Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 9782 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 9782 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso R.G. n. 22747/2023
promosso da avv. NOME COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME in virtù di procura speciale in atti;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, rappresentata e difesa dal l’avv. p rof. NOME COGNOME in virtù di procura speciale in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2543/2023 della Corte d’ appello di Roma, pubblicata il 06/04/2023;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/01/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
letti gli atti del procedimento in epigrafe;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato all’avv. NOME COGNOME l’ Associazione professionale ‘RAGIONE_SOCIALE ha proposto appello avverso la
sentenza n. 8860/2019, con cui il Tribunale di Roma, in parziale accoglimento delle domande avanzate dal socio fondatore, avv. NOME COGNOME aveva dichiarato l’illegittimità delle delibere adottate nelle date 12/04/2016 e 13/06/2016, nella parte in cui avevano fissato i criteri di ripartizione degli utili risultanti dal bilancio relativo all’anno 2015, e aveva condannato l ‘Associazione al pagamento della somma di € 63.564,73, a titolo di utili relativi all’anno 2015, oltre interessi dalla domanda al sa ldo e spese (comprese quelle della fase cautelare).
A fondamento della decisione, il Giudice di primo grado aveva evidenziato che l’art. 14 .1. dello Statuto prevedeva che «Ogni anno i Soci Fondatori, all’unanimità, determinano l’ammontare degli utili risultanti dal rendiconto approvato che dovrà essere oggetto di distribuzione» , aggiungendo, al secondo comma, quanto segue: «14.2. I Soci, salvi diversi accordi, partecipano di anno in anno agli utili di cui è stata decisa la distribuzione secondo le percentuali concordate tra i Soci medesimi e fissate nell’Allegato A » . Il citato Allegato A stabiliva che ai Soci RAGIONE_SOCIALE spettasse una quota di partecipazione agli utili pari al 32% ciascuno, che al socio RAGIONE_SOCIALE spettasse una quota del 20% e che al socio RAGIONE_SOCIALE spettasse una quota del 16%.
Il Tribunale aveva ritenuto non contestato che -con riferimento a ll’anno 2015 – la ripartizione degli utili fosse stata effettuata sulla base di percentuali diverse rispetto a quelle indicate nell’Allegato A , aggiungendo che il fatto che anche nei due anni precedenti fossero state approvate percentuali diverse non consentiva di ritenere legittima la deroga ai menzionati criteri per l’anno 2015 , poiché, negli anni precedenti tale deroga era stata deliberata all’unanimità dei soci , mentre per il 2015 era stata decisa senza il consenso del socio fondatore NOMECOGNOME
Secondo il Tribunale, infatti, per la modifica dei criteri di ripartizione degli utili era necessario il consenso di entrambi i soci fondatori, poiché l’art.
14 dello Statuto rinviava alle percentuali fissate nell’Allegato A e tale disposizione, in base al successivo art. 23, poteva essere modificata solo con il voto unanime dei soci fondatori.
A sostegno dell’appello l’Associazione ha formulato due motivi di censura.
Con il primo motivo di appello (violazione degli articoli 1362, 1363, 1366 e 1367 c.c., in materia di interpretazione del contratto, e degli articoli 16 e 1372 c.c. sull’efficacia vincolante dello Statuto dell’Associazione , con erronea interpretazione, e conseguente violazione, degli articoli 14.1., 14.2. e 23 dello Statuto d ell’Associazione professionale ), l’appellante aveva contestato l’interpretazione delle norme statutarie di cui agli artt. 14 e 23, compiuta dal primo giudice.
Con il secondo motivo di appello ( error in procedendo per violazione dell’art. 228 c.p.c. e dell’art. 2723 c.c. in materia, rispettivamente, di interrogatorio formale e di prova per testi, nonché violazione degli articoli 19 e 22 dello Statuto e n ullità dell’art. 14 dello Statuto di GSP, in primo luogo ai sensi degli articoli 1418 e 1343 c.c. ) l’appellante aveva censurato lo stesso capo di sentenza in una diversa prospettiva.
Nel costituirsi l’appellato ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità dell’ impugnazione per manifesta infondatezza, chiedendone comunque il rigetto.
La Corte d’appello, con la sentenza indicata in epigrafe, respinta l’eccezione di inammissibilità del gravame, ha accolto l’impugnazione, così respingendo le domande formulate in primo grado dal COGNOME
La Corte distrettuale ha ritenuto fondato il primo motivo di impugnazione, con assorbimento del secondo.
La Corte d’appello non ha condiviso la decisione del primo Giudice, fondata sulla convinzione che, per ripartire gli utili ai soci in base ad una quota diversa da quella fissata nell’ Allegato A, dovesse essere operata una
modifica dei patti associativi, da adottarsi, ai sensi dell’art. 23 dell’atto costitutivo, con il voto unanime dei soci fondatori, nella specie mancante.
Il Giudice del gravame ha, infatti, rilevato che l’art. 14 , al comma 1, prevedeva che «Ogni anno i Soci Fondatori, all’unanimità, determinano l’ammontare degli utili risultanti dal rendiconto approvato che dovrà essere oggetto di distribuzione» , riservando alla decisione unanime dei due soci fondatori la determinazione dell’ammontare degli utili distribuibile tra tutti i soci, ma, poi, al successivo comma 2 disponeva che «I Soci, salvo diversi accordi, partecipano di anno agli utili di cui è stata decisa la distribuzione secondo le percentuali concordate tra i soci medesimi e fissate nell’Allegato A» , riconoscendo, quindi, a tutti i soci (fondatori e ordinari) il diritto alla partecipazione annua agli utili distribuibili (la cui entità doveva essere individuata dai soci fondatori), in base alle percentuali preventivamente concordate tra i soci medesimi e fissate nell’allegato A, in assenza di «diversi accordi» , per i quali non erano richieste particolari maggioranze, né il voto unanime dei soci fondatori, applicandosi, di conseguenza, la regola generale prevista per l’adunanza dei soci dall’art. 15.1 , ossia, per quanto di rilievo, la maggioranza dei voti computati per teste.
In altre parole, per la Corte territoriale la misura delle quote di partecipazione agli utili di cui al citato allegato A non era da considerare fissa e inderogabile, ben potendo essere modificata dai soci (fondatori e ordinari) con delibera adottata a maggioranza per teste. A diversa interpretazione non conduceva l’art. 23 dell’ Atto costitutivo, richiamato dal giudice di primo grado, che, come visto, richiedeva per la modifica (tra l’altro) della previsione di cui all’art. 14 il voto unanime dei soci fondatori, posto che i «diversi accordi» tra i soci sulle quote di partecipazione agli utili dei soci stessi non modificavano il contenuto di tale previsione, ma, anzi, costituivano esercizio di una facoltà espressamente riconosciuta proprio da essa.
La Corte territoriale ha così ritenuto che la misura delle quote di partecipazione agli utili di cui al citato Allegato A non era da considerare fissa e inderogabile, ben potendo essere modificata dai soci (fondatori e ordinari) con delibera adottata a maggioranza per teste.
Inoltre, la stessa Corte ha dato rilievo al fatto che l’art. 15.2. de llo Statuto riservava ai soci fondatori «i poteri espressamente indicati nel presente atto» , richiedendo decisioni o voti all’unanimità degli stessi, oltre che, come già detto, per la determinazione degli utili da distribuire (art. 14.1) e per la modifica dei patti associativi di cui agli artt. 14, 18 e 23 (art. 23), soltanto per il consenso a svolgere altre attività professionali (art. 7.4), redazione del bilancio e presentazione ai soci del rendiconto di gestione (art. 12.2), ammissione dei nuovi soci ordinari (art. 18.1), rinuncia al preavviso in caso di recesso dei soci ordinari (art. 19.1) e scioglimento dell’associazione (art. 22.2), ma non anche per i «diversi accordi» riguardanti la percentuale di ripartizione degli utili di cui al ridetto art. 14.2, adottabili dunque a maggioranza di tutti i soci.
A conferma della natura non fissa e predeterminata della quota di partecipazione degli utili indicata nell’atto costitutivo all’ Allegato A, la Corte d’appello ha dato rilievo alla documentazione prodotta, dalla quale emergeva che la modifica delle quote di partecipazione agli utili per gli esercizi precedenti a quello in questione (2010, 2011, 2012, 2013 e 2014) era stata sempre oggetto di specifici accordi tra i soci, raggiunti dopo ampia discussione, in base alla relazione svolta in merito ai diversi apporti professionali forniti dagli associati nel corso dell’anno.
Secondo la Corte territoriale, infine, non erano condivisibili gli argomenti utilizzati dall’appellato per contrastare i motivi di appello, tenuto conto che: a) l’art. 2262 c.c. non stabilisce il principio secondo cui il diritto alla quota di partecipazione agli utili è un diritto inviolabile e indisponibile, sul quale non può incidere la maggioranza, in quanto detta disposizione si limita a
stabilire che, salvo patto contrario, ciascun socio ha diritto di percepire la sua parte di utili dopo l’approvazione del rendiconto; b) nessun elemento dei patti associativi consentiva di affermare che il criterio predeterminato di partecipazione degli utili di cui all’ A llegato A, richiamato dall’art. 14.2, dovesse operare in tutte le ipotesi di eventuale mancato accordo tra tutti i soci; c) non vi era violazione del divieto di patto leonino di cui all’art. 2265 c.c., poiché tale previsione sanziona con la nullità l’esclusione totale e costante del socio dalla partecipazione al rischio d’impresa o dagli utili; d) le disposizioni dello Statuto non erano inficiate nemmeno da quanto dedotto dal difensore dell’appellato nel corso della discussione orale in ordine alla misura dell’opera prestata dal socio nel tempo ai fini della distribuzione degli utili.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’a vv. COGNOME affidato a tre motivi di censura.
L’Associazione professionale si è difesa con controricorso.
Nessuna delle parti ha depositato memoria difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso è censurata la decisione della Corte d’appello ai sensi dell’ art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., laddove ha omesso l’esame di comportamenti e fatti rilevanti ex art. 1362 , comma 2, c.c. idonei ad influire in modo decisivo sull’interpretazione dello Statuto dell’Associazione, e dunque sull’esito del giudizio, per cui, negli anni precedenti alle delibere in questa sede impugnate, i soci avevano sempre approvato all’unanimità le modifiche dei criteri indicati nell’Allegato A dello statuto.
Con il secondo motivo di ricorso è denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’ art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., nella parte in cui la Corte d’appello non ha considerato che, relativamente agli utili da distribuire dell’anno 2015, l’Associazione ha assunto a maggioranza
le determinazioni di cui all’art. 14, senza una specifica e previa delibera ex art. 14.1.
Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367 c.c. , ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., poiché la Corte d’appello, nell’interpretare le clausole statutarie applicabili alla fattispecie concreta (artt. 14 e 23, sopra riportati) è giunta alla conclusione per cui, per poter modificare le percentuali di distribuzione degli utili stabilite nell’Allegato A, non era necessaria l’unanimità dei Soci Fondatori, facendo esclusivo riferimento al significato letterale delle parole, all’interpretazione complessiva delle clausole e al principio di conservazione del contratto, operando una manifesta violazione delle norme che regolano l’attività interpretativa degli accordi negoziali e, in particolare, degli artt. 1362, 1366 e 1367 c.c.
Secondo il ricorrente, la Corte ha violato, in primo luogo, le disposizioni di cui all’art. 1362 c.c. , limitandosi a recepire il tenore letterale delle clausole, senza mai davvero interrogarsi sulla comune intenzione delle parti esplicitata nell’art. 14.2 e, in particolare, nell’inciso «salvi diversi accordi» , limitandosi a una lettura formalistica e letterale delle norme statutarie, la quale, tuttavia, da un lato, non poteva soddisfare l’indagine, tenuto conto della oggettiva ambiguità della locuzione letterale «salvi diversi accordi» , dall’altro e soprattutto, non la esimeva dall’indagare gli elementi extra -testuali, tenuto conto che l’art. 1362 c.c. prescrive, in sede ermeneutica, la prevalenza della comune intenzione dei contraenti sul senso letterale delle parole, ossia la ricerca del significato più attendibile in relazione alle loro posizioni giuridiche ed economiche. Tale indagine, per il ricorrente, è mancata del tutto, così come è conseguentemente mancato quel doveroso esame della condotta assunta dalle parti nelle riunioni dei soci svoltesi negli anni precedenti, allorché le ripartizioni degli utili erano sempre state assunte all’unanimità e, dunque, con l’unanime consenso dei Soci Fondatori.
In secondo luogo, ad opinione del Sibilla, la Corte ha violato la sopra richiamata gerarchia tra i criteri d’interpretazione del contratto, richiamando e facendo applicazione (peraltro erronea) del principio di conservazione del contratto, e cioè di uno dei principi che regolano l’interpretazione c.d. oggettiva, senza avere prima fatto doverosa e completa applicazione dei principi gerarchicamente sovraordinati, che devono guidare l’interpretazione c.d. soggettiva, che sono tesi ad accertare, appunt o, la ‘comune intenzione’ delle parti e che includono il comportamento delle parti, rilevante ai sensi dell’art. 1362 , comma 2, c.c., non potendo rilevare il mero accenno al comportamento degli associati, riferito alle precedenti delibere sulla ripartizione degli utili, assunte all’unanimità, trattandosi di un accenno – peraltro parziale e lacunoso – che la Corte ha introdotto ad abundantiam , dopo avere già espresso e motivato il proprio convincimento.
In terzo luogo, secondo il ricorrente, la Corte ha violato l ‘ art. 1367 c.c., posto che il principio di conservazione ivi esplicitato riguarda il contratto o le singole clausole, nel senso che essi devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo in cui non ne avrebbero alcuno, ma oggetto di valutazione sono il contratto o le singole clausole, e non i singoli incisi o parti di clausole. Sicché, ammesso che il principio di conservazione, menzionato nell’ incipit della motivazione impugnata, dovesse riferirsi all’inciso ‘salvi diversi accordi’ nei termini sopra ipotizzati (e, peraltro, non esplicitati in altro modo dalla Corte), v’ era da considerare come tale principio fosse stato impropriamente invocato. E ciò perché, pur interpretando l’inciso nei termini seguiti dal Tribunale , e sostenuti dal ricorrente, la clausola statutaria di cui all’art. 14.2 manterrebbe -innegabilmente – la propria efficacia.
In quarto e ultimo luogo, secondo il ricorrente, la Corte ha violato l’art. 1366 c.c. nella misura in cui l’interpretazione letterale delle clausole
statutarie in questione, adottata dalla Corte d’Appello , si scontra con il canone della buona fede che – nella sua interpretazione giurisprudenziale si specifica nell’attenzione allo scopo pratico perseguito dalle parti con la stipulazione del contratto, nel significato di lealtà, nel non contestare ragionevoli affidamenti ingenerati nella controparte. Sotto tale profilo, il ricorrente ha ritenuto ch e l’interpretazione formalistica della Corte d’ appello fosse incompatibile con il fondamentale canone di cu i all’art. 1366 c.c., poiché: – era del tutto irragionevole ipotizzare che il consenso unanime dei Soci Fondatori fosse stato previsto per determinare l’ammontare degli utili da distribuire e, insieme, che da un tale consenso unanime si sia voluto prescindere per variare le quote di partecipazione agli utili, così come statutariamente previste (e ciò anche considerando che le quote di partecipazione rappresentano l’elemento principale e sostanziale dei diritti associativi); le due decisioni prescritte dall’art. 14.1 e dall’art. 14.2 erano sì distinte, ma chiaramente connesse e – a lato pratico – sempre e costantemente assunte insieme. Sicché, fondatamente, l’esponente avv. COGNOME nel suo ruolo di Socio Fondatore confidava che nessuna modifica dei criteri di ripartizione degli utili così come stabiliti nell’Allegato A, avrebbe potuto essere deliberata senza il proprio consenso.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
2.1. Com’è noto, l ‘interpretazione del contratto, traducendosi in una operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in una indagine di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in cassazione, oltre che per violazione delle regole ermeneutiche, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., anche nell’ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c. (Cass., Sez. L, Sentenza n. 10745 del 04/04/2022).
La nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c. consente l’impugnazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c. «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti» .
In primo luogo, occorre evidenziare che quest’ultimo inciso sta a significare che il fatto dedotto come non esaminato dal giudice deve comunque essere entrato nel dibattito processuale, e ciò al fine di evitare che vengano sottoposte alla Corte di cassazione questioni fattuali nuove.
La norma si riferisce al mancato esame di un fatto decisivo, che è stato oggetto di discussione tra le parti, da intendersi come un vero e proprio fatto storico, come un accadimento naturalistico (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
Costituisce, pertanto, un fatto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., non una questione o un punto controverso, ma un vero e proprio evento, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass., Sez. 61, Ordinanza n. 2268 del 26/01/2022; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 22397 del 06/09/2019; Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 24035 del 03/10/2018; v. anche Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 13024 del 26/04/2022).
Può trattarsi di un fatto principale ex art. 2697 c.c. (un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche di un fatto secondario (un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché sia controverso e decisivo (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 17761 del 08/09/2016), nel senso che il mancato esame, evincibile dal tenore della motivazione, ha determinato l’esito del giudizio , che sarebbe stato diverso nel caso in cui fosse stato esaminato.
Già la giurisprudenza formatasi sull’interpretazione del vecchio testo dell’art. 360 , comma 1, n. 5), c.p.c. affermava che per aversi un ‘ punto decisivo ‘ è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato
ad una diversa soluzione della vertenza, affermando che il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato (v. ad esempio Cass., Sez. L, Sentenza n. 10156 del 26/05/2004).
Il principio si ritrova in numerose decisioni anche dopo la riforma del 2012 (cfr. Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 17005 del 20/06/2024; Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 27415 del 29/10/2018).
La decisività presuppone, dunque, un giudizio prognostico rigoroso sulla incidenza del fatto omesso nella complessiva valutazione del giudice.
2.2. Nel caso di specie, come sopra evidenziato, la Corte d’appello ha ritenuto che l’art. 14 dello Statuto, al comma 1, prevedeva che «Ogni anno i Soci Fondatori, all’unanimità, determinano l’ammontare degli utili risultanti dal rendiconto approvato che dovrà essere oggetto di distribuzione» , riservando alla decisione unanime dei due soci fondatori la determinazione dell’ammontare degli utili distribuibile tra tutti i soci, ma, poi, al successivo comma 2 disponeva che «I Soci, salvo diversi accordi, partecipano di anno agli utili di cui è stata decisa la distribuzione secondo le percentuali concordate tra i soci medesimi e fissate nell’Allegato A» , riconoscendo, quindi, a tutti i soci (fondatori e ordinari) il diritto alla partecipazione annua agli utili distribuibili (la cui entità doveva essere individuata dai soci fondatori), in base alle percentuali preventivamente concordate tra i soci medesim i e fissate nell’ Allegato A, in assenza di «diversi accordi» , per i quali non erano richieste particolari maggioranze, né il voto unanime dei soci fondatori, applicandosi, di conseguenza, la regola generale prevista per l’adunanza dei soci dall’art. 15.1, ossia, per quanto di rilievo, la maggioranza dei voti computati per teste.
In altre parole, per la Corte territoriale, la misura delle quote di partecipazione agli utili, di cui al citato Allegato A, non era da considerare fissa e inderogabile, ben potendo essere modificata dai soci (fondatori e ordinari) con delibera adottata a maggioranza per teste, ritenendo che, diversa interpretazione non conduceva l’art. 23 dell o Statuto, riguardante la modificazione dei patti associativi -ove era previsto quanto segue: «l presenti patti associativi potranno essere modificati con delibera adottata dai Soci anche a maggioranza (da calcolarsi in base a quanto previsto all’art. 15), ad eccezione delle previsioni di cui agli art. 14, 18 e 23 per la cui modifica sarà comunque necessario il voto unanime dei Soci Fondatori» -posto che i «diversi accordi» tra i soci sulle quote di partecipazione agli utili dei soci stessi non modificavano il contenuto di tale previsione, ma, anzi, costituivano esercizio di una facoltà espressamente riconosciuta proprio da essa e in nessuna altra disposizione era previsto che, per la determinazione delle quote di utili da distribuire fosse richiesta l’unanimità dei soci fondatori, stabilita, invece, per altre specifiche ipotesi.
È pertanto evidente che, nell’economia della decisione impugnata, la presenza o meno d ell’unanimità degli accordi presi dagli associati per la distribuzione degli utili, negli anni precedenti al 2015, non assume alcun rilievo, tenuto conto che la Corte d’appello ha interpretato la clausola statutaria nel senso che i diversi accordi per individuare la quota di distribuzione degli utili, previsti dall’art. 14.2 dello Statuto non richiedessero l’unanimità dei soci fondatori, ma la maggioranza dei voti , computati per teste ai sensi dell’art. 15 dello Statuto , senza che ciò comportasse una modifica de ll’ art. 14 dello Statuto, disciplinata dal successivo art. 23, ma, piuttosto, un ‘applicazione dello stesso.
Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
3.1. Come sopra evidenziato, il disposto dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c. si riferisce, inoltre, al mancato esame di un fatto decisivo, che è stato
oggetto di discussione tra le parti, da intendersi come un vero e proprio fatto storico, come un accadimento naturalistico (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
Non integrano, pertanto fatti il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. le mere argomentazioni o le deduzioni difensive (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 2268 del 26/01/2022; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 22397 del 06/09/2019; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 14802 del 14/06/2017).
Per gli stessi motivi, non costituisce omesso esame, nei termini appena indicati, la mancata valutazione di domande o di eccezioni, ovvero dei motivi di appello (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 29952 del 13/10/2022).
Il vizio attiene solo alle questioni di fatto, non anche alle questioni di diritto, il cui omesso esame non può mai dar luogo alla cassazione della sentenza in virtù di tale censura.
Tenendo in conto, dunque, le previsioni degli artt. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., la censura ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. richiede l’indicazione del “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
3.2. Nel caso di specie, il ricorrente ha dedotto che la Corte di appello non ha tenuto conto che egli non aveva approvato il bilancio 2015 né, a fortiori, la determinazione degli utili che, in ipotesi, avrebbero dovuto essere distribuiti ex art. 14.1 dello Statuto. Circostanze, queste, che avrebbero dovuto essere considerate ed esaminate dalla Corte, giacché proprio il
mancato consenso di uno dei Soci Fondatori alla distribuzione degli utili ex art. 14.1, invalidava la successiva delibera, assunta a maggioranza, ex art. 14.2.
La censura si risolve nel dedotto mancato riscontro di un vizio delle decisioni impugnate, con le quali erano state determinate le quote di utili da distribuire riferite all’anno 2015, per invalidità derivata in conseguenza della invalidità della delibera di approvazione del bilancio che individuava gli utili da distribuire.
Non si tratta, dunque, dell’omesso esame di un fatto storico, ma della ritenuta mancata pronuncia su di un motivo di cesura.
Peraltro non può effettuarsi una riqualificazione della censura, poiché della questione appena richiamata non vi è menzione nella sentenza impugnata e il ricorrente non ha neppure dedotto di avere formulato con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado la corrispondente doglianza quale preciso motivo di censura delle deliberazioni impugnate, avendo semplicemente riportato parziali e non contestualizzate sintetiche argomentazioni svolte nel corso dei gradi di merito (p. 19-20 del ricorso per cassazione), che non consentono di ritenere che tale questione sia stata ritualmente introdotta, quale ragione fondante la domanda formulata nell’atto introduttivo , e riproposta in appello, sicché, in assenza di specifiche argomentazioni sul punto, deve ritenersi che si tratta di censure nuove (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 18018 del 01/07/2024; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 20694 del 09/08/2018; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 15430 del 13/06/2018).
Il terzo motivo di ricorso è inammissibile.
4.1. Come sopra evidenziato, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito.
Pertanto, il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 9461 del 09/04/2021).
La censura svolta dal ricorrente che lamenti la violazione o la mancata applicazione dei un criterio di interpretazione negoziale, per non risultare inammissibile deve essere specifica, dovendo indicare quali siano gli elementi del contratto che avrebbero precluso l’interpretazione seguita dal giudici di merito e, al contrario, imposto una interpretazione nel senso suggerito dalla parte, poiché, nel giudizio di legittimità, le censure relative all’interpretazione del contratto offerta dal giudice di merito possono essere prospettate solo in relazione al profilo della mancata osservanza dei criteri legali di ermeneutica contrattuale o della radicale inadeguatezza della motivazione, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, mentre la mera contrapposizione fra l’interpretazione proposta dal ricorrente e quella accolta dai giudici di merito non riveste alcuna utilità ai fini dell’annullamento della sentenza impugnata (Sez. 1, Ordinanza n. 995 del 20/01/2021).
In tale quadro, a norma dell’art. 1362 c.c., il dato testuale del contratto, pur importante, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione della volontà delle parti, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, che non
può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare, atteso che un’espressione prima facie chiara può non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti. Ne consegue che l’interpretazione del contratto, da un punto di vista logico, è un percorso circolare che impone all’interprete, dopo aver compiuto l’esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l’intenzione delle parti e quindi di verificare se quest’ultima sia coerente con le restanti disposizioni del contratto e con la condotta delle parti medesime. (Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 32786 del 08/11/2022; Cass., Sez. L, Sentenza n. 24699 del 14/09/2021; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 13595 del 02/07/2020).
4.2. Nel caso di specie la Corte di appello ha rilevato che l’art. 14, al comma 1, prevedeva che «Ogni anno i Soci Fondatori, all’unanimità, determinano l’ammontare degli utili risultanti dal rendiconto approvato che dovrà essere oggetto di distribuzione» , così riservando alla decisione unanime dei due soci fondatori la determinazione dell’ammontare degli utili distribuibile tra tutti i soci, ma, poi, al successivo comma 2 disponeva che «I Soci, salvo diversi accordi, partecipano di anno agli utili di cui è stata decisa la distribuzione secondo le percentuali concordate tra i soci medesimi e fissate nell’Allegato A» . Ha quindi ritenuto che la norma riconosceva a tutti i soci (fondatori e ordinari) il diritto alla partecipazione annua agli utili distribuibili (la cui entità doveva essere individuata dai soci fondatori), in base alle percentuali preventivamente concordate tra i soci medesimi e fissate nell’allegato ‘A’, solo in assenza di «diversi accordi» , per i quali non erano richieste particolari maggioranze, né il voto unanime dei soci fondatori, dovendo pertanto applicarsi la regola generale prevista dall’art.
15.1., ossia, per quanto di rilievo, la maggioranza dei voti computati per teste.
La Corte territoriale ha così ritenuto che la misura delle quote di partecipazione agli utili di cui al citato Allegato A non era da considerare fissa e inderogabile, ben potendo essere modificata dai soci (fondatori e ordinari) con delibera adottata a maggioranza per teste.
Secondo la Corte, non conduceva a diversa interpretazione l’art. 23 dell o Statuto, che richiedeva per la modifica (tra l’altro) della previsione di cui all’art. 14 il voto unanime dei soci fondatori, posto che la possibilità che vi fossero «diversi accordi» tra i soci per la determinazione delle quote di partecipazione agli utili era prevista in detto articolo e, pertanto, il ricorso a tali accordi, non modificava il contenuto delle relative previsioni, ma, anzi, costituiva esercizio di una facoltà ivi espressamente riconosciuta.
Inoltre, la stessa Corte ha dato rilievo al fatto che l’art. 15.2. de llo Statuto riservava ai soci fondatori «i poteri espressamente indicati nel presente atto» , richiedendo decisioni o voti all’unanimità degli stessi, oltre che, come già detto, per la determinazione degli utili da distribuire (art. 14.1) e per la modifica dei patti associativi di cui agli artt. 14, 18 e 23 (art. 23), soltanto per il consenso a svolgere altre attività professionali (art. 7.4), redazione del bilancio e presentazione ai soci del rendiconto di gestione (art. 12.2), ammissione dei nuovi soci ordinari (art. 18.1), rinuncia al preavviso in caso di recesso dei soci ordinari (art. 19.1) e scioglimento dell’associazione (art. 22.2), ma non anche per i «diversi accordi» riguardanti la percentuale di ripartizione degli utili di cui al ridetto art. 14.2, adottabili dunque a maggioranza di tutti i soci.
A conferma della natura non fissa e predeterminata della quota di partecipazione degli utili indicata nell’atto costitutivo all’ Allegato A, la Corte d’appello ha dato rilievo alla documentazione prodotta, dalla quale emergeva che la modifica delle quote di partecipazione agli utili per gli
esercizi precedenti a quello in questione (2010, 2011, 2012, 2013 e 2014) era stata sempre oggetto di specifici accordi tra i soci, raggiunti dopo ampia discussione, in base alla relazione svolta in merito ai diversi apporti professionali forniti dagli ass ociati nel corso dell’anno.
Secondo la Corte territoriale, infine, non erano condivisibili gli argomenti utilizzati dall’appellato per contrastare i motivi di appello, tenuto conto che: a) l’art. 2262 c.c. non stabilisce il principio secondo cui il diritto alla quota di partecipazione agli utili è un diritto inviolabile e indisponibile, sul quale non può incidere la maggioranza, in quanto detta disposizione si limita a stabilire che, salvo patto contrario, ciascun socio ha diritto di percepire la sua parte di utili dopo l’approvazione del rendiconto; b) nessun elemento dei patti associativi consentiva di affermare che il criterio predeterminato di partecipazione degli utili di cui all’ A llegato A, richiamato dall’art. 14.2, dovesse operare in tutte le ipotesi di eventuale mancato accordo tra tutti i soci; c) non vi era violazione del divieto di patto leonino di cui all’art. 2265 c.c., poiché tale previsione sanziona con la nullità l’esclu sione totale e costante del socio dalla partecipazione al rischio d’impresa o dagli utili; d) le disposizioni dello Statuto non erano inficiate nemmeno da quanto dedotto dal difensore dell’appellato nel corso della discussione orale in ordine alla misura dell’opera prestata dal socio nel tempo ai fini della distribuzione degli utili.
4.3. La Corte ha dunque operato il percorso interpretativo secondo il criterio sopra descritto, avendo esaminato il testo letterale della previsione oggetto di interpretazione, ponendola in relazione con l’altra previsione contenuta nello stesso articolo, mettendola in raccordo con le altre disposizioni contenute nei patti associativi ed evidenziando come il comportamento tenuto dagli associati fosse coerente con l’interpretazione fornita, ritenuta conforme anche ai principi che regolano il riparto degli utili anche società di persone.
Le censure del ricorrente, riferite agli artt. 1362 e 1363 c.c. costituiscono la prospettazione di una diversa interpretazione dei patti associativi, che non condivide il risulta interpretativo del Giudice che, contrariamente agli assunti della parte ha tenuto del significato complessivo delle clausole e del comportamento tenuto nel tempo dagli associati, sia pure con esito diverso rispetto a quello inteso dalla parte, che, dunque, ha formulato censure che attengono al giudizio di merito.
La ritenuta violazione del disposto dell’art. 1367 c.c. è formulata in modo del tutto generica, perché si rapporta a un contenuto ipotetico della decisione, da ritenersi in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c.
Anche il riferimento al criterio della buona fede interpretativa è del tutto assertivo e generico, sganciato dal tenore della motivazione, ove il Giudice di merito ha evidenziato come la previsione così come interpretata, non era contraria neppure ai criteri che reggono la ripartizione degli utili nelle società di persone.
In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
La statuizione sulle spese segue la soccombenza.
In applicazione dell’art. 13, comma 1 quater , d.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte
rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali sostenuta dalla controparte, che liquida in € 5.000,00 per compenso ed € 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge;
dà atto, in applicazione dell’art. 13, comma 1 quater , d.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile