Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 16337 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 16337 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 12/06/2024
ORDINANZA
sul ricorso 30284/2019 R.G. proposto da:
COGNOME NOME, COGNOME NOME, domiciliati in ROMA, INDIRIZZO, presso la Cancelleria della Suprema Corte di Cassazione, rappresentati difesi dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in atti;
-ricorrenti –
contro
NOME COGNOME, COGNOME, COGNOME NOME, elettivamente domiciliate in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentat e e difese dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in atti;
-controricorrenti – avverso la sentenza n. 123/2019 della CORTE D’APPELLO di CALTANISSETTA, depositata il 02/04/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23.04.2024 dal Consigliere NOME COGNOME;
Osserva
NOME COGNOME convenne in giudizio RAGIONE_SOCIALE chiedendo che la convenuta, la quale si era anticipatamente sciolta dal contratto di sub-agenzia, nel qual rivestiva il ruolo di mandante, fosse condannata al pagamento delle somme di cui all’editto a titolo di mancato guadagno dal mese di luglio a quello di dicembre del 2007, da stimarsi equitativamente a quello della risultante dall’applicazione del 2,5% su tutte le provvigioni dal 1998 al 2007, come previsto dall’art. 2 del contratto, alla risultante dello 0,5% sul complessivo monte premi, a ½ delle provvigioni liquidate negli ultimi dodici mesi, come previsto dall’art. 5 del contratto, alla risultante dall’applicazione contrattuale del 2,5% sull’ammontare del mancato guadagno.
Sulla resistenza della convenuta il Tribunale rigettò per intero la domanda.
La Corte d’appello di Caltanissetta, in parziale accoglimento dell’impugnazione proposta da NOME COGNOME, NOME e NOME COGNOME, succedute ‘mortis causa’ all’originario attore, sulla resistenza di NOME COGNOME, COGNOME NOME e NOME COGNOME, condannò quest’ultimi, nella qualità di soci della RAGIONE_SOCIALE, al pagamento della somma di € 32.475,00.
3.1. Questi, in sintesi, gli argomenti portanti della decisione di secondo grado, per quel che ancora qui rileva.
Spettava al subagente il mancato guadagno da luglio a dicembre 2007 per tutti gli affari conclusi e, a fronte di generiche contestazioni da parte della mandante, che non aveva inteso fornire la documentazione necessaria, doveva stimarsi equa la quantificazione esposta dall’attore.
NOME NOME e NOME COGNOME propongono ricorso sulla base di tre motivi, ulteriormente illustrati da memoria.
Le appellanti resistono con controricorso.
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano nullità della sentenza per violazione degli artt. 414 e 113 cod. proc. civ.
Si assume che la Corte nissena aveva reputato che la domanda avesse fondamento negoziale, ai sensi dell’art. 1748, co. 1, cod. civ. per contro, proseguono i ricorrenti, il primigenio attore aveva chiesto che gli fosse risarcito il danno da mancato guadagno e, di conseguenza, essa domanda non mirava <>. Solo tardivamente la controparte aveva inammissibilmente modificato la domanda e, di conseguenza, la Corte d’appello aveva violato gli artt. 414 e 112 cod. proc. civ.
La doglianza è infondata.
Il bene della vita non risulta essere stato mutato e la parte convenuta non ha affatto patito un effettivo ‘vulnus’, avendo pienamente avuto modo di cogliere il contenuto sostanziale, siccome interpretato dal giudice, della domanda e svolto precipua difesa.
La qualificazione della domanda spetta al giudice, né era stato introdotto, come immediatamente sopra anticipato, un tema nuovo tale da spiazzare la difesa avversaria
Deve, invero, ribadirsi che sussiste vizio di “ultra” o “extra” petizione ex art. 112 cod. proc. civ. quando il giudice pronunzia oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato. Tale principio va peraltro posto in immediata correlazione con il principio “iura novit curia” di cui all’art. 113,
primo comma, cod. proc. civ., rimanendo pertanto sempre salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite nonché all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti (Sez. L, n. 25140, 13/12/2010, Rv. 615703 -01).
Per contro, costituisce domanda nuova la deduzione di una nuova “causa petendi”, la quale comporti, attraverso la prospettazione di nuove circostanze, il mutamento dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio e, introducendo nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione, alteri l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia. Conseguentemente ricorre la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. solo quando il giudice, integrando o sostituendo in tutto o in parte gli elementi della “causa petendi”, ponga a fondamento della pronunzia un fatto giuridico costitutivo diverso da quello dedotto dall’attore e dibattuto in giudizio (Sez. L. n. n. 10316, 16/07/2002, Rv. 555820 -01).
Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1748, co. 1 e 4 e 2119 cod. civ., nonché l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso.
Si afferma che l’art. 2119 cod. civ., che autorizza il recesso immediato allorquando sussista una causa che non consenta la prosecuzione del rapporto, impone verificare se, sulla base degli accordi negoziali, all’agente o al subagente la provvigione competa al momento della conclusione dell’affare (art. 1748, co. 1, cod. civ.) o, seppure, come nella specie, solo nel momento in cui il terzo contraente adempia alla prestazione negoziale (art. 1748, co. 4,
cod. civ.). Poiché, siccome evidenziato nella memoria di primo grado, si era stabilito che le provvigioni sarebbero state liquidate mensilmente in relazione ai premi incassati dal subagente, l’estinzione del rapporto per giusta causa, secondo gli esponenti, impedendo al subagente d’incassare i premi, perciò solo non poteva aver fatto maturare in suo favore provvigione alcuna.
La sentenza, conclude la parte ricorrente, aveva, pertanto omesso di prendere in esame la clausola in parola.
8. Il motivo è infondato.
Nella sostanza, i ricorrenti si dolgono dell’interpretazione del contratto, senza, però, neppure indicare quale norma sull’ermeneutica sarebbe stata violata e per quale ragione.
L’apprezzamento dei fatti e la sua qualificazione da parte del giudice del merito non è sindacabile in sede di legittimità, sia pure con la pretesa della ricerca di una più precisa ricostruzione della volontà negoziale delle parti.
Si è, invero, più volte spiegato che, in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Sez. Sez. 3, n. 2465, 10/02/2015, Rv. 634161 -01; conf., ex multis, Cass. nn. 10891/2016, 2074/2002).
Nel caso in esame è del tutto plausibile e non irragionevole che la clausola in parola, siccome sostiene la controparte, aveva la sola funzione di regolare i tempi di pagamento delle provvigioni.
Con il terzo motivo i ricorrenti prospettano nullità della sentenza e/o del procedimento per violazione degli artt. 115, 414, co. 1, n. 4 e 416, co. 3, cod. proc. civ., nonché violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697, 1226, 2729 cod. civ., nonché l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo.
Si asserisce che la sentenza, incorrendo in errore, aveva reputato che non vi fosse stata contestazione a riguardo dell’importo medio esposto dal ricorrente e che l’onere della prova gravasse sulla mandante. Si soggiunge che il subagente non aveva col ricorso introduttivo specificato quali e quante polizze avesse stipulato senza avere percepito la provvigione e davanti a <>. Nonostante ciò, tuttavia, era stata, tuttavia, contestata la sussistenza di polizze stipulate e, soprattutto di premi da incassare.
Ne era conseguita, concludono i ricorrenti, la violazione della regola probatoria e, sotto altro profilo, delle norme codicistiche richiamate. Non poteva dirsi che si era in presenza di una situazione che necessitasse l’impiego dell’equità, stante che la prova non era impossibile, che le obbligazioni pecuniarie non risarcitorie dovevano provarsi nel loro preciso ammontare e che la prova presuntiva necessitava del concorrere delle qualità di cui all’art. 2729 cod. civ.
Infine, poiché il subagente curava gli incassi sarebbe stato ben in grado offrire un quadro completo e dettagliato, inclusivo della specifica degli ammontanti.
10. Il motivo è infondato.
Alla revoca del mandato consegue la consegna di ogni documento alla mandante, venendo meno la ragione giuridica che consente al mandatario di detenere gli stessi.
L’asserto, secondo il quale il mandatario avesse la disponibilità della prova, di conseguenza, non può essere condiviso, in assenza della sussistenza d’emergenze di causa di segno contrario.
In ogni caso l’apprezzamento della non contestazione costituisce giudizio di merito non sindacabile (ex multis, cfr. Sez. 6, n. 3680/2019).
In disparte val la pena rilevare che la parte convenuta contestò l’ ‘an’ dell’avversa pretesa, non constando avere espressamente contestato il ‘quantum’.
Nel resto non possono che ribadirsi i principi generali in materia.
La ricostruzione probatoria, come noto, anche qualora sostenuta dall’asserita violazione degli artt. 115 e 116, cod. proc. civ., non può essere contestata in questa sede, poiché, come noto, l’apprezzamento delle prove effettuato dal giudice del merito non è, in questa sede, sindacabile, neppure attraverso l’escamotage dell’evocazione dell’art. 116, cod. proc. civ., in quanto, come noto, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito (cfr., da ultimo, Sez. 6, n. 27000, 27/12/2016, Rv. 642299). Punto di diritto, questo, che ha trovato recente conferma nei principi enunciati dalle Sezioni unite in epoca recente (sent. n. 20867, 30/09/2020, conf. Cass. n. 16016/2021), essendosi affermato che in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova
o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Rv. 659037). E inoltre che per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Rv. 659037).
Le spese legali debbono seguire la soccombenza e possono liquidarsi, a carico dei ricorrenti e in favore delle controricorrenti siccome in dispositivo, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle attività espletate.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30
gennaio 2013), sussistono presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto;
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento, in favore delle controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il giorno 23 aprile 2024