Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 24472 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 24472 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 03/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1179/2020 R.G. proposto da :
NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE;
-ricorrente-
contro
COCKTAIL RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE;
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO DI CAGLIARI, SEZIONE DISTACCATA DI SASSARI n. 452/2019, depositata il 10/10/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14/03/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
PREMESSO CHE
1. Con giudizio promosso nel 2012 ai sensi dell’art. 702 -bis c.p.c., NOME COGNOME ha convenuto in giudizio la società RAGIONE_SOCIALE deducendo di avere stipulato un contratto di vendita sottoposto a condizione con il quale la convenuta si era impegnata a vendergli l’azienda già oggetto di contratto d’affitto, che la venditrice era stata dichiarata fallita con vendita all’incanto dell’azienda fissata pochi giorni dopo la stipulazione del contratto, che aveva pagato euro 153.400, quale prima tranche di pagamento per consentire il deposito della richiesta d’ammissione al concordato fallimentare, che aveva versato le ulteriori somme di euro 18.600 e di euro 38.800, quale affitto d’azienda e che il contratto definitivo non era ancora stato stipulato per negligenza del convenuto. COGNOME ha quindi chiesto al Tribunale di Sassari di dichiarare l’efficacia della vendita e, in via subordinata, di dichiarare la risoluzione del contratto per grave inadempimento di controparte e per l’effetto di condannarla ‘alla restituzione del prezzo’ e, in ogni caso, al risarcimento del danno da determinarsi in separato giudizio. La convenuta si è costituita e in via principale ha chiesto di dichiarare risolto il contratto di vendita per inadempimento di NOME, in via subordinata di accertare la risoluzione del contratto per mutuo dissenso, avendo NOME offerto a saldo una somma minore di quella dovuta e, in via ulteriormente subordinata, di dichiarare la risoluzione del contratto per grave inadempimento di COGNOME per l’effetto di dichiarare dovuta dalla convenuta a Peana la somma di euro 172.000 e di condannare
Peana a corrispondere il canone mensile per il godimento dell’azienda dal giugno 2006 fino al suo rilascio.
Il Tribunale di Sassari, con ordinanza 3076/2013, passata in giudicato, ha rigettato tutte le domande -‘principale di adempimento, subordinata di risoluzione del contratto per inadempimento e risarcitoria’ – formulate da COGNOME e la domanda riconvenzionale formulata in via principale da RAGIONE_SOCIALE ha accolto la prima domanda subordinata di RAGIONE_SOCIALE e, per l’effetto, ha pronunciato la risoluzione per mutuo dissenso del contratto di vendita di azienda.
2. Venendo al processo all’esame della Corte, nel 2014 RAGIONE_SOCIALE ha chiesto e ottenuto un decreto con cui è stato ingiunto a COGNOME di restituire i beni dell’azienda. COGNOME ha proposto opposizione, con cui ha domandato la revoca del decreto ingiuntivo e, in via riconvenzionale, la restituzione del prezzo, pari a euro 210.800, versato in adempimento del contratto di vendita -risolto per mutuo dissenso nel precedente processo -con compensazione dei crediti o restituzione dei beni contestuale alla restituzione del prezzo. Si è costituita RAGIONE_SOCIALE, deducendo che NOME non aveva titolo per detenere i beni aziendali, che il contratto d’affitto non era stato risolto con la stipulazione del contratto di vendita, con la conseguenza che la risoluzione del contratto di vendita aveva fatto rivivere il precedente contratto d’affitto, così che la società aveva diritto alla restituzione dei beni e al pagamento dei canoni d’affitto dal 2006, per euro 267.408, nonché al versamento dell’indennità di occupazione per illegittima detenzione dell’azienda; in via riconvenzionale l’opposta ha quindi chiesto che l’opponente fosse condannato a pagare 267.408 euro, oltre ai danni conseguenti all’illegittima detenzione dell’azienda.
Con la sentenza n. 1735/2016 il Tribunale di Sassari ha rigettato l’opposizione, essendo i beni aziendali, a seguito della scadenza del contratto d’affitto e della risoluzione del contratto di vendita
dell’azienda, detenuti sine titulo ; ha accolto parzialmente la domanda riconvenzionale di COGNOME, determinando il suo credito in euro 172.000, quale restituzione dell’acconto versato per la vendita e della cauzione relativa al contratto di affitto; ha accolto parzialmente la domanda riconvenzionale di RAGIONE_SOCIALE riconoscendo il suo diritto al pagamento dei canoni d’affitto per due anni, per la somma di euro 148.560; ha compensato i contrapposti crediti e ha condannato la società al pagamento in favore di COGNOME di euro 23.440.
La sentenza è stata impugnata in via principale da RAGIONE_SOCIALE e in via incidentale da COGNOME. Con la sentenza n. 452/2019 la Corte d’appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, ha parzialmente accolto il gravame principale e ha rigettato quello incidentale: ha rigettato la domanda riconvenzionale di restituzione di COGNOME, in quanto preclusa dal giudicato implicito formatosi sulla stessa nel precedente processo; ha condannato COGNOME al pagamento della maggiore somma di euro 178.272 a titolo di canoni d’affitto dal 15 maggio 2007 al 15 maggio 2009, oltre la somma di euro 7.428 mensili da tale data a quella della concessione del sequestro conservativo.
Avverso la sentenza ricorre per cassazione NOME COGNOME.
Resiste con controricorso la società RAGIONE_SOCIALE
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
CONSIDERATO CHE
Il ricorso è articolato in sei motivi.
I primi due motivi sono tra loro strettamente connessi:
il primo motivo contesta violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 c.c. e 324 c.p.c., laddove la Corte d’appello dichiara coperta da giudicato la domanda di restituzione del prezzo versato da COGNOME, senza estendere il giudicato esplicito e/o implicito per le stesse motivazioni alle domande restitutorie e/o risarcitorie della
contro
parte relative alla restituzione dell’azienda o dei beni aziendali, così dichiarando che nulla è dovuto reciprocamente dalle parti;
b) il secondo motivo lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 c.c. e 324 c.p.c., laddove la Corte d’appello dichiara coperta da giudicato la domanda di restituzione del prezzo versato da COGNOME.
Il secondo motivo è fondato, con conseguente assorbimento del primo motivo che presuppone la sua infondatezza. Il giudice d’appello, a differenza del giudice di primo grado, ha ritenuto ‘preclusa dal giudicato esplicito la richiesta di restituzione formulata da NOME per le somme da lui versate in forza del contratto dichiarato risolto’ nel primo processo; dato che la domanda di risoluzione costituisce la premessa logica indispensabile al fine di ottenere la restituzione di quanto versato in forza del contratto, l’ordinanza irrevocabile che aveva rigettato la relativa richiesta -ha sostenuto il giudice d’appello costituiva per il Tribunale giudicato implicito, con la conseguenza che per tale motivo la domanda riconvenzionale di Peana deve essere rigettata.
Il ragionamento del giudice d’appello è errato. COGNOME aveva chiesto nel precedente giudizio di pronunciare, in via subordinata, la risoluzione del contratto di vendita dell’azienda a causa dell’inadempimento di controparte e conseguentemente di condannare la medesima alle restituzioni. Il Tribunale ha pronunciato la risoluzione del contratto per mutuo dissenso, chiesta in via subordinata da RAGIONE_SOCIALE, e non si è pronunciato sulla domanda di restituzione del ricorrente di quanto anticipato in relazione al contratto dichiarato risolto, come d’altro canto non si è pronunciato sulla domanda di RAGIONE_SOCIALE Dreams di pagamento del canone mensile di affitto dell’azienda. Il provvedimento del Tribunale non è stato impugnato ed è passato in giudicato. Il giudicato, se è sceso sulla pronuncia di risoluzione per mutuo
dissenso, non si è formato sulla domanda di restituzione, sulla quale il Tribunale non si è pronunciato. E ciò non tanto perché, come sostiene il ricorrente, la domanda di restituzione era stata proposta quale conseguenza della domanda di risoluzione per inadempimento di controparte e non di risoluzione per mutuo dissenso, ma perché, a fronte dell’omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado, la parte poteva, alternativamente, denunciare la minuspetizione con l’appello oppure riproporre la domanda in un autonomo giudizio, posto che in tale ipotesi la mancata pronuncia dà luogo a un giudicato solo processuale e non sostanziale (cfr. al riguardo Cass. n. 24896/2023, in relazione alla domanda di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado). Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, in caso di omessa pronuncia su una domanda, qualora non ricorrano gli estremi di un assorbimento della questione pretermessa ovvero di un rigetto implicito -estremi non ravvisabili nell’ipotesi in esame la parte ha la facoltà alternativa di fare valere l’omissione in sede di gravame o di riproporre la domanda in un separato giudizio, poiché la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c. ha valore meramente processuale e non anche sostanziale, sicché, riproposta la domanda in diverso giudizio, non è in tale sede opponibile la formazione del giudicato esterno (così, da ultimo, Cass. n. 35382/2022, nonché tra la giurisprudenza più risalente Cass. n. 5895/1986).
Il terzo e il quarto motivo sono tra loro strettamente connessi:
il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 c.c., 324 c.p.c e 2697 c.c., per avere la Corte d’appello ritenuto fondata la domanda avversaria di restituzione dell’azienda per equivalente nell’integrale importo previsto dall’affitto di azienda, non più esistente alla data della stipulazione del contratto di compravendita condizionata, con la conseguenza che restano in favore di NOME la domanda di restituzione del prezzo versato e per
RAGIONE_SOCIALE quella di restituzione per equivalente dei soli beni aziendali; la ricostruzione della Corte d’appello contrasta con quanto previsto nel contratto di vendita dell’azienda, che prendeva atto della inesistenza del contratto di locazione dell’immobile e disponeva la stipula di un altro contratto, con una durata ben maggiore, fra soggetti diversi, ossia COGNOME la proprietaria dell’immobile, e COGNOME se la risoluzione per mutuo dissenso ha ‘stravolto’ la vendita intercorsa fra RAGIONE_SOCIALE NOME e NOME sicuramente non ha intaccato il nuovo contratto di locazione e nulla resta del vecchio contratto di affitto di azienda;
b) il quarto motivo contesta violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 c.c., 324 c.p.c. e 2697 c.c., per violazione del ne bis in idem e della regola dell’onere della prova, nella parte in cui si richiede a titolo di affitto di azienda anche il canone di locazione dell’immobile; la domanda di RAGIONE_SOCIALE di restituzione per equivalente deve essere diminuita nel quantum in relazione ai canoni di locazione da versarsi direttamente a Solinas; la sentenza di secondo grado considera tale eccezione non provata e persino tardiva la produzione del contratto di locazione tra Peana e RAGIONE_SOCIALE, così violando il principio dell’onere della prova, spettando a RAGIONE_SOCIALE provare di avere il diritto di ricevere il canone di locazione.
I motivi non possono essere accolti. Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello abbia respinto il proprio appello incidentale laddove sosteneva che dal canone di locazione andava detratto l’importo da lui pagato in forza del contratto di locazione concluso nel 2006 con la proprietaria COGNOME, pari a euro 4.000. La Corte d’appello ha osservato che, dichiarato risolto il contratto di vendita, correttamente il primo giudice ha ritenuto che il precedente contratto d’affitto abbia continuato a produrre i suoi effetti fino alla scadenza del termine pattuito tra le parti (15 maggio 2009) e d’altro canto risulta provato che NOME ha continuato a versare in
favore della procedura i canoni d’affitto, pari a euro 6.190, fino a giugno 2006 e che ha continuato a detenere i beni aziendali. A fronte della espressa pattuizione nel contratto d’affitto del canone di euro 6.190, COGNOME -ha concluso il giudice d’appello non ha provato di avere pagato l’importo di euro 4.000 a Solinas, sulla base di un contratto in ogni caso tardivamente prodotto in appello. Al ragionamento della Corte d’appello il ricorrente contrappone considerazioni legate alle previsioni del contratto di vendita, contratto di vendita che è però stato dichiarato risolto e che ha pertanto perso efficacia ex tunc . Alla osservazione della Corte d’appello circa la tardività della produzione in appello del contratto di locazione stipulato con la proprietaria COGNOME il ricorrente risponde invocando il giudicato rappresentato dalla sentenza resa dal Tribunale di Sassari il 21 novembre 2013 (trascritta alle pagg. 25-31 del ricorso), che ha rigettato la domanda di NOME COGNOME amministratore di RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, di risoluzione del contratto di locazione concluso tra RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE e di ripristino del contratto a suo tempo in essere con Serra. Si tratta però di pronuncia della quale non si parla nella sentenza impugnata e che il ricorrente non dice di avere invocato e prodotto nel giudizio d’appello e che quindi, fatta valere per la prima volta davanti a questa Corte, non può essere da questa considerata. Quanto, infine, al rilievo per cui il giudice d’appello avrebbe invertito la regola dell’onere della prova, spettando alla controparte provare il proprio diritto di ricevere il canone di locazione, va osservato che tale onere -ha ritenuto la Corte d’appello – è stato assolto da RAGIONE_SOCIALE, essendo stato prodotto il contratto d’affitto d’azienda, ancora efficace a seguito della risoluzione della vendita, ove è indicato il canone di locazione, canone di locazione che è stato dimostrato essere stato pagato dal ricorrente alla curatela.
3. Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 15 del d.p.r. 633/1972 per avere erroneamente riconosciuto
l’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) e inoltre dell’art. 345 c.p.c.: la Corte d’appello, in modifica della sentenza di primo grado, riconosce dovuto a RAGIONE_SOCIALE non solo il canone d’affitto dell’azienda nella misura erronea, ma lo aumenta dell’IVA, non prevista nel contratto d’affitto originario; tale domanda è inoltre nuova in quanto non presentata in primo grado; l’IVA, in ogni caso, non va applicata per legge e se le parti non la prevedono si presume assorbita nel prezzo e non va applicata al contratto di locazione dell’immobile.
Il motivo non può essere accolto. Anzitutto, il contratto in questione è un contratto di affitto di azienda -la qualificazione non è stata oggetto di contestazione da parte del ricorrente che, sin dall’atto di opposizione, ha fatto appunto riferimento al contratto di affitto di azienda -e non è un contratto di locazione di immobile con pertinenze, così che l’esenzione sancita dall’art. 10 del d.P.R. n. 633 del 1972 per le locazioni di immobili non vale per gli affitti di azienda (si vedano al riguardo Cass. n. 7361/1997 e Cass. n. 20815/2006, che sottolineano come l’affitto di azienda si differenzi dalla locazione di immobile con pertinenze in quanto nell’affitto di azienda l’immobile è considerato non nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso dei beni, mobili e immobili, legati tra loro da un vincolo di interdipendenza e complementarità per il conseguimento di un determinato fine produttivo, così che oggetto del contratto risulta proprio il complesso produttivo unitariamente considerato, secondo la definizione normativa di cui all’art. 2555 c.c.; si veda anche Cass. n. 8243/2021). La Corte d’appello ha poi accertato, sulla base del prospetto dei pagamenti fatti alla curatela, che l’importo convenuto fosse di euro 6.190 oltre IVA, ossia euro 7.428 mensili, importo richiesto da RAGIONE_SOCIALE in via riconvenzionale nel giudizio di opposizione di primo grado (cfr. le pagg. 13 e 14 della sentenza impugnata).
6. Il sesto motivo lamenta violazione e falsa applicazione delle norme indicate nei motivi quarto e quinto e, inoltre, dell’art. 1591 c.c. per violazione degli artt. 112 c.p.c., 2909 c.c., 324 c.p.c. e 2697 c.c., laddove la Corte d’appello riconosce in favore di RAGIONE_SOCIALE un risarcimento del danno per mancata restituzione dei beni aziendali, nella misura pari al canone di affitto di azienda aumentato dell’IVA e comprensivo del canone di locazione; il giudice d’appello ha richiamato d’ufficio l’art. 1591 c.c. in violazione del divieto di mutatio libelli ; controparte aveva infatti chiesto la ‘corresponsione dell’indennità d’occupazione e/o d’uso e/o d’arricchimento senza causa determinata dalla mancata riconsegna dei beni aziendali’, cosa diversa dall’azienda.
Il motivo non può essere accolto laddove contesta alla Corte d’appello di avere applicato l’art. 1591 c.c. Con l’appello RAGIONE_SOCIALE aveva contestato l’omesso riconoscimento, per mancata prova del quantum , di una indennità per l’illegittima detenzione dei beni aziendali dalla data di scadenza del contratto (15 maggio 2009). La Corte d’appello ha ritenuto fondata la censura e ha correttamente ritenuto applicabile l’art. 1591 c.c. La disposizione -secondo cui ‘il conduttore in mora a restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggiore danno’ è infatti disposizione applicabile anche al contratto di affitto d’azienda in mancanza di una disposizione specifica che regoli i danni per ritardata restituzione e non essendo incompatibile con la normazione speciale sull’affitto (in tal senso, da ultimo, Cass. n. 31257/2024), così che la violazione da parte dell’affittuario dell’obbligo di restituzione all’affittante dell’azienda per scadenza del termine dà luogo a carico del primo a responsabilità a norma dell’art. 1591 c.c. (si veda Cass. n. 2306/2000). Non comprensibile è poi il rilievo del ricorrente per cui la Corte d’appello avrebbe violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato
avendo controparte richiesto l’indennità rispetto alla mancata restituzione dei beni aziendali e non dell’azienda: l’azienda infatti, secondo la stessa definizione del legislatore (art. 2555 c.c.), è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa.
Il motivo è invece fondato laddove il giudice d’appello, nel determinare il corrispettivo dovuto, ha considerato il canone d’affitto aumentato dell’IVA. Quella disciplinata dall’ art. 1591 c.c. -ha precisato questa Corte (v. per tutte Cass. n. 22592/2013) -è un’obbligazione risarcitoria da inadempimento contrattuale, normativamente determinata, salvo il risarcimento dell’eventuale maggior danno, da dimostrare in concreto; il canone convenuto costituisce, quindi, solo il parametro di riferimento per la quantificazione del danno minimo da risarcire, poiché, versando il relativo importo, il conduttore che continua ad occupare l’immobile dopo la cessazione del contratto non adempie l’obbligazione di “dare il corrispettivo nei termini convenuti” (ai sensi dell’art. 1587, n. 2 c.c.), bensì risarcisce un danno da mora, così adempiendo un’obbligazione risarcitoria che si sostituisce a quella contrattuale di pagamento del canone e che costituisce, pertanto, debito di valore. Ne consegue che, vertendosi in tema di risarcimento del danno (sia pure da responsabilità contrattuale), l’importo dovuto dall’occupante, non più a titolo di canone, ma di risarcimento per la protratta occupazione, non è soggetto ad IVA. Ed invero, come questa Corte ha già affermato, per il disposto del d.P.R. n. 633/1972, art. 15, non concorrono a formare la base imponibile dell’IVA – che consegue alla cessione dei beni e alla prestazione dei servizi – le somme dovute a titolo di risarcimento del danno nonché a titolo di interessi moratori, penalità per ritardi o altre irregolarità nell’adempimento degli obblighi contrattuali (v. da ultimo Cass. n. 10837/2024).
II. La sentenza impugnata va pertanto cassata in relazione alle censure accolte e la causa va rinviata alla Corte d’appello di Cagliari, che provvederà pure in relazione alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo e il sesto motivo (quest’ultimo nei limiti di cui in motivazione), assorbito il primo motivo e rigettati i restanti motivi di ricorso, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Cagliari in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale della sezione