostanza addotta, secondo la quale lo avrebbe fatto al fine di dichiarare che la società era stata cancellata.
NOME COGNOME, invero, siccome si trae dalla sentenza (pag. 2) era intervenuta in proprio, a fronte dell’atto giudiziario notificato alla stessa nella qualità di ultimo liquidatore di società oramai cancellata dal Registro delle imprese. Né, è bene
soggiungere, la stessa ha dimostrato di avere allegato la qualità di ex socio, che oggi prospetta.
Col secondo, il terzo e il quarto motivo, tra loro osmotici, denuncianti violazione e falsa applicazione degli artt. 2744, 1320, 1344, 1418, 1963, 2033, 1197, 1500 cod. civ., 111 Cost., 132 cod. proc. civ. le ricorrenti propongono un’alternativa ricostruzione della vicenda.
In particolare, deducono essersi trattato di ‘datio in solutum’ di un credito scaduto, sorto a causa dell’appropriazione indebita della RAGIONE_SOCIALE e, in mancanza di prova del mutuo, non avrebbe potuto operare il divieto di patto commissorio.
Non si era trattato, quindi, a dire delle esponenti, di un trasferimento in assenza di pagamento del prezzo e a solo scopo di garanzia, ma d’una operazione di scambio.
Per contro, proseguono le ricorrenti, <>. Invece, si soggiunge, <>.
Infine, non constava uno stato di difficoltà economica della COGNOME, la quale aveva maturato il debito a cagione delle sue indebite appropriazioni, quindi, non sussistevano i presupposti del patto commissorio, avendo il debitore accettato preventivamente il trasferimento dell’immobile; né vi era sproporzione e, se è lecito il ‘patto marciano’, non potrebbe essere nullo un contratto di vendita con patto di retrovendita.
Il complesso censorio deve essere disatteso, in quanto in parte infondato e per altra parte inammissibile.
6.1. In primo luogo chiaramente inammissibile risulta il profilo di censura con il quale si è denunciata l’assenza di motivazione, costituita da mera apparenza.
La giustificazione motivazionale è di esclusivo dominio del giudice del merito, con la sola eccezione del caso in cui essa debba giudicarsi meramente apparente; apparenza che ricorre, come di recente ha ribadito questa Corte, allorquando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Sez. 6, n. 13977, 23/5/2019, Rv. 654145; ma già S.U. n. 22232/2016).
A tale ipotesi deve aggiungersi il caso in cui la motivazione non risulti dotata dell’ineludibile attitudine a rendere palese (sia pure in via mediata o indiretta) la sua riferibilità al caso concreto preso in esame, di talché appaia di mero stile, o, se si vuole, standard; cioè un modello argomentativo apriori, che prescinda dall’effettivo e specifico sindacato sul fatto.
Siccome ha già avuto modo questa Corte di più volte chiarire, la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che è pertanto, denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; anomalia che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (S.U., n. 8053, 7/4/2014, Rv. 629830; S.U. n. 8054, 7/4/2014, Rv. 629833; Sez. 6-2, n. 21257, 8/10/2014, Rv. 632914).
È nulla la sentenza sorretta da un costrutto motivazionale di pura ed evidente apparenza, attraverso il quale il giudice si è illegittimamente sottratto al dovere di spiegare le ragioni della propria decisione, la quale s’impone e giustifica proprio attraverso la piena visibilità del percorso argomentativo, che non può ridursi al nudo atto di libera, anzi arbitraria, manifestazione del volere, avendo il giudice il dovere di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, non essendo bastevole una sommaria evocazione priva di un’approfondita disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e
sulla logicità del suo ragionamento (in tal senso, da ultimo, Cass. nn. 9105/2017, 20921/2019, 13248/2020).
Nullità che ricorre tutte le volte in cui resti insondabile il percorso argomentativo seguito dal giudice e cripticamente apodittica la decisione a riguardo della censura d’appello, potendosi affermare versarsi nell’ipotesi del modello di decisione apriori, nel quale assume rilievo l’atto del puro volere del giudice (rigetto dell’impugnazione), privo del costrutto giustificativo, in totale difformità del modello imposto dall’art. 111 Cost.
Per contro, nel caso in esame la sentenza rende motivazione compiuta, collegata alle risultanze istruttorie e logicamente ripercorribile, nel mentre la parte ricorrente perora un alternativo assetto motivazionale che avrebbe potuto darle ragione.
6.2. Posta la ricostruzione fattuale operata dalla sentenza d’appello, qui non censurabile, le allegate violazioni di legge sono infondate.
In presenza, non di un debito scaduto, bensì di una complessa operazione di dilazione d’un credito contestualmente riscontrato, correttamente la Corte di Roma ha accertato un patto commissorio.
L’operazione, siccome verificata, in altri termini, implica la predisposizione della modalità del pagamento del novato debito e non soddisfa la causa della compravendita (nessun prezzo risulta essere stato provatamente pagato), dimostrata dall’anomala e sintomatica valutazione del prezzo di riscatto, indicato quale ‘valore attuale di vendita’ e non prezzo di vendita nella controscrittura. Di conseguenza, il ‘prezzo di riscatto’, altro non rappresenta che la restituzione del debito novato.
La conclusione di cui sopra trova conforto nella costante giurisprudenza di questa Corte.
Si è, invero, spiegato che la vendita con patto di riscatto o di retrovendita, pur non integrando direttamente un patto commissorio, può rappresentare un mezzo per sottrarsi all’applicazione del relativo divieto ogni qualvolta il versamento del prezzo da parte del compratore non si configuri come corrispettivo dovuto per l’acquisto della proprietà, ma come erogazione di un mutuo, rispetto al quale il trasferimento del bene risponda alla sola finalità di costituire una posizione di garanzia provvisoria, capace di evolversi in maniera diversa a seconda che il debitore adempia o meno l’obbligo di restituire le somme ricevute (Sez. 1, n. 4514, 26/2/2018, Rv. 647431; conf. Cass. nn. 8957/2014, 10986/2013).
Ed ancora, la vendita con patto di riscatto o di retrovendita, anche quando sia previsto il trasferimento effettivo del bene, è nulla se stipulata per una causa di garanzia (piuttosto che per una causa di scambio) nell’ambito della quale il versamento del denaro, da parte del compratore, non costituisca pagamento del prezzo ma esecuzione di un mutuo ed il trasferimento del bene serva solo per costituire una posizione di garanzia provvisoria capace di evolversi a seconda che il debitore adempia o non l’obbligo di restituire le somme ricevute, atteso che la predetta vendita, in quanto caratterizzata dalla causa di garanzia propria del mutuo con patto commissorio, piuttosto che dalla causa di scambio propria della vendita. Pur non integrando direttamente un patto commissorio vietato dall’art. 2744 cod. civ., costituisce un mezzo per eludere tale norma imperativa ed esprime perciò una causa illecita che rende applicabile all’intero contratto la sanzione dell’art. 1344 cod. civ. (Sez. 2, n. 9900, 20/7/2001, Rv. 548347).
E infine, in materia di patto commissorio, l’art. 2744 c.c. deve essere interpretato in maniera funzionale, sicché in forza della sua previsione risulta colpito da nullità non solo il “patto” ivi descritto,
ma qualunque tipo di convenzione, quale ne sia il contenuto, che venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento giuridico, dell’illecita coercizione del debitore a sottostare alla volontà del creditore, accettando preventivamente il trasferimento della proprietà di un suo bene quale conseguenza della mancata estinzione di un suo debito (Sez. 2, n. 13210, 14/5/2024, Rv. 671129).
Sotto altro profilo, correttamente è stato escluso un lecito ‘patto marciano’, non essendo stata effettuata alcuna imparziale stima dell’immobile, in danno della ‘par condicio creditorum’.
A proposito di quest’ultimo patto questa Corte ha spiegato che il divieto del patto commissorio sancito dall’art. 2744 c.c. non opera quando nell’operazione negoziale (nella specie, una vendita immobiliare con funzione di garanzia) sia inserito un patto marciano (in forza del quale, nell’eventualità di inadempimento del debitore, il creditore vende il bene, previa stima, versando al debitore l’eccedenza del prezzo rispetto al credito), trattandosi di clausola lecita, che persegue lo stesso scopo del pegno irregolare ex art. 1851 c.c. ed è ispirata alla medesima “ratio” di evitare approfittamenti del creditore in danno del debitore, purché le parti abbiano previsto, al momento della sua stipulazione, che, nel caso ed all’epoca dell’inadempimento, sia compiuta una stima della cosa, entro tempi certi e modalità definite, che assicuri una valutazione imparziale, ancorata a parametri oggettivi ed automatici oppure affidata ad una persona indipendente ed esperta, la quale a tali parametri debba fare riferimento (Sez. 3, n. 844, 17/01/2020, Rv. 656813).
Il quinto motivo, con il quale le ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 91 cod. proc. civ., rivendicando le spese in loro favore, costituisce un ‘non motivo’,
come tale inammissibile, in quanto invoca una conseguenza di legge qui non verificatasi, a causa del mancato avveramento dell’auspicata soccombenza della controparte.
Rigettato il ricorso nel suo complesso, il regolamento delle spese segue la soccombenza e le stesse vanno liquidate, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle svolte attività, siccome in dispositivo, in favore delle controricorrenti.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte delle ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento, in favore delle controricorrenti delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 8.000,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte delle ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio di giorno 4 dicembre 2024.