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Onere della prova: chi deve dimostrare l’investimento?

Un investitore affida 50.000 euro a un promotore per l’acquisto di azioni. A seguito di perdite, l’investitore chiede la restituzione dei fondi, lamentando l’inadempimento. La Corte di Cassazione conferma la condanna del promotore, stabilendo che l’onere della prova dell’effettivo acquisto dei titoli grava su chi ha ricevuto il denaro (mandatario), non sull’investitore (mandante). La mancata produzione di prove documentali, come estratti conto, determina l’inadempimento e l’obbligo di risarcimento.

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Onere della prova negli investimenti: chi deve dimostrare l’acquisto?

In un accordo di investimento tra privati, sorge spesso una domanda cruciale in caso di contenzioso: chi ha l’onere della prova riguardo all’effettivo acquisto dei titoli finanziari? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti fondamentali su questo punto, stabilendo che tale onere spetta a chi ha ricevuto il denaro con l’incarico di investirlo. Analizziamo insieme questo caso per capire le implicazioni pratiche per investitori e gestori occasionali.

I Fatti di Causa: L’investimento azionario non provato

La vicenda ha origine da un accordo privato datato 2010, con cui un soggetto affidava a un conoscente la somma di 50.000 euro per l’acquisto di azioni di una società farmaceutica americana. Anni dopo, di fronte alla perdita quasi totale del valore del titolo, l’investitore conveniva in giudizio il conoscente, chiedendo la restituzione della somma. Le contestazioni erano duplici: da un lato, la nullità dell’accordo per violazione delle norme finanziarie; dall’altro, e in subordine, l’inadempimento contrattuale per non aver mai provato l’effettivo acquisto dei titoli e per non aver fornito informazioni sull’andamento dell’investimento.

Il Tribunale di primo grado, pur rigettando la richiesta di nullità, accoglieva la domanda di risarcimento. Qualificando il rapporto come un contratto di mandato, il giudice riteneva che il mandatario (chi aveva ricevuto i soldi) non avesse adempiuto al suo obbligo principale: non solo non aveva fornito prove documentali sufficienti dell’acquisto delle azioni, ma aveva anche omesso di comunicare l’andamento del titolo, impedendo di fatto al mandante (l’investitore) di disinvestire per limitare le perdite. La decisione veniva confermata anche dalla Corte d’Appello, che sottolineava come il convenuto non avesse prodotto prove decisive, come un estratto del suo conto di trading che attestasse l’accredito della somma e il suo specifico impiego per l’acquisto delle azioni pattuite.

La Decisione della Corte di Cassazione

Giunto dinanzi alla Suprema Corte, il mandatario soccombente ha presentato un ricorso basato su sei motivi, lamentando principalmente vizi procedurali (come l’ultrapetizione, ossia la decisione su un punto non richiesto) e un’errata valutazione delle prove. La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la condanna alla restituzione della somma.

Le motivazioni: l’onere della prova come fulcro della decisione

Il cuore della decisione della Cassazione risiede nell’applicazione del principio dell’onere della prova nel contesto di un contratto di mandato finalizzato a un investimento.

La prova dell’inadempimento

La Corte ha chiarito che, una volta che l’investitore (mandante) contesta l’inadempimento, spetta al gestore (mandatario) dimostrare di aver eseguito correttamente l’incarico ricevuto. In questo caso, l’adempimento consisteva nell’acquistare uno specifico titolo azionario con la somma fornita. La prova di tale acquisto non poteva essere generica. I giudici hanno ritenuto insufficienti le prove prodotte dal ricorrente (email e copie parziali di transazioni), poiché non dimostravano in modo inequivocabile due fatti cruciali:
1. Che la somma versata dall’investitore fosse effettivamente confluita sul conto di trading del mandatario.
2. Che quella specifica somma fosse stata utilizzata per l’acquisto del titolo in questione.
Secondo la Corte, una prova agevole e decisiva sarebbe stata la produzione dell’estratto conto completo, dal quale si potesse evincere l’intera catena di operazioni.

La valutazione delle prove e i limiti del giudizio di Cassazione

Rispetto alla doglianza del ricorrente su una presunta errata valutazione delle prove da parte dei giudici di merito, la Cassazione ha ribadito un principio consolidato: il giudizio di legittimità non può trasformarsi in un terzo grado di merito. La Suprema Corte non può riesaminare e rivalutare i fatti della causa, ma può solo verificare la correttezza logica e giuridica del ragionamento seguito dal giudice d’appello. In questo caso, la valutazione della Corte territoriale, che ha ritenuto le prove fornite non idonee a dimostrare l’acquisto, è stata considerata un apprezzamento di fatto, coerente e non sindacabile in sede di legittimità.

Le istanze istruttorie non riproposte

Un altro punto affrontato riguarda la sorte delle richieste di prova (come l’ammissione di testimoni) formulate in primo grado ma non specificamente riproposte nelle conclusioni dell’appello. La Cassazione ha confermato che tali istanze si presumono abbandonate, a meno che non emerga una volontà inequivoca della parte di insistervi. La genericità con cui erano state formulate in origine ha contribuito a rafforzare la presunzione di abbandono.

Conclusioni

L’ordinanza in esame offre una lezione chiara e di grande importanza pratica. Chi riceve denaro per effettuare un investimento per conto di terzi, anche in un contesto informale, si assume un obbligo preciso la cui esecuzione deve essere in grado di provare in modo documentale e inequivocabile. L’onere della prova grava interamente sulle sue spalle. Per l’investitore, invece, emerge la conferma che, in caso di contestazione, è sufficiente allegare l’inadempimento della controparte, la quale dovrà poi fornire la prova contraria. Questa pronuncia rafforza la tutela del mandante e sottolinea l’importanza della trasparenza e della tracciabilità nelle operazioni finanziarie, anche quando avvengono al di fuori dei canali istituzionali.

In un accordo di investimento tra privati, chi deve dimostrare che i soldi sono stati effettivamente usati per comprare i titoli?
Secondo la Corte di Cassazione, l’onere della prova grava su chi ha ricevuto il denaro con l’incarico di investirlo (il mandatario). È lui che deve dimostrare di aver eseguito correttamente l’incarico, provando l’effettivo acquisto dei titoli concordati.

Quale tipo di prova è considerata adeguata per dimostrare l’acquisto di azioni per conto di un’altra persona?
La sentenza evidenzia che la prova deve essere rigorosa e documentale. Non sono sufficienti comunicazioni generiche o copie parziali di transazioni. Una prova idonea è, ad esempio, l’estratto conto bancario o di trading che mostri chiaramente l’accredito dei fondi ricevuti e il loro successivo utilizzo per l’acquisto specifico del titolo oggetto del mandato.

Se durante un processo le richieste di ammissione di prove non vengono ripetute nelle conclusioni finali, cosa accade?
In base a un orientamento consolidato e confermato in questa ordinanza, le istanze istruttorie che non vengono riproposte specificamente in sede di precisazione delle conclusioni si considerano rinunciate. Tale presunzione di abbandono può essere superata solo se emerge una chiara e inequivocabile volontà della parte di insistere su di esse.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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