Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 16619 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 16619 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 21/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5717/2021 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME
– intimati – avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA n. 2130/2020 depositata il 23/07/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 04/06/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Società RAGIONE_SOCIALE conven iva in giudizio i coniugi COGNOME avanti al Tribunale di Parma, chiedendo di ‘ordinare a NOME COGNOME e a NOME COGNOME l’immediato rilascio dell’immobile sito in Comune di Felino (Pr), frazione INDIRIZZO, INDIRIZZO attualmente occupato dagli stessi senza alcun titolo’ di cui rivendicava la proprietà. Tale bene, acquistato con atto per Notar NOME COGNOME l’8.2.2007 dalla ‘RAGIONE_SOCIALE di COGNOME Marcello, sarebbe stato occupato sine titulo dai convenuti COGNOME e COGNOME.
1.2 NOME COGNOME e NOME COGNOME si costituivano in giudizio ed eccepivano la natura simulatoria della vendita rilevando che le parti non volevano effettuare nessun trasferimento della proprietà e la natura in frode alla legge del contratto per violazione di norme fiscali con la sua conseguente nullità.
In fatto deducevano: di avere acquistato l’immobile controverso nel 1999 con contestuale stipula di mutuo ipotecario con un istituto di credito; di non essere riusciti a far fronte all’ammortamento del prestito venendo dichiarati decaduti dal beneficio del termine; di aver cambiato, su suggerimento del loro commercialista dott. NOME COGNOME la destinazione d’uso dell’immobile sottoponendolo a regime IVA; di avere proceduto in data 08.02.2007 alla vendita dell’immobile alla Nuova Sas di COGNOME Marcello per un corri spettivo di € 195.000 molto inferiore al prezzo di mercato, ammontante, a loro dire, a circa € 500.000; di avere ricevuto il prezzo attraverso due assegni: uno circolare di € 173.000 ed uno bancario di € 22.000; che in pari data, dinanzi al medesimo notaio, lo stesso immobile era stato venduto dalla Nuova
Sas alla Rimembranze per il corrispettivo di € 506.000 portati dal medesimo assegno circolare di € 173.000, che quindi sarebbe stato utilizzato per entrambi i rogiti, e da due assegni bancari di € 106.000 e di € 227.000; che gli assegni di cui sopra sarebb ero stati così destinati: l’assegno circolare da € 173.000 sarebbe stato corrisposto all’istituto di credito mutuatario per l’estinzione del mutuo e la cancellazione dell’ipoteca, l’assegno bancario da € 22.000 sarebbe stato versato al notaio rogante per il primo atto di vendita, l’assegno bancario da € 106.000 sarebbe stato incassato dal dott. COGNOME a titolo di IVA e per le spese notarili ma l’IVA non sarebbe stata versata ed unitamente all’assegno di € 227.000 sarebbe stato restituito alla RAGIONE_SOCIALE; che dalla data della vendita e per gli anni successivi nessuno aveva rivendicato la proprietà del bene da loro abitato ‘ uti domini ‘.
Il Tribunale di Parma rigettava le domande avanzate dalla RAGIONE_SOCIALE
Secondo la ricostruzione operata dal giudice di primo grado nel caso di specie era accaduto, almeno formalmente, che il bene in contesa era stato trasferito da COGNOME e COGNOME a RAGIONE_SOCIALE di COGNOME Marcello, e poi da questi a RAGIONE_SOCIALE. A fronte di tale successione ordinata di atti, secondo i convenuti l’operazione era finalizzata a far ottenere ai COGNOME un prestito, con alienazione dell’immobile a RAGIONE_SOCIALE a scopo di garanzia. In questa prospettiva la vendita a RAGIONE_SOCIALE di COGNOME costituiva un’interposizione fittizia, finalizzata ad ottenere la disponibilità del bene da trasferire al nuovo acquirente. Rispetto a questa seconda operazione, i COGNOME si trovavano quindi in condizione analoga non ai terzi estranei all’operazione, bensì a quella di contraenti in
conflitto con i creditori dell’apparente titolare, a norma dell’art. 1415 c.c.
Nel caso di specie, i dati circostanziali escludevano la buona fede dell’acquirente. Escluso che RAGIONE_SOCIALE po tesse far salvo il proprio acquisto quale terzo in buona fede, ripristinata l’unità dell’operazione, i COGNOME potevano eccepire la nullità del contratto (quello tra l’apparente titolare e l’acquirente) cui risultavano estranei’. Risultava da evidenze documentali che le parti avevano congegnato l’operazione al precipuo fine di: costituire una provvista ai COGNOME–COGNOME utile a ridurre/ estinguere una pregressa esposizione debitoria; costituire una garanzia a Rimembranze’90 per l’ipotesi che i debitori non riuscissero a ripianare il debito. Orbene, poiché il versamento del prezzo da parte di Rimembranze’90 non poteva dirsi corrispettivo dovuto per l’acquisto della proprietà, ma erogazione del mutuo, rispetto al quale il trasferimento dell’immobile risponde va alla sola finalità di costituire una posizione di garanzia provvisoria, doveva ritenersi che il contratto realizzasse un patto commissorio, vietato dalla legge’. Sulla scorta di tali argomentazioni il giudice di primo grado rigettava le domande spiegate dalla RAGIONE_SOCIALE
Rimembranze’ 90 sr l proponeva appello avverso la suddetta sentenza.
COGNOME NOME e COGNOME NOME restavano contumaci.
La Corte d’appello di Bologna rigettava il gravame. Preliminarmente, per quel che ancora rileva, riteneva che rispetto all ‘eccezione di nullità non fosse maturata alcuna preclusione potendosi addirittura attivare un potere officioso del giudice. Ne
conseguiva che non operavano nel caso di specie le preclusioni temporali di cui all’art. 183 c.p.c ..
La Corte rigettava il secondo motivo di appello ritenendo che il giudice di primo grado avesse correttamente individuato l’operazione negoziale intercorsa tra le parti , tenendo conto dell’evidente collegamento tra i due contratti sottoscritti nella medesima data, dinanzi allo stesso notaio ed utilizzando in parte gli stessi titoli. A parere della Corte, lo scopo perseguito dalle parti era quello di realizzare indirettamente quanto vietato dall’art.2744 c.c. con un’evidente frode alla legge . Diversamente non si spiegava perché tra le parti fosse stato scambiato lo stesso mezzo di pagamento (l’assegno circolare da € 173.000) con passaggi logicamente incompatibili con il contenuto apparente dei contratti.
La Corte riteneva che gli elementi di fatto emergenti dall’istruttoria costituissero elementi gravi, precisi e concordanti dell’avvenuto prestito, della mancata restituzione e dell’escussione della garanzia ‘ contra legem ‘.
In sostanza, il contratto concluso nel caso di specie tra la società RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE costituiva un contratto di compravendita a scopo di garanzia, dissimulante un mutuo con patto commissorio: pur essendo apparentemente convenuto il trasferimento immediato della proprietà (sottoposto a condizione risolutiva a favore del venditore che voglia riprendere la cosa mediante la tempestiva restituzione del prezzo), le parti avevano concordato in concreto, un patto commissorio, con acquisto in capo al compratore solo in caso di mancato pagamento del debito nel termine stabilito.
RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di cinque motivi di ricorso.
COGNOME NOME e COGNOME NOME sono rimasti intimati.
Il Procuratore Generale nella persona del sostituto P.G. Cons. COGNOME COGNOME ha concluso per il rigetto del ricorso.
La parte ricorrente, con memoria depositata in prossimità dell’udienza, ha insistito nella richiesta di accoglimento del ricorso
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso è così rubricato: Violazione e falsa applicazione degli artt. 1813 e 2744 c.c. per aver la Corte d’Appello erroneamente ritenuto sussistente un contratto di mutuo tra i coniugi COGNOME e COGNOME (presupposto necessario per la ritenuta violazione del divieto di patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c.) senza aver verificato l’effettiva ricorrenza dell’assunzione di uno specifico obbligo restitutorio in capo agli (asseriti) mutuatari.
L ‘errore commesso dalla Corte d’Appello sarebbe consistito nel fatto che – anziché verificare (come avrebbe dovuto fare) se sussistesse (o meno) un obbligo restitutorio in capo ai coniugi COGNOME nei confronti dell’esponente Rimembranze ’90 in relazione all’importo di Euro 173.000,00 -avrebbe invece erroneamente dato rilievo alla circostanza (giuridicamente irrilevante) del mero impiego di detta somma di denaro da parte dei coniugi COGNOME per l’estinzione di un loro precedente debito che avevano maturato verso un soggetto terzo (RAGIONE_SOCIALE, poi confluita in Unicredit), in forza di un pregresso rapporto contrattuale (contratto di mutuo fondiario stipulato in data 20.09.1999: cfr. 4 Fasc. COGNOME–COGNOME COGNOME), rispetto al
quale l’esponente COGNOME ’90 è sempre stata (ed è tuttora) completamente estranea.
Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: Nullità della sentenza ai sensi degli artt. artt. 111, comma 6, Cost., e 132 comma 2, n. 4, c.p.c. per motivazione apparente, confusa e incomprensibile o, comunque, per manifesta ed irriducibile contraddittorietà su un profilo decisivo, rilevante ed essenziale ai fini della decisione.
La Corte d’Appello, per un verso, avrebbe riconosciuto che un contratto di compravendita possa comportare – in astratto un’eventuale violazione del divieto di patto commissorio solo se contenente un ‘patto di riscatto o di retrovendita’ tale da attribuire una connotazione ‘provvisoria’ al trasferimento di proprietà, a sua volta condizionato alla restituzione (o meno) delle somme corrisposte; e per altro verso, vista la pacifica inesistenza di qualsivoglia patto di riscatto o di retrovendita intercorso tra le parti, avrebbe riconosciuto che – in concreto -il trasferimento di proprietà intervenuto tra le parti risulta ‘non condizionato’, salvo poi ritenere apoditticamente violato il divieto di cui all’art. 2744 c.c .
Ciò costituirebbe assenza di motivazione.
2.1 I primi due motivi di ricorso sono infondati.
Il Collegio condivide le conclusioni del P.G. circa l’infondatezza del ricorso.
Preliminarmente deve richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte secondo cui l’esistenza del patto commissorio, o, più in generale, la configurazione di un intento elusivo del relativo divieto legale, va verificata non soltanto in riferimento al tenore letterale delle clausole inserite nel contratto, o nei contratti, posti in essere
dalle parti, bensì in considerazione della funzione economica che, in pratica, la fattispecie negoziale posta in essere mira a conseguire. Il criterio sostanzialistico e funzionale impone una disamina che non sia limitata alla mera verifica delle clausole contenute negli accordi sottoscritti tra le parti. Tanto più che, in presenza di un divieto legale del patto commissorio, è quantomeno improbabile che il contratto, mediante il quale il predetto accordo illecito venga, in ipotesi, realizzato, possa contenere clausole il cui tenore letterale valga a disvelare esplicitamente l’intento elusivo perseguito dai contraenti.
Il giudice di merito, nello svolgimento di tale decisiva funzione di indagine, non può limitarsi all’esame delle sole espressioni usate dai contraenti nel contratto che si assume concluso, o nei contratti che si assumono conclusi, in violazione del divieto legale, né pretendere che in detti negozi sia esplicitamente “confessato” dalle parti l’intento elusivo del divieto (in tema, cfr. ancora Cass. Sez. 3, Sentenza n. 13580 del 21/07/2004, Rv. 574758, cit.).
Come evidenziato dal P.G., peraltro, rientra in detta articolata casistica anche l’ipotesi in cui le parti pongano in essere più negozi, tra loro uniti da un vincolo di collegamento, ‘ … configurabile anche quando siano stipulati tra soggetti diversi, purché essi risultino concepiti e voluti come funzionalmente connessi ed interdipendenti, al fine di un più completo ed equilibrato regolamento degli interessi ‘ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11638 del 30/10/1991, Rv. 474475), ove dalla loro disamina emerga un assetto di interessi complessivo tale da far ritenere che il procedimento negoziale attraverso il quale venga compiuto il trasferimento di un bene dal debitore al creditore sia effettivamente
collegato, piuttosto che alla funzione di scambio, ad uno scopo di garanzia.
Nel solco delle enunciate indicazioni giurisprudenziali, la ricostruzione del complessivo assetto negoziale fornita dalla Corte d’Appello , secondo cui la vendita dell’immobile nascondeva in realtà un’ operazione di finanziamento non può essere messo in discussione in sede di legittimità né sotto il profilo della ricostruzione fattuale né sotto quello dell’interpretazione del contratto. La suddetta interpretazione, infatti, tiene conto del comportamento delle parti e della sequenza degli accadimenti in coeren za con la ragione pratica o causa concreta dell’accordo negoziale.
Deve ribadirsi che l’interpretazione di un atto negoziale è un tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, normalmente incensurabile in sede di legittimità, salvo che nelle ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, alla stregua del c.d. “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., nella formulazione attualmente vigente, ovvero, ancora, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, previsti dall’art. 1362 ss. c.c. (Cass. n. 14355 del 2016, in motiv.). Il sindacato di legittimità può avere, quindi, ad oggetto solamente l’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (Cass. n. 23701 del 2016). Peraltro, la ricorrente non denuncia alcuna violazione delle regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c. e le censure
sotto questo profilo si risolvono nella mera proposta di una interpretazione diversa rispetto a quella adottata dal giudice di merito sulla base di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto.
Nella specie la Corte d’Appello ha correttamente ritenuto ammissibile la prova per presunzioni della simulazione, infatti, trattandosi di far valere l’illiceità del negozio, la prova della simulazione può essere data anche per testimoni o per presunzioni a norma dell’ultima parte dell’articolo 1417 c.c. ( ex plurimus Sez. 6-2, Ordinanza n. 23617 del 09/10/2017, Rv. 646791, Sez. 2, Sentenza n. 7740 del 1999). Pertanto il giudice del gravame, anche sulla base della prova documentale, ha confermato la sentenza di primo grado nella individuazione del l’operazione negoziale intercorsa tra le parti, tenendo conto dell’evidente collegamento tra i due contratti sottoscritti nella medesima data, dinanzi allo stesso notaio ed utilizzando in parte gli stessi titoli.
A parere del giudice del gravame, lo scopo perseguito dalle parti era quello di realizzare indirettamente quanto vietato dall’art.2744 c .c. con un’evidente frode alla legge . Diversamente non si spiegava perché tra le parti fosse stato scambiato lo stesso mezzo di pagamento (l’assegno circolare da € 173.000) con passaggi logicamente incompatibili con il contenuto apparente dei contratti. Non si spiegava l’abissale differenza dell’ apparente corrispettivo corriposto per la compravendita del il medesimo bene lo stesso giorno nei due contratti. Deponevano nel senso della simulazione anche il notevole lasso temporale decorso tra la sottoscrizione dei contratti e l’esercizio dell’azione di rivendica.
Tutti questi elementi fattuali costituivano elementi gravi, precisi e concordanti dell’avvenuto prestito, della sua mancata restituzione e dell’escussione della garanzia ‘ contra legem ‘. Tale assunto risultava corroborato anche da diverse prove documentali: le parti appellate erano debitrici nei confronti della Rolo Banca per l’originario mutuo dell’importo di £.550.000.000 garantito da ipoteca sull’immobile; le stesse, non riuscendo a pagare le rate del predetto mutuo, avevano necessità di un finanziamento che consentisse loro di ev itare l’espropriazione forzata dell’immobile di proprietà; il prezzo incassato dalle appellate a seguito della compravendita simulata (€ 195.000,00), corrispondeva esattamente all’importo di finanziamento cui gli stessi avevano bisogno per coprire la loro esposizione verso la Banca mutuataria, maggiorato delle spese dell’atto notarile (€ 173.000,00 più € 22.000,00); la conclusione del contratto di compravendita avanti al notaio; la consegna dell’assegno circolare da parte della Rimembranze idoneo a coprire l’intero prezzo di acquisto dell’immobile.
Sulla base di tale ricostruzione dei fatti, che non può essere oggetto di sindacato in questa sede, risulta pienamente conforme alla giurisprudenza di legittimità la conclusione della Corte d’Appello secondo cui, pur essendo apparentemente convenuto il trasferimento immediato della proprietà, le parti avevano concordato in concreto, un patto commissorio, con acquisto in capo al compratore solo in caso di mancato pagamento del debito nel termine stabilito. Nella fattispecie concreta il pagamento del prezzo dell’immobile compravenduto risponde va non ad una funzione di
scambio, ma ad una funzione di garanzia, corrispondente all’erogazione di un mutuo.
In definitiva, la suddetta interpretazione del contratto non è censurata sotto il profilo della violazione delle norme di ermeneutica negoziale mentre per le ragioni esposte risultano infondate le censura di violazione degli artt. 1813 e 2744 c.c..
Infatti, una volta individuata la reale volontà delle parti in quella di predisporre una garanzia per la concessione di un finanziamento, la complessiva operazione negoziale viola il divieto del patto commissorio, in quanto integra un ‘ alienazione a scopo di garanzia.
Si è già richiamata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui: In materia di patto commissorio, l’art. 2744 c.c. deve essere interpretato in maniera funzionale, sicché in forza della sua previsione risulta colpito da nullità non solo il “patto” ivi descritto, ma qualunque tipo di convenzione, quale ne sia il contenuto, che venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento giuridico, dell’illecita coercizione del debitore a sottostare alla volontà del creditore, accettando preventivamente il trasferimento della proprietà di un suo bene quale conseguenza della mancata estinzione di un suo debito.
Come già evidenziato anche dal P.G. in materia, la casistica è ampia e variegata. A partire dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 1907 del 1989, si è abbandonato il criterio formalistico precedentemente seguito, fondato sull’interpretazione letterale dell’art. 2744 c.c., preferendo ad esso il criterio ermeneutico, basato invece sull’indagine funzionale dell’impianto negoziale posto in essere in concreto dalle parti, finalizzato ad una più efficace
tutela, tanto del debitore coinvolto in operazioni poste in essere in violazione del divieto del patto commissorio, che del principio generale della par condicio creditorum , in funzione di contrasto della creazione di strumenti di garanzia diversi da quelli previsti dalla legge.
Nella giurisprudenza di questa Corte, il divieto del patto commissorio e la conseguente sanzione di nullità radicale sono stati estesi a qualsiasi negozio, tipico o atipico, quale che ne sia il contenuto, che sia in concreto impiegato per conseguire il fine, riprovato dall’ordinamento, dell’illecita coercizione del debitore (Sez. 3, Sentenza n. 8411 del 27/05/2003, Rv. 563612).
In proposito deve darsi continuità al seguente principio di diritto: Il patto commissorio è ravvisabile rispetto a più negozi tra loro collegati, qualora l’assetto di interessi complessivo sia tale da far ritenere che il trasferimento di un bene sia effettivamente volto, più che alla funzione di scambio, ad uno scopo di garanzia a prescindere, sia dalla natura meramente obbligatoria o traslativa o reale del contratto, sia dal momento temporale in cui l’effetto traslativo è destinato a verificarsi, nonché dagli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione e, persino, dalla identità dei soggetti che abbiano stipulato i negozi collegati, complessi o misti, sempre che tra le diverse pattuizioni sia ravvisabile un rapporto di interdipendenza e le stesse risultino funzionalmente preordinate allo scopo finale di garanzia (Sez. 2 – , Sentenza n. 23553 del 27/10/2020, Rv. 659604 – 01).
Infatti, in materia di nullità per violazione del divieto del patto commissorio, non è possibile in astratto identificare una categoria di negozi soggetti a tale nullità, occorrendo invece riconoscere che
qualsiasi negozio può integrare tale violazione nell’ipotesi in cui venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento giuridico, di far ottenere al creditore la proprietà del bene dell’altra parte nel caso in cui questa non adempia la propria obbligazione (Sez. 2, Sentenza n. 4262 del 20/02/2013, Rv. 625261 – 01). Va infine tenuto conto che “In tema di patto commissorio, l’automatismo del vietato trasferimento di proprietà del bene costituisce un connotato della figura tipica di cui alla previsione dell’art. 2744 c.c., mentre nelle ipotesi in cui non vi sia stata la concessione di pegno o ipoteca e l’illegittima finalità venga realizzata indirettamente in virtù di strumenti negoziali preordinati a tale particolare scopo, il requisito dell’anzidetto automatismo non può ritenersi esigibile, giacché la sanzione della nullità deriva dall’applicazione dell’art. 1344 c.c., per snaturamento della causa tipica del negozio, piegata all’elusione della norma imperativa di cui al citato art. 2744 c. c. In siffatti casi la coartazione del debitore, preventivamente assoggettatosi alla discrezione del creditore, è “in re ipsa”, non disponendo il medesimo di alcuna possibilità di evitare la perdita del bene costituito in sostanziale garanzia” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5426 del 05/03/2010, Rv. 611785, cit.) ovvero di recuperarne la proprietà, ove quest’ultima sia già stata trasferita al creditore in spregio al divieto in esame. Quel che rileva, in definitiva, non è la forma negoziale utilizzata, be nsì ‘… l’assetto di interessi complessivo …” realizzato dalle parti, che deve essere “… tale da far ritenere che il trasferimento di un bene sia effettivamente volto, più che alla funzione di scambio, ad uno scopo di garanzia a prescindere, sia dalla natura meramente obbligatoria o traslativa o reale del contratto, sia dal momento temporale in cui
l’effetto traslativo è destinato a verificarsi, nonché dagli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione.
Per le ragioni esposte, la censura proposta con il secondo motivo come vizio di motivazione è manifestamente infondata. Questa Corte a sezioni unite ha chiarito che dopo la riforma dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., operata dalla legge 134/2012, il sindacato sulla motivazione da parte della cassazione è consentito solo quando l’anomalia motivazionale si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; in tale prospettiva detta anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass. Sez. un. 8053/2014); – nel caso di specie, la grave anomalia motivazionale non esiste, perché la Corte d’Appello ha ampiamente motivato e con specifico riferimento alla mancanza del patto di retrovendita si è già evidenziato che il criterio sostanzialistico e funzionale impone una disamina che non sia limitata alla mera verifica delle clausole contenute negli accordi sottoscritti tra le parti. Infatti, in presenza di un divieto legale del patto commissorio, è quantomeno improbabile che il contratto, mediante il quale il predetto accordo illecito venga, in ipotesi, realizzato, possa contenere clausole il cui tenore letterale valga a disvelare esplicitamente l’intento elusivo perseguito dai contraenti.
Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: Omessa pronuncia sul thema decidendum del secondo motivo d’appello per non aver
Ric. 2021 n. 5717 sez. S2 – ud. 04/06/2025
la Corte d’Appello verificato se fosse (o meno) stata fornita la prova del pagamento integrale del prezzo della compravendita tra RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE di COGNOME Marcello .
La Corte d’Appello – pur avendo riconosciuto, nelle sue stesse premesse, la necessità di dover valutare se fosse effettivamente stata fornita la prova del pagamento integrale del prezzo (così come espressamente richiesto dall’esponente con il secondo motivo d ‘appello) -avrebbe invece incomprensibilmente omesso di pronunciarsi proprio su questo tema cruciale.
3.1 Il terzo motivo di ricorso è infondato.
La censura di omessa pronuncia sul secondo motivo di appello è del tutto infondata. La Corte d’Appello a pag. 7 della sentenza ha espressamente esaminato il suddetto motivo con il quale la RAGIONE_SOCIALE aveva censurato la sentenza emessa dal Tribunale di Parma per aver considerato sussistente un accordo simulato tra le parti in causa, con l’interposizione fittizia di RAGIONE_SOCIALE di COGNOME COGNOME. Infatti, secondo l’assunto dell’allora appellante, RAGIONE_SOCIALE avrebbe fornito la prova di aver effettivamente corrisposto il prezzo.
La Corte d’Appello ha correttamente ritenuto ammissibile la prova per presunzioni della simulazione e sulla base degli elementi sopra indicati ha rigettato il motivo di appello con motivazione ampia ed esauriente anche in relazione al profilo del mancato pagamento del prezzo, evidenziando che qualora da parte di colui che invoca la simulazione siano stati offerti, in ottemperanza a quanto previsto dall’art. 2697 c.c., elementi presuntivi del carattere fittizio della compravendita, l’acquirente ha l’onere di provare il pagamento del prezzo; in tal caso, pertanto, possono trarsi
elementi di valutazione circa il carattere apparente del contratto dalla mancata dimostrazione da parte del compratore del relativo pagamento (Cass. civ. n. 1413/2006).
D’altra parte, anche in questo caso il Collegio condivide quanto evidenziato dal l’Ufficio di Procura circa il fatto che la prova del patto commissorio può essere data con ogni mezzo (si è, infatti, già affermato che trattandosi di far valere l’illiceità del negozio, la prova della simulazione può essere data anche per testimoni o per presunzioni a norma dell’ultima parte dell’articolo 1417 c.c. ( ex plurimus Sez. 6-2, Ordinanza n. 23617 del 09/10/2017, Rv. 646791, Sez. 2, Sentenza n. 7740 del 1999).
4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: Violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. per mancanza di un percorso argomentativo logico ed organico che possa giustificare presunzioni gravi, precise e concordanti da cui poter ragionevolmente desumere il mancato pagamento integrale del prezzo di compravendita da parte di RAGIONE_SOCIALE a favore di RAGIONE_SOCIALE di COGNOME
La ricorrente evidenzia che la circostanza che una parte del prezzo (Euro 173.000,00) sia stata pagata tramite assegno circolare direttamente intestato alla banca creditrice ipotecaria proprio per consentire l’immediata cancellazione dell’ipoteca non è indice di alcuna anomalia, né tantomeno di alcuna simulazione, essendo – viceversa – assolutamente normale (se non addirittura opportuno) il ricorso allo strumento dell’ordinaria delegazione di pagamento in situazioni di tal fatta, e ciò anche per evitare che l’emissione di più assegni in successione (da acquirente a venditore e da venditore a banca creditrice ipotecaria) possa comportare
inutili ritardi (ad esempio, nel caso del ‘doppio passaggio’ d’assegno, la banca creditrice potrebbe ragionevolmente non acconsentire all’immediata cancellazione dell’ipoteca fintantoché non riceverà l’assegno dal venditore, il quale – per poterlo far emettere – dovrà a sua volta aspettare alcuni giorni per ottenere l’incasso dell’assegno che ha ricevuto dall’acquirente); la ‘abissale differenza’ tra il prezzo corrisposto dall’ esponente a RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOME (Euro 422.000,00, oltre IVA) ed il prezzo – a sua volta – corrisposto da RAGIONE_SOCIALE di COGNOME ai coniugi COGNOME nulla dice in ordine all’effettivo pagamento del prezzo di Euro 422.000,00 (oltre IVA) da parte dell’esponente a RAGIONE_SOCIALE di COGNOME Marcello, ma potrebbe semmai giustificare un’azione di rescissione ultra dimidium ex art. 1448 c.c. o -quantomeno un’azione risarcitoria (entrambe mai proposte ed ormai prescritte) da parte dei coniugi COGNOME nei confronti di RAGIONE_SOCIALE di COGNOME.
Il quinto motivo di ricorso è così rubricato: Violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. per aver la Corte d’Appello dedotto una presunzione (asserita violazione del divieto di patto commissorio) da una precedente presunzione (pretesa simulazione della compravendita per interposizione fittizia), violando così il noto divieto della c.d. praesumptio de preasumpto.
Il quarto e il quinto motivo di ricorso sono inammissibili.
Deve ribadirsi che: In tema di prova per presunzioni, la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c. e dell’idoneità degli elementi presuntivi dotati di tali caratteri a dimostrare, secondo il criterio dell’ id quod plerumque accidit , i fatti ignoti da provare,
costituisce attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito (Cass. Sez. 1, 25/09/2023, n. 27266, Rv. 669130 – 01).
Peraltro, nel sistema processuale non esiste il divieto delle presunzioni di secondo grado, in quanto lo stesso non è riconducibile né agli artt. 2729 e 2697 c.c. né a qualsiasi altra norma, ben potendo il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituire la premessa di un’ulteriore presunzione idonea – in quanto a sua volta adeguata – a fondare l’accertamento del fatto ignoto; ne consegue che, qualora si giunga a stabilire, anche a mezzo di presunzioni semplici, che un fatto secondario è vero, ciò può costituire la premessa di un’ulteriore inferenza presuntiva, volta a confermare l’ipotesi che riguarda un fatto principale o la verità di un altro fatto secondario (Cass. Sez. 3, 27/05/2024, n. 14788, Rv. 671189 – 02).
Dunque, non si è realizzata alcuna violazione degli artt.2727 e 2729 c.c. e le complessive censure proposte dal ricorrente, anche là dove denunciano il vizio di violazione e falsa applicazione di legge, si risolvono nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto emerse nel giudizio di merito. Come si è più volte sottolineato, compito della Corte di cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici del merito (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 3267 del 12/02/2008, Rv. 601665), dovendo invece la Corte di legittimità limitarsi a controllare se costoro abbiano dato conto delle
ragioni della loro decisione e se il ragionamento probatorio, da essi reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile, ciò che, come dianzi detto, nel caso di specie è dato riscontrare.
Il ricorso è rigettato.
Nulla sulle spese non essendosi costituite le parti intimate.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater D.P.R. n. 115/02, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, I. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto;
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione