Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 12832 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 12832 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 13/05/2025
Oggetto: comodato di immobile ad uso familiare – onere della prova – contenuto
–
incensurabilità
Cassazione.
O R D I N A N Z A
sul ricorso n. 14157/21 proposto da:
-) COGNOME COGNOME domiciliato ex lege all’indirizzo PEC del proprio difensore , difeso dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
-) COGNOME NOME COGNOME domiciliata ex lege all’indirizzo PEC del proprio difensore, difesa dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna 16 marzo 2021 n. 3264;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25 febbraio 2025 dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Nel 2019 NOME COGNOME convenne il proprio figlio NOME COGNOME dinanzi al Tribunale di Bologna, nelle forme di cui all’art. 447 c.p.c., esponendo:
-) di avere concesso al proprio figlio NOME COGNOME il godimento di un immobile, a titolo di precario;
-) di avere manifestato la volontà di recedere dal rapporto con lettera del 15.12.2018;
-) che l’occupante era rimasto nel possesso dell’immobile.
Chiese pertanto la condanna del convenuto al rilascio dell’immobile ed al risarcimento del danno da occupazione sine titulo .
NOME COGNOME si costituì eccependo che l’appartamento gli era stato concesso in comodato ex art. 1809 c.c. per soddisfare le sue esigenze familiari; che tali esigenze non erano venute meno; che il comodante non poteva perciò chiedere il rilascio, perché non sussisteva un imprevisto e urgente bisogno.
Il Tribunale di Bologna con sentenza 17.7.2019 n. 1669 accolse la domanda di rilascio. La sentenza fu appellata dal soccombente.
Con s entenza 16.3.2021 n. 3264 la Corte d’appello di Bologna rigettò il gravame.
Ritenne la Corte d’appello che:
-) le prove orali richieste da NOME COGNOME in grado di appello erano inammissibili perché tardive;
-) NOME COGNOME che ne aveva l’onere, non aveva dimostrato che l’appartamento gli fu concesso in comodato per ‘soddisfare esigenze familiari’ , non avendo egli una famiglia;
-) di conseguenza il rapporto andava qualificato come ‘precario’ ex art. 1810 c.c., e legittimamente il comodante aveva esercitato il recesso ad nutum .
La sentenza d’appello è stata impugnata per Cassazione da NOME COGNOME con ricorso fondato su sei motivi.
NOME COGNOME ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Col primo motivo è denunciata la violazione degli artt. 161, 345, 437 e 447 bis c.p.c..
Nell’illustrazione del motivo si so stiene una tesi così riassumibile:
-) nei giudizi soggetti al rito del lavoro , il giudice d’appello ha non solo il potere, ma anche il dovere di ammettere d’ufficio le prove ritenute indispensabili ai fini dell’accertamento dei fatti;
-) nel caso di specie invece la Corte d’appello da un lato ritenne ‘meritevoli di approfondimento’ i fatti dedotti con l’appello , e cioè che l’immobile oggetto del contendere non fu concesso dalla madre al figlio a titolo di precario, ma in comodato ‘ vita natural durante ‘; dall’altro lato, però, rigettò le richieste istruttorie intese a provare quei fatti;
-) infine, la Corte d’appello aveva rigettato le richieste istruttorie falsamente applicando l’art. 345 c.p.c., norma concernente il rito ordinario, invece di provvedere ai sensi dell’art. 447 bis c.p.c., ovvero la norma che disciplina l’ammissione delle prove in grado di appello nel rito c.d. locatizio.
1.1. Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile, con riferimento a tutte le censure in cui si articola.
1.2. In primo luogo il motivo è inammissibile perché incoerente col contenuto della sentenza impugnata.
In questa si legge che NOME COGNOME in grado di appello sostenne che:
il giudizio di primo grado si era svolto erroneamente col rito locatizio;
si sarebbe invece dovuto celebrare col rito ordinario;
ergo , si era verificata una nullità che giustificava la sua istanza di rimessione in termini per formulare nuove prove.
Dunque – stando a quanto risulta dalla sentenza impugnata – in grado di appello la difesa di NOME COGNOME non sollecitò affatto la Corte territoriale ad avvalersi dei propri poteri officiosi, ma formulò una ben diversa istanza, quella di rimessione in termini ex art. 153 c.p.c..
Sollecitazione che, come riconosce lo stesso ricorrente a p. 14, secondo capoverso, del ricorso, è necessaria per potere prospettare in questa sede il mancato esercizio da parte del giudice d’appello dei propri poteri istruttori officiosi.
Pertanto, non risultando che NOME COGNOME in appello abbia mai chiesto alla Corte d’appello di ammettere d’ufficio dei mezzi di prova, non gli è consentito in questa sede censurare l’omesso esercizio di quei poteri officiosi.
1.3. In secondo luogo il motivo è comunque inammissibile nella parte in cui sostiene che la Corte d’appello avrebbe dovuto ammettere le prove richieste in grado di appello per la prima volta. Infatti, nelle controversie locatizie l’esercizio (od il mancato esercizio) dei poteri istruttori officiosi costituisce una facoltà discrezionale del giudice, come tale incensurabile in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice , e tale istanza sia immotivatamente rigettata (Cass. Sez. 3, 26/05/2004, n. 10128; Ipotesi quest’ultima, come già detto,
venga ‘ espressamente e specificamente richiesto di avvalersene ‘ Cass. Sez. 3, 13/03/2009, n. 6188). non ricorrente e comunque non dedotta nel ricorso.
1.4. Il motivo è altresì infondato nella parte in cui lamenta la falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c..
Il divieto di ius novorum vale infatti sia per il rito ordinario (art. 345 c.p.c.), sia per quello locatizio (art. 437, secondo comma, c.p.c., richiamato dall’art. 447 bis , primo comma, c.p.c.). La circostanza che la Corte d’appello abbia erroneamente individuato la disposizione applicabile è irrilevante, quando corretta sia la norma applicata.
1.5. Infine, ad abundantiam rileva il Collegio che:
vertendosi in materia di contratti, il giudice di merito non avrebbe potuto di regola ammettere la prova testimoniale, né il ricorrente indica quali particolarità nel caso di specie avrebbero potuto consentire la deroga al divieto di cui all’art. 2721 c.c.;
nessuno dei capitoli di prova testimoniale trascritti alle pp. 15-16 del ricorso sarebbe stato idoneo a dimostrare la volontà delle parti di concedere ed accettare il godimento dell’immobile ‘vita natural durante’ , sicché il motivo in esame è privo anche del requisito della decisività. Ciò lo
rende inammissibile ai sensi dell’art. 360 -bis , n. 2, c.p.c., così come costantemente interpretato da questa Corte (si vedano Cass. Sez. 3, 26/09/2017, n. 22341 e le successive conformi).
Col secondo motivo è formalmente prospettato il vizio di omesso esame di un fatto decisivo.
Deduce il ricorrente che la Corte d’appello avrebbe trascurato di attribuire il giusto valore al contenuto confessorio delle dichiarazioni rese in udienza da NOME COGNOME non avrebbe adeguatamente valutato i documenti in atti provenienti dall’ufficio anagrafe del Comune di Bologna; avrebbe erroneamente ritenuto che l’appartamento oggetto del contendere sarebbe stato concesso in uso solo parziale all’odierno ricorrente.
2.1. Il motivo è doppiamente inammissibile.
In primo luogo è inammissibile ai sensi dell’art. 436 -bis c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis : essendovi stata nei due gradi di merito una doppia decisione conforme, è preclusa la possibilità di prospettare in questa sede il vizio di omesso esame d’un fatto decisivo.
2.2. In secondo luogo il motivo è inammissibile perché in ogni caso esso censura la valutazione delle prove, e ‘ l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti’ (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
Ardita, a tale ultimo riguardo, è la tesi del ricorrente sviluppata a p. 31 del ricorso, secondo cui nel caso di specie non ci troveremmo di fronte ad una doppia decisione conforme in punto di fatto, ed incomprensibile è il richiamo della difesa del ricorrente all’art. 3 Cost..
Sia il Tribunale che la Corte d’appello hanno ritenuto in punto di fatto non esservi prova che NOME COGNOME avesse titolo per occupare l’appartamento della madre: e tanto basta per ravvisare una doppia decisione conforme.
3. Col terzo motivo è denunciata la nullità della sentenza ‘ ai sensi dell’articolo 132 c.p.c.’ ( sic ; ma è evidente che il ricorrente intenda fare riferimento all’ipotesi di cui al secondo comma, n. 4, della norma evocata). Nell’illustrazion e del motivo si deduce che la sentenza impugnata sarebbe nulla perché composta prevalentemente da brani di testo estratti dagli scritti difensivi di NOME COGNOME, acriticamente recepiti dalla Corte territoriale.
3.1. Il motivo è manifestamente infondato.
La sentenza impugnata dà pienamente conto delle ragioni della decisione, e la circostanza che brevi periodi siano stati estratti dagli scritti difensivi di uno delle parti non è, da sola, causa di nullità.
Col quarto motivo è denunciata la violazione degli articoli 43, 1809 e 1810 c.c..
Nell’illustrazione del motivo si sostiene che la C orte d’appello ha erroneamente ritenuto non esservi prova della stipula di un contratto di comodato di immobile destinato ad abitazione familiare, del quale esistevano invece le inferenze probatorie desumibili dagli elementi raccolti, dei quali ne vengono elencati dieci alle pagine 26-27 del ricorso.
4.1. Il motivo è manifestamente inammissibile perché censura la valutazione delle prove.
Censura, quest’ultima, incurante del consolidato e pluridecennale orientamento di questa Corte, secondo cui non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito ( ex permultis , Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747; Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004; Sez. L, Sentenza n. 12052 del 23/05/2007, Rv. 597230; Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019; Sez. 1, Sentenza n. 5274 del
07/03/2007, Rv. 595448; Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677; Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021; Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557; Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229; Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706; Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486; Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214; e così via, sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, la quale affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessant’anni: e cioè che ‘ la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione ‘).
Né sarà superfluo aggiungere che la censura investe una questione di fatto, ed il controllo di questa Corte sulle questioni di fatto è oggi contenuti entro i rigorosi limiti imposti dall’art. 360, n. 5, c.p.c., così come interpretato dalle SS.UU. di questa corte con la sentenza n. 8053 del 2014, alla cui motivazione si può qui rinviare ai sensi dell’art. 118, primo comma, ultimo periodo, disp. att. c.p.c..
Col quinto motivo di ricorso è denunciata la violazione degli articoli 2697, e 2729 c.c.; 115 e 116 c.p.c..
Nell’illustrazione del motivo si deduce che tali norme sarebbero state violate perché la C orte d’appello avrebbe svalutato le presunzioni ricavabili dal certificato anagrafico di residenza dell’odierno ricorrente; avrebbe trascurato la confessione resa in udienza da NOME COGNOME avrebbe erroneamente ritenuto non esservi stata, da parte dell’odierno ricorrente, valida contestazione di talune delle circostanze di fatto addotte nel ricorso introduttivo del primo grado di giudizio.
5.1. Anche questo motivo è manifestamente inammissibile per le medesime ragioni indicate al precedente § 4.1.
5.2. Reputa doveroso il Collegio aggiungere che:
(a) per quanto attiene la violazione dell’art. 115 c.p.c., il motivo è inammissibile in quanto la violazione di tale norma può essere dedotta come
vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre. (Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016; Sez. U, Sentenza n. 16598 del 05/08/2016, Rv. 640829 -01, in motivazione espressa, sebbene non massimata sul punto; Sez. U, n. 20867 del 2020, massimata);
(b) p er quanto attiene la pretesa violazione dell’art. 116 c.p.c., la violazione di tale norma può dirsi sussistente, e costituire valido motivo di ricorso per cassazione, solo in un caso: quando il giudice di merito attribuisca pubblica fede ad una prova che ne sia priva oppure, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova a valutazione vincolata, come l’atto pubblico (Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016 ; il principio è stato altresì ribadito dalle Sezioni Unite di questa Corte, nella decisione pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 16598 del 05/08/2016, al § 14 dei ‘Motivi della decisione’ ; ancora, massimata, Sez. U, n. 20867 del 2020). Per contro, la valutazione delle prove in un senso piuttosto che in un altro, ovvero l’omessa valutazione di alcune fonti di prova, non costituisce di per sé violazione dell’art. 116 c.p.c. (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014);
(c) per quanto attiene, infine, la pretesa violazione dell’art. 2697 c.c., le SS.UU. di questa Corte hanno stabilito che tale norma è violata quando il giudice di merito:
decide la causa in base al criterio residuale dell’onere della prova;
attribuisce l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne sarebbe stata onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni (Sez. U, Sentenza n. 16598 del 05/08/2016 , § 14 dei ‘Motivi della decisione’). Pertanto chi intenda denunciare in sede di legittimità la violazione dell’art. 2697 c.c. ha l’onere di indicare, da un lato, se la causa è stata decisa perché il giudice ha ritenuto dimostrato il fatto costitutivo della pretesa,
oppure se è stata decisa in base all’onere della prova (e cioè ritenendo che l’attore non abbia provato il fatto costitutivo della domanda, oppure il convenuto non abbia provato il fatto costitutivo dell’eccezione). Dall’altro lato, la denuncia in sede di legittimità della violazione dell’art. 2697 c.c. impone al ricorrente di indicare quale fosse il fatto costitutivo della domanda (o dell’eccezione) la cui prova è stata dal giudice di merito addossata a parte diversa da quella che ne sarebbe stata onerata ope legis .
Tali indicazioni nel ricorso oggi in esame non sono svolte in modo esaustivo.
Col sesto motivo è censurata la regolazione delle spese. Vi si sostiene che la C orte d’appello avrebbe violato il d.m. n. 55 del 2014, per avere liquidato un compenso di euro 5.338 in una causa del valore di euro 366.
6.1. Il motivo è temerario.
Il valore della causa si stima ai sensi dell’articolo 10 c.p.c., e nel caso di specie, non avendo nessuna delle parti indicato il valore locativo dell’immobile, correttamente la C orte d’appello ha (implicitamente) ritenuto la causa di valore indeterminabile. E, del resto, lo stesso ricorrente, nel riferire a pag. 4 delle domande della madre, dice che era stata richiesta d condanna al pagamento di € 4.400 o della maggior somma dovuta iure locationis per appartamenti di eguale misura, il che smentisce l’assunto del ricorrente e palesa che -anche in ragione dell’indeterminatezza di questa seconda richiesta -il valore della domanda era indeterminabile.
Per una causa di valore indeterminabile la tariffa applicabile ratione temporis prevedeva per il grado di appello un compenso massimo di euro 10.309, e dunque la C orte d’appello non ha violato la tariffa.
. Le spese.
Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico del ricorrente , ai sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c., e sono liquidate nel dispositivo.
Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.
Le spese del presente grado di giudizio vanno compensate integramente tra le parti, in considerazione della soccombenza reciproca.
Non occorre provvedere sulle spese del presente giudizio, non essendovi stata difesa delle parti intimate.
Per questi motivi
la Corte di cassazione:
(-) rigetta il ricorso;
(-) condanna NOME COGNOME alla rifusione in favore di NOME COGNOME delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di euro 8.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex art. 2, comma 2, d.m. 10.3.2014 n. 55;
(-) ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile