Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 14577 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 14577 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 24/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 20572/2019 R.G. proposto da: COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in INDIRIZZO INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
nonché contro
EREDI DI ACCORONI NOME
-intimati –
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di ANCONA n. 1104/2018 depositata il 27/06/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 08/05/2024 dal Consigliere NOME COGNOME;
FATTI DI CAUSA
RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Ancona, sezione distaccata di Osimo, NOME COGNOME per sentirlo condannare al pagamento della somma di euro 33.424,28 oltre interessi legali ed alla somma di euro 5.000,00 a titolo di risarcimento danno per lucro cessante sulla premessa che nell’anno 2003 era stata incaricata dal convenuto di ristrutturare un immobile sito in Filottrano; che nel corso dei lavori il proprietario aveva manifestato l’intenzione di pagare a saldo una somma inferiore a quella pattuita; che di fronte al rifiuto della RAGIONE_SOCIALE aveva intimato alla stessa lo sgombero del cantiere; che i lavori pertanto erano stati completati da altri; che aveva diritto al pagamento dei lavori eseguiti; che, detratto l’ acconto di euro 10.164,00, vantava un credito di euro 33.424,28, comprensivo di IVA.
Si costituiva NOME COGNOME che contestava integralmente la domanda deducendo di aver pagato la somma di euro 7.280,00 nel marzo 2003 e che i lavori eseguiti dalla RAGIONE_SOCIALE presentavano gravi vizi e difformità come constatato dal direttore dei lavori; chiedeva pertanto di rigettare la domanda RAGIONE_SOCIALE ed in via riconvenzionale di accogliere la domanda di risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1688, secondo comma, c.c. e di condannare l’RAGIONE_SOCIALE, al risarcimento dei danni subiti dal committente a causa dei
vizi ed alla rifusione delle spese sostenute per la rimozione di quanto abbandonato nel cantiere.
La causa veniva istruita anche con consulenza tecnica di ufficio e interveniva nel giudizio NOME COGNOME, quale cessionario del credito vantato dalla RAGIONE_SOCIALE nei confronti di NOME COGNOME.
Il Tribunale di Ancona rigettava la domanda attorea e dichiarava che NOME COGNOME COGNOME doveva alla RAGIONE_SOCIALE, oltre a quanto già versato antecedentemente ed in corso di causa e, in accoglimento della domanda riconvenzionale, dichiarava il contratto di appalto stipulato tra le parti risolto a causa d ell’ inadempimento della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, condannandola al risarcimento dei danni quantificati in euro 7.000,00 e al pagamento delle spese di lite.
Il Tribunale osservava che era certo che i lavori preventivati erano stati iniziati dalla RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e poi terminati da altra RAGIONE_SOCIALE. Di ciò ne aveva dato menzione anche il CTU a tal punto da non riuscire a distinguere il lavoro effettuato dall’una o dall ‘ altra RAGIONE_SOCIALE. Il giudice di primo grado aggiungeva che comunque il direttore dei lavori, pochi giorni dopo l’interruzione dei lavori, aveva evidenziato per iscritto i vizi dei lavori eseguiti dall ‘ RAGIONE_SOCIALE, anche se poi erano stati eliminati, per cui non si era potuto valutare e quantificare con precisione l’ammontare dei danni subiti dal committente dopo la cessazione del lavoro da parte della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, neanche con l ‘ ausilio della consulenza tecnica.
Osservava ancora il giudice di prime cure che il prezzo pattuito sarebbe stato dovuto solo se il lavoro fosse stato eseguito per intero e a regola d’arte, circostanza non avvenuta, e che COGNOME
aveva già dato un acconto e provveduto a depositare in corso di causa un assegno di euro 8.000,00. Pertanto, i vizi riscontrati e i ritardi nell’esecuzione dei lavori avevano dato origine ad inadempimento contrattuale a seguito del quale poteva essere dichiarata la risoluzione del contratto richiesta in via riconvenzionale dal convenuto, con la conseguenza di diminuire il prezzo concordato in origine oltre al risarcimento del danno da quantificarsi in euro 7.000,00.
Con atto di appello ritualmente notificato NOME COGNOME impugnava la predetta sentenza.
La Corte d’Appello accoglieva solo parzialmente il gravame e rigettava sia la domanda principale che quella riconvenzionale che era stata invece accolta in primo grado.
Come dedotto dall ‘ appellante, il convenuto aveva chiesto la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1668, secondo comma, c.c. per la sussistenza di vizi e difformità nell ‘ esecuzione dell’opera. Nella fattispecie, rilevato che era provata la stipula del contratto di appalto ed era provato anche che la RAGIONE_SOCIALE non aveva terminato i lavori pattuiti, al fine di accertare la responsabilità dell’appaltatore per inesatto adempimento , occorreva applicare la disciplina generale di cui agli articoli 1453 e 1455 c.c. secondo cui l’inadempimento doveva essere di non scarsa rilevanza sia sul piano soggettivo, avuto riguardo all’interes se della parte, sia sul piano oggettivo.
Tuttavia, nel caso di specie, mancava la prova stessa dell’inadempimento contrattuale dal momento che dagli atti processuali non era possibile individuare la causa dell’interruzione
dei lavori da parte della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, quali lavori erano stati effettivamente eseguiti sino all’interruzione e quali erano i vizi.
Non poteva, dunque, affermarsi l’inadempimento della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e, tantomeno, la sua gravità tenuto conto anche della quantificazione dei costi per il ripristino pari a uno scarso quinto dell’importo complessivo. Di conseguenza in accoglimento del motivo di appello doveva rigettarsi la domanda di risoluzione contrattuale e di risarcimento del danno per inadempimento.
Risultava infondato, invece, il secondo motivo di gravame, in quanto l’appellante non aveva assolto l’onere incombente su di lui di provare quali lavori aveva effettuato fino all’abbandono del cantiere. Anche la consulenza non aveva risolto questo aspetto e, dunque, non poteva accogliersi la domanda originaria di parte RAGIONE_SOCIALE. Secondo i principi generali di cui all’art. 2967 cc, infatti, era suo onere dimostrare quali lavori avesse effettuato e dovessero pagarsi fino all’abbandono del cantiere, considerato che circostanza incontestata era quella di avere già percepito la somma di euro 10.164,00.
Dall’esame degli atti processuali si evidenziava che l’attore si era limitato a produrre una notula di lavori, che non risultava neppure portata a conoscenza del convenuto, ed un prezziario sottoscritto anche da quest’ ultimo, mancando agli atti un progetto o un computo metrico analitico dei lavori effettuati. Lo stesso CTU nominato nella relazione peritale aveva evidenziato la difficoltà nel rispondere al quesito proprio per la mancanza di una contabilità sui lavori eseguiti e, ascoltato a chiarimenti, aveva dichiarato di non aver potuto distinguere i lavori eseguiti dalla RAGIONE_SOCIALE da quelli
svolti da altri perché la contabilità non era sufficientemente precisa “per distinguere la provenienza dei lavori”.
Di conseguenza la Corte d’Appello riteneva che la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE non avesse assolto all’onere probatorio su di essa gravante, non potendosi ritenere sufficiente per dimostrare la fondatezza della domanda la deposizione di un solo teste che, peraltro, si era limitato a rispondere con un semplice sì all’elenco dei lavori di cui alla notula, senza ulteriori specificazioni.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di quattro motivi di ricorso.
NOME COGNOME ha resistito con controricorso
La RAGIONE_SOCIALE si è costituita nel presente giudizio senza proporre un controricorso ma al solo fine di concludere per l’accoglimento del ricorso.
Tutte le parti con memoria depositata in prossimità dell’udienza ha nno insistito nelle rispettive richieste.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso è così rubricato: Violazione e falsa applicazione degli artt. 166, 167, 116, comma 2, c.p.c.; Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dei principi in tema di onere della prova.
Secondo parte ricorrente i lavori erano stati pacificamente svolti, sicché il giudice non poteva mettere in discussione tale aspetto dovendo dare per provato il dato fattuale rappresentato dall’avvenuta esecuzione dei lavori , circostanza che oramai esorbitava dal perimetro dei fatti oggetto di accertamento e di valutazione da parte dell’organo giudicante.
Il Giud ice d’appello a vrebbe manifestamente contravvenuto a tale principio giuridico e logico, rimettendo tardivamente in discussione fatti e circostanze che sarebbero del tutto incontroversi alla luce delle stesse affermazioni del convenuto.
1.1 Il primo motivo di ricorso è infondato.
La Corte d’Appello, sulla base della CTU, ha ritenuto che non fosse provato quale parte dei lavori era stata effettivamente svolta da parte della RAGIONE_SOCIALE originaria RAGIONE_SOCIALE sino alla loro interruzione e, proprio in ragione di tale aspetto, ha accolto il motivo di appello relativo alla risoluzione per inadempimento da parte del ricorrente, non essendo possibile stabilire la sussistenza dei vizi e la loro ascrivibilità alla parte oggi ricorrente.
Sulla base del medesimo presupposto di fatto, vale a dire la mancanza di prova dei lavori effettivamente svolti rispetto a quelli conclusi dalla RAGIONE_SOCIALE appaltatrice subentrata, la Corte ha rigettato la richiesta di pagamenti ulteriori rispetti a quelli già effettuati dalla committente.
La censura, dunque, è infondata perché non si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata e parte dall’erroneo presupposto che la Corte d’Appello ha accertato l’effettivo svolgimento dei lavori mentre, invece, ha ritenuto non provata la loro effettiva entità , e poiché l’onere della prova grava va sull’appaltatore ha rigettato la domanda di pagament o di somme ulteriori rispetto a quelle già pagate.
Peraltro, non vi è stata alcuna ultrapetizione in quanto costituisce principio del tutto consolidato quello secondo il quale non incorre in tale vizio il giudice d’appello il quale dia alla domanda od all’eccezione una qualificazione giuridica diversa da quella
adottata dal giudice di primo grado, e mai prospettata dalla parti, essendo compito del giudice (anche d’appello) individuare correttamente la legge applicabile, con l’unico limite rappresentato dall’impossibilità di immutare l’effetto giuridico che la parte ha inteso conseguire. Deve ribadirsi, dunque, che: In tema di giudizio di appello, il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, come il principio del ” tantum devolutum quantum appellatum “, non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, ovvero in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed all’applicazione di una norma giuridica diverse da quelle invocate dall’istante, né incorre nella violazione di tale principio il giudice d’appello che, rimanendo nell’ambito del ” petitum ” e della ” causa petendi “, confermi la decisione impugnata sulla base di ragioni diverse da quelle adottate dal giudice di primo grado o formulate dalle parti, mettendo in rilievo nella motivazione elementi di fatto risultanti dagli atti ma non considerati o non espressamente menzionati dal primo giudice Sez. 6-L, Ord. n. 513 del 2019; Sez. 3, Sent. n. 20652 del 2009).
2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (prova documentale) oggetto di discussione tra le parti. Falsa affermazione circa l’inesistenza in atti di un computo metrico dei lavori eseguiti. Omesso esame del documento n. 2 di parte RAGIONE_SOCIALE (computo metrico) e addirittura negazione della sua esistenza nonostante richiamato nell’ordinanza di nomina del CTU e nell’elaborato peritale. Abnormità e illogicità manifesta.
Nella sentenza impugnata si afferma di non poter accogliere la domanda dell’impresa RAGIONE_SOCIALE ‘ mancando agli atti un progetto (?) o computo metrico analitico dei lavori effettuati ‘ (pag. 6). Si tratterebbe di affermazione destituita di fondamento, perchè offrirebbe una rappresentazione omissiva, falsa ed erronea dei documenti versati in atti e dell’attività istruttoria espletata.
Con l’atto di citazione è stato infatti prodotto (doc. 9) il computo metrico analitico dei lavori effettuati contenente una descrizione minuziosa e puntuale di tutte le lavorazioni svolte dall’impresa RAGIONE_SOCIALE con esatta quantificazione dei quantitativi metrici delle opere eseguite nonché dei prezzi unitari applicati e dell’importo dovuto singolarmente per ciascuna lavorazione e di quello complessivo maturato.
In ossequio al principio di autosufficienza il ricorrente trascrive il suddetto computo metrico agli atti del giudizio di primo grado.
Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: Violazione dell’art. 115 c.p.c. per manifesto travisamento della CTU. Falsa rappresentazione, nella sentenza impugnata, del contenuto di un documento processuale (elaborato peritale del CTU) decisivo per il giudizio. Errore di percezione su un fatto (relazione peritale) che ha formato oggetto di discussione tra le parti. Eccesso e abuso di potere.
La sentenza impugnata avrebbe completamente stravolto e, per altro verso, gravemente sottaciuto le risultanze della CTU, di cui, in poco più di una riga di motivazione, si dà una rappresentazione totalmente immaginifica e falsata incorrendo in un manifesto vizio di percezione e rappresentazione della realtà documentale.
La motivazione sarebbe anche del tutto contraddittoria poiché nella stessa frase, prima si afferma che la contabilità non esiste, e poi che la contabilità esiste ma non è sufficientemente precisa. Si configurerebbe pertanto un’evidente anomalia motivazionale vertendosi in ipotesi di ‘contrasto insanabile tra affermazioni inconciliabili’.
Ciò premesso sarebbe totalmente falso e frutto di una rappresentazione del contenuto della perizia intessuto di gravissime omissioni al punto da distorcere integralmente l’evidenza documentale che il CTU non a vesse risposto al quesito per difficoltà tecniche legate alla contabilità dei lavori. Al contrario, il CTU avrebbe motivatamente ed esattamente quantificato il credito dell’impresa RAGIONE_SOCIALE in complessivi € 33.925,60.
Onde consentire alla Corte di immediatamente individuare l’errore di percezione che vizia la sentenza impugnata parte ricorrente trascrive i contenuti salienti e le conclusioni dell’elaborato peritale del CTU .
Si configurerebbe, dunque, il c.d. vizio di percezione che cade sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova. Nel caso in esame, infatti, a inficiare la sentenza impugnata non sarebbe l’attività di valutazione di una prova che si assuma erroneamente compiuta dal giudice del merito ma l’individuazione del contenuto oggettivo della prova stessa, e nella specie, della consulenza tecnica che sarebbe rappresentata nel provvedimento impugnato in modo non rispondente alla realtà documentale
3.1 Il secondo e il terzo motivo di ricorso che stante la loro evidente connessione possono essere esaminati congiuntamente sono infondati.
Come si è detto, la sentenza della Corte d’Appello non ha escluso che il ricorrente abbia effettuato dei lavori fino all ‘interruzione del rapporto, ha invece, ritenuto che rispetto a quanto già pagato dal committente non vi fosse la prova di lavori ulteriori, in quanto le opere erano proseguite da parte di altra RAGIONE_SOCIALE appaltatrice e il ctu aveva concluso nel senso di non poter affermare quali fossero i lavori eseguiti dal ricorrente.
Il ricorrente riporta il contenuto della consulenza tecnica ma trascura di considerare e contraddire la parte della sentenza dove si dice che il CTU sentito a chiarimenti ha dichiarato di non aver potuto distinguere i lavori eseguiti dalla RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE da quelli svolti da altri perché la contabilità non era sufficientemente precisa per distinguere la provenienza dei lavori.
Inoltre, essendo pacifico che i lavori non erano stati completati, il computo metrico e le prove dedotte dal ricorrente costituiscono prova solo di quanto fosse previsto originariamente in contratto, ma non sono elementi idonei a dimostrare l’effettivo completamento dei lavori, avendo il ricorrente lasciato il cantiere prima del completamento delle opere pattuite per essersi interrotto il rapporto.
Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: 4) Violazione di legge, per omessa motivazione, motivazione apparente, manifesta e irriducibile contraddittorietà, motivazione perplessa o incomprensibile risultante da vizio testuale.
Il ricorrente contesta la sentenza circa la valutazione delle prove. La sentenza sul punto, peraltro, sarebbe del tutto illogica e priva di pregnanza perché è evidente che la prova era formulata per capitoli e inoltre il teste COGNOME non si sarebbe limitato a
rispondere solo ‘ si ‘ , senza ulteriori specificazioni ma avrebbe dichiarato di essere a diretta conoscenza dei fatti per aver lavorato nel cantiere per cui è causa (verbale del 2/7/2010: ‘ Sì lo posso dire perché lavoravo lì ‘ – doc. 13).
In secondo luogo, sarebbe altresì falso che solo un testimone abbia deposto sull’esecuzione dei lavori confermando che gli stessi sono stati eseguiti dalla RAGIONE_SOCIALE. Nella sentenza impugnata non si tiene infatti conto della testimonianza del sig. COGNOME di cui al verbale di udienza del 2/7/2010, che ha parimenti confermato l’esecuzione delle opere da parte dell’impresa RAGIONE_SOCIALE (verbale del 2/7/2010: ‘Sì è vero’), e nep pure di altri testimoni.
Peraltro, il fatto che fosse un solo teste non determinerebbe alcun vulnus alla sua attendibilità. Infine, le affermazioni del testimone COGNOME NOME non sono state smentite né sono contraddette da quelle di nessun altro teste, e invece la decisione impugnata implicherebbe necessariamente che lo stesso abbia commesso il reato di falsa testimonianza senza tuttavia che il GOT abbia offerto una reale motivazione per giungere a una così grave conclusione né, per altro verso, ne abbia tratto le doverose conseguenze anche in termini di trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica.
4. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile.
La censura è proposta come vizio di motivazione ed è, pertanto, inammissibile. Questa Corte a sezioni unite ha chiarito che dopo la riforma dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., operata dalla legge 134/2012, il sindacato sulla motivazione da parte della cassazione è consentito solo quando l’anomalia motivazionale si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé,
purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; in tale prospettiva detta anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass. Sez. un. 8053/2014); – nel caso di specie, la grave anomalia motivazionale non esiste, perché la Corte d’Appello ha sufficientemente motivato sia in relazione agli interessi coinvolti nel giudizio presupposto che alla rilevanza della causa riconoscendo un moltiplicatore annuo superiore al minimo ed evidenziando che le maggiorazioni hanno carattere discrezionale e nella specie oggetto dell’equa riparazione era solo la durata del giudizio di appello.
Il ricorrente, peraltro, non riporta i capitoli di prova cui si riferisce e neanche il contenuto delle altre testimonianze il che rende ulteriormente inammissibile la censura.
Risulta, dunque, evidente che con il motivo in esame si chiede una rivalutazione in fatto della vicenda mediante una diversa lettura delle fonti di prova. Deve richiamarsi in proposito il seguente principio di diritto: «L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento
della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata». (Sez. 1, Sent n. 16056 del 2016).
La Corte di merito ha effettuato una valutazione complessiva delle risultanze istruttorie, sufficientemente e logicamente argomentata, fondando il proprio convincimento principalmente sulle risultanze della CTU che, peraltro, erano favorevoli al ricorrente quanto alla parte relativa al suo inadempimento per i vizi delle opere. Di conseguenza le censure proposte mirano ad una impropria revisione del giudizio di fatto precluso in sede di legittimità. Come si è detto, la valutazione delle prove, il giudizio su ll’attendibilità dei testi e la scelta, tra le varie risultanze istruttorie, di quelle più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di formare il suo convincimento utilizzando gli elementi che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non ac colti, anche se allegati dalle parti, essendo limitato il controllo del giudice della legittimità alla sola congruenza della decisione dal punto di vista dei principi di diritto che regolano la prova (Cfr. Cass., Sez. 1, sentenza n. 11511 del 23 maggio 2014, Rv. 631448; Cass., Sez. L, sentenza n. 42 del 7 gennaio 2009, Rv. 606413; Cass., Sez. L., sentenza n. 2404 del 3 marzo 2000, Rv. 534557).
Il ricorso è rigettato.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater D.P.R. n. 115/02, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità nei confronti della parte controricorrente che liquida in euro 3000, più 200 per esborsi, oltre al rimborso forfettario al 15% IVA e CPA come per legge;
ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, I. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione