SENTENZA CORTE DI APPELLO DI BARI N. 1229 2025 – N. R.G. 00001561 2022 DEPOSITO MINUTA 29 07 2025 PUBBLICAZIONE 11 08 2025
(P. IVA P.
,) con la mandataria con rappresentanza
(c.f.
(quale successore
P.
ex art 111 cpc) rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME giusta procura
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Corte di Appello di Bari
Seconda Sezione Civile
in persona dei magistrati
NOME COGNOME
presidente
NOME COGNOME
consigliere
NOME COGNOME
consigliere, relatore
ha pronunziato la presente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al numero 1561 del registro generale per gli affari contenziosi di secondo grado dell’anno 2022, posta in deliberazione sulle conclusioni delle parti all’udienza del 14 febbraio 2025, con contestuale concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.
TRA
(C.F.
), elettivamente domiciliato
C.F.
in Bari alla INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME che lo rappresenta e difende in virtù di procura versata in atti, nonché al domicilio telematico del predetto difensore, ;
APPELLANTE
E
versata in atti, ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo, in Taranto al INDIRIZZO nonché al domicilio telematico
APPELLATA
NONCHE’
TABLE
APPELLATA CONTUMACE
oggetto: opposizione agli atti esecutivi, appello avverso la sentenza n.3699/2022 del 11/10/2022 del Tribunale di Bari, pubblicata il 13/10/2022
Conclusioni
All’udienza del 14/12/2025 i procuratori delle parti hanno precisato le conclusioni a mezzo di note di trattazione scritta, riportandosi ai rispettivi scritti difensivi.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO.
Con atto di pignoramento immobiliare del 15/09/1997, la , sulla scorta del decreto ingiuntivo n. 1609/96 emesso dal Tribunale di Bari in data 14/12/1996 nei confronti della e del fideiussore notificato in forma esecutiva il 13.01.1997, per l’importo di Lire 676.232.375 oltre interessi e spese, pignorò a quest’ultimo i diritti pari ad ½ della nuda proprietà della porzione di fabbricato adibito ad autosilo in Bari al c.INDIRIZZOa strada privata INDIRIZZO numeri 2, 4, 6 e 8, composto da piano terra e sette piani superiori oltre volume tecnico per macchinari all’8° piano.
Dopo la perizia di stima dell’immobile pignorato ed il deposito della comunicazione ex art. 599 cpc ai comproprietari, all’udienza del 25/02/2008 il giudice dell’esecuzione sospese la procedura esecutiva fino all’esito del giudizio di divisione ex art. 600 c.p.c. Con ordinanza resa in pari data, ai sensi dell’art. 181, comma 2, disp. att. c.p.c., lo stesso giudice dispose l’istruzione del giudizio di divisione su detto bene, fissando per la comparizione delle parti l’udienza del 17/12/2008, e concesse ai creditori termine perentorio fino a 60 giorni prima per l’integrazione del contraddittorio.
Nessuno dei creditori notificò al debitore l’ordinanza ex art. 600 c.p.c.
si costituì ed il G.E., fissata per la comparizione delle parti l’udienza del 28/09/2009, dichiarò l’estinzione della procedura.
Nel frattempo, con atto di precetto del 05/03/2009, la
e per essa la intimò alla fallita ed al
il pagamento della complessiva somma di € 375.610,97 in forza dello ste sso D.I. n. 1609/96.
In data 23/05/2009 notificò atto di pignoramento, eseguito sullo stesso immobile di proprietà del staggito nella procedura avente R.G. 827/97, in quel momento ancora pendente. La procedura venne iscritta con N.R.G. 407/09.
Il debitore pignorato propose opposizione al pignoramento con ricorso del 05/06/2009, notificato il 14/07/2009, chiedendo al GE di ‘ a) dichiarare la nullità e/o l’inefficacia del pignoramento opposto per le eccezioni di prescrizione ordinaria decennale del credito fatto valere e di mancanza e/o difetto della procura generale rilasciata al difensore del creditore procedente; b) consegue ntemente, emettere l’ordine a carico del creditore procedente di cancellare la trascrizione del pignoramento eseguito il 23/05/2009, manlevando il Direttore dell’Agenzia da ogni responsabilità; c) Con vittoria di spese di lite ‘.
L’opposizione venne rigettata; quindi, con citazione del 18/01/2011 si incardinò il relativo giudizio di merito della opposizione alla esecuzione innanzi al Tribunale di Bari con RG n. 890/11.
L’opponente si dolse della intervenuta prescrizione del diritto della creditrice fondato sul Decreto Ingiuntivo e chiese quindi che fosse dichiarata la nullità e/o l’inefficacia del pignoramento, con conseguente cancellazione della relativa trascrizione.
Si costituì in primo grado , impugnando e contestando integralmente le pretese del chiedendone il rigetto.
Con comparsa del 15/12/2019 si costituì nel primo grado con la mandataria con rappresentanza con atto di intervento volontario ex art .111 cpc.
Il Tribunale di Bari, con sentenza n. 3699/2022 del 11/10/2022, pubblicata il 13/10/2022, ha rigettato l’opposizione, in parte inammissibile e in parte infondata.
Il giudice adito ha qualificato la domanda come opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., perché diretta a negare l’esistenza del diritto di procedere in executivis ; ha poi rammentato che in sede di opposizione all’esecuzione intrapresa in forza di un decreto ingiuntivo, ‘il debitore non può contestare il diritto del creditore per ragioni che avrebbe potuto, e dovuto, far valere nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, ma può far valere esclusivamente fatti modificativi o estintivi sopravvenuti’ (Cass. n. 27159/2006; n. 27160/2006). Le eventuali cause di nullità o di illegittimità del titolo esecutivo di provenienza giudiziale possono essere, pertanto, dedotte esclusivamente con il rimedio previsto dall’art. 645 c.p.c., preordinato alla delibazione nel merito della fondatezza del titolo medesimo.
Nella specie, le l’eccezione di nullità della fideiussione, perché incentrata su fatti e circostanze anteriori alla formazione del titolo, sono state dal Tribunale giudicate inammissibili, risultando preclusa, in sede di opposizione alla esecuzione, la verifica della legittimità del titolo esecutivo perché deducibili nell’ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.
Quanto alla dedotta prescrizione, l’Istituto di Credito opposto depositò nel 1997 l’istanza di ammissione al passivo del obbligata in solido con il in forza del medesimo decreto ingiuntivo n. 1609/96, e il credito fu ammesso al passivo in chirografo per Lire 815.712.250 in data 8/9/1998, mentre lo stato passivo fu dichiarato esecutivo in data 30/6/1999. Ai sensi dell’art. 1310 c.c., gli atti interruttivi della prescrizione nei confronti di uno dei debitori in solido hanno effetto anche nei confronti degli altri debitori.
Di conseguenza, secondo il primo giudice l’istanza di ammissione allo stato passivo del ha prodotto l’effetto di interrompere la prescrizione nei confronti sia del stesso, sia di quale obbligato in solido, fino alla conclusione della procedura fallimentare.
Il Tribunale di Bari ha, pertanto, così provveduto:
‘I) RIGETTA l’opposizione;
II) RIGETTA ogni altra domanda;
III) CONDANNA l’opponente, alla rifusione, in favore della
e
per essa della
e
della
in persona della mandataria
delle spese processual i, che liquida in € 7.456,10 quanto alla opposta e in €4.696,00 quanto alla interventrice volontaria, oltre a rimborso spese forfettarie nella misura del 15%, cap e iva come per legge’.
La sentenza è stata impugnata da
si è a sua volta costituita in giudizio eccependo l’inammissibilità dell’avverso gravame ex art 342 cpc.
È utile sin da ora premettere che, come si vedrà, l’appello è ammissibile.
Occorre rammentare che il testo dell’art. 342 c.p.c. impone all’appellante di individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatur , circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, in modo che siano idonee a determinare le modifiche della decisione censurata (cfr. Cass. 2017/n. 13151).
In altri termini, l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze che ad essa si contrappongano, mirando ad incrinarne il fondamento logicogiuridico, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contesti le ragioni addotte dal primo giudice (cfr. Cass. 2019/n. 3194).
È pure possibile, poi, che l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, possa sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, non essendo necessaria l’allegazione di profili fattuali e giuridici aggiuntivi, a condizione tuttavia che ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice (cfr. Cass. 2022/n. 20123; Cass. 2020/n. 23781). Naturalmente, tenuto conto dell’ampiezza e della complessità della motivazione che si intende contestare.
Senza, però, che l’atto debba rivestire una forma vincolata o sacramentale o, come talvolta si sostiene, senza che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado; tanto, tenuto conto della permanente natura di ‘ revisio prioris instantiae ‘ del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (cfr. Cass. 2017/n. 27199, pronunciata a Sezioni Unite; Cass. 2018/n. 13535).
Nel caso di specie, deve giudicarsi ammissibile l’impugnazione in quanto l’istante ha articolato le ragioni per cui la pronuncia gravata sarebbe errata in misura coerente con le ragioni dedotte dal Tribunale a sostegno del rigetto della opposizione perché ritenuta infondata e, in parte, inammissibile.
In sostanza, risultano sufficientemente individuate le parti della sentenza appellata e le ragioni di dissenso con le conseguenze che, secondo la prospettazione dell’appellante, ne derivano.
Così devolvendo, in modo adeguato, le proprie doglianze al giudice di secondo grado sicchè, tra le varie interpretazioni possibili della disciplina di cui all’art. 342 c.p.c. novellato, deve essere preferita quella che, in presenza di una certa chiarezza delle parti della pronuncia non condivisa e dei motivi prodotti a sostegno del dissenso, consenta una pronuncia nel merito del gravame.
Con il primo motivo di impugnazione, il si è doluto della presunta erroneità della motivazione in relazione alla ritenuta inammissibilità dell’eccezione di nullità della fideiussione per violazione dell’art. 2 della legge antitrust (l. n. 287/90) per la natura ‘omnibus’ della fideiussione, laddove il giudice estensore aveva statuito che ‘ …deve, anzitutto evidenziarsi che in sede di opposizione all’esecuzione intrapresa in forza di un decreto ingiuntivo, ‘il debitore non può contestare il diritto del creditore per ragioni che avrebbe potuto, e dovuto far valere nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, ma può far valere esclusivamente fatti modificativi o estintivi sopravvenuti…Le eventuali cause di nullità o di illegittimità del titolo esecutivo di provenienza giudiziale possono essere, pertanto, dedotte esclusivamente con il rimedio previsto dall’art. 645 c.p.c., preordinato alla delibazione nel merito della fondatezza del titolo medesimo’ .
Nello specifico, l’opposizione riguardava in primo luogo la nullità del contratto di fideiussione per violazione dell’art. 2 della L. 287 del 1990 (norme per la tutela della concorrenza e del mercato) con particolare riferimento alla clausola del contratto di fideiussione -basato su un modello elaborato dall’ABI che prevede la deroga dell’art. 1957 c.c. e alle cd. clausole di reviviscenza e sopravvenienza nonché sulla natura ‘Omnibus’ della fideiussione.
Nel caso di specie, la banca ed i successori a titolo particolare intervenuti rimanevano inerti nei confronti del sig. per oltre 12 anni, dunque ben oltre il termine previsto dall’art. 1957 c.c., il cui scopo precipuo, come è ben noto, è evitare il protrarsi della situazione di incertezza in capo al fideiussore.
L’art. 1957 c.c. ha esposto l’appellante – nell’imporre al creditore l’onere di proporre le sue istanze contro il debitore entro sei mesi dalla scadenza per l’adempimento dell’obbligazione garantita dal fideiussore, a pena di decadenza dal suo diritto verso quest’ultimo, tende a far sì che il creditore stesso prenda sollecite iniziative contro il debitore principale per recuperare il proprio credito, in modo che la posizione del garante non resti indefinitamente sospesa.
L’appellante ha poi evidenziato che nel caso di specie, se è pur vero che non sono stati prodotti in giudizio il provvedimento della banca d’Italia n. 55/2005 ed il parere AGICOM del 20 aprile 2005, deve però dirsi che nel giudizio di primo grado sono emer si tutti gli elementi, ampiamente richiamati dalla giurisprudenza sull’argomento, comprovanti che il contratto di fideiussione fatto sottoscrivere dalla Banca al fideiussore risultava riflettere in toto lo schema predisposto dall’ABI censurato oggetto della violazione dell’articolo 2, comma 2, lettera A della L. n. 287 del 1990 (c.d. Legge Antitrust), in particolare in relazione alle clausole relative a: i) la reviviscenza della fideiussione in caso di annullamento, inefficacia o revoca del pagamento effettuato; ii) la deroga all’art. 1957 c.c., che impone l’onere in capo al creditore di attivarsi giudizialmente nei confronti del debitore principale entro sei mesi dalla scadenza dell’obbligazione; iii) la sopravvivenza della fideiussione in caso di invalidità dell’obbligazione principale. Clausole che nel caso che ci occupano risultano tutte sussistere.
Circa la ritenuta inammissibilità dei dedotti profili di nullità, in ragione della circostanza che si riferiscono ad una pretesa creditoria basata su un D.I. divenuto definitivo, ha asserito che:
(i) il profilo della nullità è una patologia del rapporto giuridico non soggetta a prescrizione;
(ii) (ii) il profilo della nullità è un profilo oggetto di rilievo, anche d’ufficio, in ogni stato e grado di un giudizio;
(iii) (iii) il profilo dell’accertamento della nullità ha effetti retroattivi sulla non validità ab origine del rapporto oggetto di comminatoria in tal senso.
Se il profilo di nullità dedotto della fideiussione è rilevabile d’ufficio per la prima volta anche nella fase di appello e gli effetti della nullità hanno efficacia retroattiva (quindi facendo perdere efficacia al rapporto sin dalla sua genesi non essendo mai stato idoneo a produrre effetti), nella prospettazione fornita dall’appellante ‘..la delibazione da parte del giudicante, in relazione ai profili di nullità, può intervenire, mutatis mutandis e nell’ambito del principio del iura novit curia, in tutte le sedi in cui venga avanzata per la prima volta la pretesa legata ad un profilo di nullità e ciò a prescindere che la richiesta sia basata su un provvedimento coperto dal giudicato’; con la specificazione che ‘ tale fondamento può perdere valenza solo nell’ipotesi in cui sia già intervenuta una delibazione sulla nullità di senso contrario al riconoscimento della stessa. In quest’ultimo caso, infatti, il diritto a sollevare il profilo di nullità può essere ritenuto consumato (in armonia con la giurisprudenza in argomento).
A sostegno di tale teoria, l’appellante ha ricordato che la Corte di Cassazione ha confermato il suo orientamento con la sentenza n. 4175 del 19 febbraio 2020 chiarendo che ‘ La nullità della fideiussione per conformità allo schema redatto secondo il modello ABI (relativamente alle clausole di sopravvivenza, reviviscenza e rinuncia ai termini di cui all’art. 1957 c.c.) giudicato dall’Autorità garante, allora preposta, come frut to di un’intesa orizzontale restrittiva della concorrenza (come da atto di accertamento della Banca d’Italia, n. 55 del 2 maggio 2005) può essere rilevata d’ufficio per la prima volta anche in sede di legittimità purché sussistano gli elementi necessari per poterla rilevare sulla base di dati fattuali già acquisiti e nel rispetto del contraddittorio. Detto principio, espresso di recente dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 4175 del 19.02.2020, trova riscontro nelle sentenze gemelle dei Giudici di INDIRIZZO pronunciatisi a Sezioni Unite (sentenze n. 26242 e 26423 del 2014), con le quali si è stabilito che ‘ la domanda di accertamento della nullità contrattuale proposta, per la prima volta, anche in sede di appello è inammissibile ex art. 345, comma primo, c.p.c., salva la possibilità del Giudice investito del gravame di convertirla ed esaminarla come eccezione di nullità legittimamente formulata dall’appellante, ex art. 345, comma secondo, c.p.c.
Infine, ha osservato che la declaratoria di nullità della fideiussione sarebbe auspicabile al fine di perseguire interessi coincidenti con valori costituzionalmente rilevanti e con l’uguaglianza non solo formale tra contraenti in posizione asimme trica, e che il potere di rilievo d’ufficio delle nullità del contratto per violazione di norme imperative (non essendo mai stata delibata) spetta anche al giudice investito del gravame, laddove la controversia sul riconoscimento di una pretesa presuppone la validità ed efficacia del rapporto contrattuale sottostante.
Il motivo è infondato e deve essere respinto.
Come si è evidenziato, il credito azionato trova fondamento in un decreto ingiuntivo non opposto, non più suscettibile di revisione o impugnazione.
Sicchè è corretto l’assunto su cui si incentra la sentenza gravata: ‘…nella specie, le deduzioni dell’opponente in punto di nullità della fideiussione afferiscono a fatti e circostanze anteriori alla formazione del titolo e si appalesano, pertanto, inammissibili, risultando preclusa, in sede di opposizione alla esecuzione, la verifica della legittimità del titolo, basata su questioni dedotte o deducibili nell’ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo », mentre del tutto privi di pregio risultano i riferimenti giurisprudenziali addotti da parte appellante, in quanto riferibili a fattispecie affatto dissimili a quella odierna ed ad esse circoscritta dal giudice di legittimità.
Allorché con i rimedi oppositivi si intende contestare un titolo esecutivo di formazione giudiziale possono farsi valere solo vizi consistenti nella inesistenza originaria o nella sua successiva caducazione (cfr. Cass. 2020/n. 3716; Cass. 2004/ n. 22430), nel mentre non si possono proporre in sede esecutiva i vizi originari dello stesso e, in generale, motivi che potevano e dovevano costituire il fondamento dell’impugnazione del titolo. Ciò in quanto il giudice dell’opposizione non può effettuare alcun controllo nel merito del provvedimento giurisdizionale che costituisce titolo esecutivo, il cui esame è devoluto esclusivamente al giudice dell’impugnazione o nell’ipotesi di decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo -al giudice del giudizio oppositivo (Cass. 2020/n. 3713; Cass. 2015/n. 2377). Tanto in coerenza con il principio per cui il decreto ingiuntivo divenuto inoppugnabile, per mancata opposizione, preclude all’intimato la possibilità di invocare, in un diverso giudizio, la nullità del contratto o di specifiche clausole, posto che il giudicato copre il dedotto e il deducibile (giudicato per implicazione discendente) (cfr. Cass. 2021/n. 21636). Con la sola eccezione della presenza di clausole abusive nei contratti del consumatore, che per altro dà vita ad un rimedio assai peculiare come, appunto, precisato dalla Corte regolatrice sulla scia di quella comunitaria, nelle decisioni richiamate dall’appellante, del tutto eccentriche rispetto al caso in esame.
Più di recente, si è ribadito che nel giudizio di opposizione all’esecuzione promossa in base a titolo esecutivo di formazione giudiziale, la contestazione del diritto di procedere ad esecuzione forzata può essere fondata su vizi di formazione del provvedimento solo quando questi ne determinino l’inesistenza giuridica, atteso che gli altri vizi e le ragioni di ingiustizia della decisione possono essere fatti valere, ove ancora possibile, solo nel corso del processo in cui il titolo è stato emesso, spettando la cognizione di ogni questione di merito al giudice naturale della causa in cui la controversia tra le parti ha avuto (o sta avendo) pieno sviluppo ed è stata (od è tuttora) in esame (cfr. Cass. 2025/n. 2785).
Dunque, anche con riguardo alla prescrizione del credito maturata prima dell’iniziativa dell’appellata.
Con il secondo motivo, ha l’errata valutazione della dedotta prescrizione del credito.
Il giudice di primo grado avrebbe, a suo dire, errato nel ritenere che ‘…. secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la presentazione dell’istanza di insinuazione al passivo fallimentare, equiparabile alla domanda giudiziale, determina, ai sensi dell’art. 2945, co. II, c.c., l’interruzione della prescrizione del credito, con effetti permanenti fino alla chiusura della procedura concorsuale, anche nei confronti del fideiussore fallito, ex art. 1310, co. I, c.c…L’istanza di ammissione al passivo fallimentare è, dunque, valido atto interruttivo anche nei confronti dell’obbligato in solido ai sensi dell’art. 1310, I co., c.c’ .
L’appellante ha dedotto l’inefficacia nei propri confronti dell’atto interruttivo costituito dalla istanza di ammissione al passivo delle società – il cui fallimento è stato dichiarato con sentenza del Tribunale di Bari nel 1997 -in considerazione della natura autonoma e sussidiaria dell’obbligazione assunta dal fideiussore, non essendogli mai stato notificato alcun atto interruttivo, e conseguentemente, non trovando applicazione la disposizione del I comma dell’art. 1310 c.c., ai sensi del quale “gli atti con i quali il creditore interrompe la prescrizione contro uno dei debitori in solido, oppure uno dei creditori in solido interrompe la prescrizione contro il comune debitore, hanno effetto riguardo agli altri debitori o agli altri creditori”.
Secondo la prospettazione di parte appellante, difatti, l’art. 1310 c.c. si riferirebbe alle fattispecie di solidarietà nel debito per comunanza di interessi, mentre il fideiussore è obbligato solidale col debitore principale per garanzia: sicché, ‘…affermando che la mera ammissione al passivo fallimentare (o ad altra procedura concorsuale – procedura che, come è noto, di norma si conclude in un periodo temporale di molto superiore ai dieci anni -) esplica effetti interruttivi permanenti nei confronti anche degli altri condebitori solidali, ci si troverebbe dianzi all’effetto paradossale per cui il termine prescrizionale verrebbe dilatato a dismisura, senza necessità di ulteriore messa in mora nei confronti del condebitore solidale in bonis;
Il che risulta contrario ai principi costituzionali in tema di giusto processo e corretto esercizio del diritto di difesa (artt. 24 – 111 Cost.).
Peraltro, il coobbligato solidale in bonis sarebbe costretto a subire gli effetti di un processo, quello fallimentare, al quale non ha diritto di partecipare, mentre il creditore può rimanere inerte, facendo leva sul fatto che in caso di mancato soddisfacimento del credito, i termini prescrizionali sarebbero comunque interrotti nei confronti del coobbligato solidale, contrariamente al dettato dell’art. 1310, 2° co, c.c.; al contempo,
…. il debitore solidale nel caso in esame non può fare altro che dovere at tendere irragionevolmente la chiusura del fallimento del garantito (in cui non ha alcun diritto di prendere parte) rispetto a cui è costretto a subire l’evidente incisione e lesione del proprio diritto e patrimonio senza che in nessun modo sia possibile per lo stesso vedere decorrere il termine di prescrizione con evidente violazione della disciplina di cui all’art. 2945 e ss. cc..
Nel caso in esame, la procedura concorsuale nei confronti della garantita dal è pendente da oltre 17 anni e non è ancora definita.
Conseguentemente, il credito della banca va dichiarato come inesorabilmente prescritto atteso che il credito vantato dalla banca e portato dal d.i. 1609/1996 del Tribunale di Bari è sfociato nell’iscrizione della procedura esecutiva 827/97, estinta poi all ‘udienza del 28/09/2009. Infatti, medio tempore, in forza dello stesso decreto ingiuntivo, la banca nell’anno 1997 depositava istanza di ammissione al passivo del fallimento della obbligata in solido col sig. con conseguente ammissione del credito in data 08/09/1998 e dichiarazione di stato passivo del 30/06/1999.
….Cionondimeno, in data 05/03/2009 la banca notificava atto di precetto a in forza dello stesso decreto ingiuntivo 1609/1996 e sullo stesso immobile staggito nella procedura esecutiva immobiliare 827/1997, poi estinta.
Quindi, pur essendo vero che con l’avvio nel 1997 della procedura esecutiva 827/97 si è dato inizio all’interruzione della prescrizione, preme rappresentare che la stessa procedura esecutiva non ha esplicato effetti permanenti per un motivo molto semplice, ossia che non si è conclusa, ma si è irrimediabilmente estinta senza nemmeno che vi sia stata dichiarazione di incapienza del credito.
Per tutti questi motivi, l’appellante ha invocato la prescrizione del diritto di credito vantato dalla banca per il decorso del termine decennale ordinario ex art. 2945 e ss. c.c. Anche tale motivo deve essere rigettato.
L’appellata ha provato documentalmente i numerosi atti, inconfutabilmente idonei ad interrompere il decorso della prescrizione, da essa tempestivamente notificati, tra cui l’avvio della procedura esecutiva immobiliare recante RGE n. 827/97, l’azione avviat a dalla con citazione del 15/02/1997; l’ulteriore procedura esecutiva immobiliare RGE n. 407/09 in data 29/05/2009, ancora pendente; il ricorso per ammissione allo stato passivo del stato passivo dichiarato esecutivo in data 30.6.1999; credito ammesso al passivo fallimentare in chirografo per Lire 815.712.250 in data 8.9.1998.
Non può, in ogni caso, dubitarsi della idoneità interruttiva dell’ultimo atto appena menzionato, fondato sul fatto che risultava debitrice di -a cui è poi subentrata – in forza del medesimo titolo esecutivo fatto valere nei confronti del entrambi destinatari del ricorso e del conseguente decreto ingiuntivo, in solido tra loro.
È sufficiente richiamare l’art. 1310 c.c ., a norma di cui gli atti con i quali il creditore interrompe la prescrizione contro uno dei debitori in solido hanno effetto riguardo agli altri debitori: nel caso di specie l’istanza di ammissione allo stato passivo del certamente ha prodotto l’effetto di inte rrompere la prescrizione nei confronti di quest’ultimo, almeno fino alla conclusione della procedura fallimentare, che tutt’ora è pendente.
La giurisprudenza è concorde nel ritenere che l’azione giudiziaria e la pendenza del relativo processo determinino l’interruzione della prescrizione, fino al termine del giudizio, anche nei confronti del condebitore solidale rimasto estraneo al giudizio.
Significative, in tal senso, le due pronunce richiamate da al fine di sottolineare che l’interruzione della prescrizione contro il debitore si estende nei confronti del fideiussore (cfr. Cass.2005/ n. 26042); e che, in caso di fallimento, la prescrizione è interrotta dalla domanda di ammissione del credito allo stato passivo (equiparabile all’atto con cui si inizia un giudizio: Cass. 2024/n. 16380) e tale interruzione spiega effetti permanenti fino alla chiusura della procedura (Cass. 2003/n. 4217), anche nei confronti degli eventuali coobbligati solidali (Cass. 2018/n. 9638; Cass. 2016/n. 17412). Il principio è stato fatto proprio anche dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, che hanno affermato che la domanda di ammissione al passivo di un fallimento interrompe in maniera permanente il decorso della prescrizione sino alla chiusura della procedura anche con riferimento ai coobbligati in solido con il fallito, senza che sia richiesto che questi abbiano conoscenza dell’atto interruttivo, in quanto gli effetti conservativi che ligazione, e non
tale atto produce incidono direttamente sul rapporto da cui origina l’obb nella sfera giuridica del singolo condebitore (cfr. Cass. 2022/n. 13143).
Infine, il ha lamentato l’ errore contenuto in sentenza in ordine alla determinazione delle spese processuali, invocandone una riforma conseguente a quella da egli richiesta per il merito, secondo il principio fissato dall’art. 336, primo comma, c.p.c.
Ebbene, oltre a confermare la soccombenza ed annessa statuizione sulle spese stabilita in primo grado, questa Corte ritiene che la palese infondatezza e pretestuosità delle ragioni su cui poggiava l’opposizione in primo grado, una volta reiterate nel secondo non possano che condurre ad una declaratoria di responsabilità ex art 96 c.p.c.
A tal proposito, occorre rimarcare che ‘l’accoglimento della domanda di condanna al risarcimento della domanda ex art. 96 cpc presuppone l’accertamento sia dell’elemento soggettivo (mala fede o colpa grave) sia dell’elemento oggettivo (entità del danno sofferto).
Il primo presupposto può concretizzarsi nella conoscenza della infondatezza della domanda e delle tesi ivi sostenute, ovvero nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di detta conoscenza. Il secondo presupposto invece richiede l’esistenza di un danno e la prova da parte dell’istante sia dell’ an che del quantum debeatur , il che non osta a che l’interessato possa dedurre, a sostegno della sua domanda, condotte processuali defatigatorie o dilatorie della controparte, potendosi desumere il danno da nozioni di comune esperienza anche alla stregua del principio, ora costituzionalizzato, della ragionevole durata del processo ( art. 111 comma 2, Cost.) e della L. n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto) secondo cui, nella normalità dei casi e secondo l’id quod plerumque accidit, ingiustificate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali ( quali quelli di essere costretti a contrastare una ingiustificata iniziativa processuale dell’avversario, per di più non compensata sul piano strettamente economico dal rimborso delle spese ed onorari liquidabili secondo tariffe che non concernono il rapporto tra parte e cliente) causano ex se anche danni di natura non patrimoniale, che, per non essere agevolmente quantificabili, vanno liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa ( Cass. 2007 n. 24645).
Venendo alla presente controversia, deve dirsi che già con l’impugnata sentenza era stato definitivamente sgombrato il campo da ogni ragionevole dubbio in ordine alla fondatezza delle ardite tesi di parte appellante: l’averle nuovamente brandite induce a ritenere gravemente colposo, se non doloso, il complessivo contegno processuale del il quale peraltro, come opportunamente segnalato dalla appellata a distanza di oltre 30 anni non ha ancora onorato i propri debiti, né, in quanto ex legale rappresentante della società per cui era prestata la garanzia, può risultare credibilmente ignaro delle vicende occorse alla medesima.
Tutto ciò induce a ritenere la presente fattispecie sussumibile nella casistica indicata dalla Corte Costituzionale con sentenza n.152/06, allorchè fu statuito: ‘ Ai fini della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., costituisce abuso del diritto all’impugnazione, integrante “colpa grave”, la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente infondati, giacché ripetitivi di quanto già confutato dal giudice d’appello, ovvero perché assolutamente irrilevanti o generici, o, comunque, non rapportati all’effettivo contenuto della sentenza impugnata; in tali casi il ricorso per cassazione integra un ingiustificato aggravamento del sistema giurisdizionale, risultando piegato a fini dilatori e destinato, così, ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti, donde la necessità di sanzionare tale contegno ai sensi della norma suddetta’.
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I rilievi che precedono conducono al rigetto del gravame, in quanto infondato e pretestuoso, oltre che non corroborato da argomentazioni ulteriori rispetto a quelle già rappresentate nel primo grado del giudizio, nonché alla condanna ex art 96 cpc per sua manifesta temerarietà, come da parte dispositiva della sentenza, pari ad un terzo dei compensi liquidati.
Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza, e sono liquidate in dispositivo in relazione ai valori medi di cui d.m. 147/2022 per le cause di valore pari al credito controverso, da contenersi comunque nei limiti della richiesta dell’appe llata.
Alcuna regolamentazione sulle spese di questo grado va, per contro, adottata nel rapporto processuale tra l’appellante e l’altra parte appellata non costituita.
Il rigetto dell’appello comporta l’applicazione dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, relativo all’obbligo della parte impugnante non vittoriosa di versare una somma pari al contributo unificato già versato all’atto della proposizione d ell’impugnazione.
P.Q.M.
La Corte di Appello di Bari, Seconda Sezione Civile, in composizione collegiale, definitivamente pronunziando sull’appello proposto da , avverso sentenza n. 3144/2021 pronunciata il 05/09/2021 dal Tribunale di Bari, così provvede:
Dichiara la contumacia di nitamente alla
ora
-Rigetta l’appello, e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata;
-Condanna l’appellante alla rifusione dell e spese del presente grado di giudizio in favore di liquidate per complessivi € 14.239,00 per compensi di avvocato, oltre al rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15 %, IVA e CAP;
-Nulla per le spese di questo grado di giudizio nel rapporto processuale tra l’appellante e l’altra parte appellata contumace;
-Condanna l’appellante al pagamento in favore di dell’ulteriore somma di € 4.746,00 ex art. 96 comma 3 c.p.c., oltre interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al soddisfo;
-Dà atto della sussistenza dei presupposti per il pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, a carico dell’appellante, in osservanza dell’art. 13, comma 1 -quater , del D.P.R. 115/2002 (introdotto dall’art. 1, co.17 della legge di stabilità 24 dicembre 2012, n. 228).
Così deciso in Bari, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte di Appello, addì 20 giugno 2025
IL CONSIGLIERE ESTENSORE IL PRESIDENTE
NOME COGNOME NOME COGNOME