Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 17004 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 17004 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7725/2022 R.G. proposto da: COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME e COGNOME presso l’indirizzo di posta elettronica certificata dei quali è domiciliato per legge;
-ricorrente-
contro
COGNOME, nella persona del Sindaco pro tempore , rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME presso l’indirizzo di posta elettronica certificata della quale è domiciliata per legge;
-controricorrente-
nonché contro
RAGIONE_SOCIALE, nella persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso l’indirizzo di posta elettronica certificata della quale è domiciliata per legge;
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di ROMA n. 6025/2021 depositata il 16/09/2021; udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20/06/2025 dal
Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. L’architetto NOME COGNOME conveniva in giudizio Roma Capitale chiedendo la condanna di quest’ultima al pagamento della somma di €460.219,00, oltre interessi legali dal 24/3/2000 ai sensi dell’art. 2033 cc. A fondamento della domanda esponeva di avere versato detta somma ai sensi dell’art. 38 commi V e VI l. 47/85 quale oblazione per cinque istanze di condono presentate in data 31/3/1995 a mero titolo precauzionale dopo che il Consiglio di Stato, con sentenza n° 165/95 del 1/2/1995, aveva annullato la concessione edilizia n° 805/90, sulla scorta della quale edifici erano stati costruiti e ultimati alcuni edifici sotto la sua direzione entro il 31/12/1993. Secondo il Sostero, gli immobili erano divenuti abusivi solo per effetto della pronuncia del Consiglio di Stato e dopo che erano stati ultimati e, pertanto, la somma non era dovuta anche perché nessun procedimento penale era stato iniziato a suo carico.
L’Agenzia delle Entrate si costituiva eccependo la prescrizione triennale ex art. 35 comma 17 legge n. 47/1985 e, comunque, l’infondatezza della domanda; mentre Roma Capitale ed il Ministero dell’Economia e delle Finanze rimanevano contumaci.
Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 22025/2016, in accoglimento della domanda attorea, condannava Roma Capitale a restituire all’attore la somma di € 460.219,00, oltre interessi legali dal 24/3/2000 ai sensi dell’art. 2033 cc.
Avverso la sentenza di primo grado proponeva appello l’Agenzia delle Entrate, la quale: eccepiva la nullità della sentenza per mancanza assoluta di motivazione sulla sussistenza dei presupposti legittimanti il diritto al rimborso delle somme asseritamente pretese ex art. 2033 cc;
impugnava il capo della sentenza in cui il Tribunale aveva desunto la natura indebita del pagamento dalla circostanza che esso era stato effettuato ‘sulla base di un titolo inesistente, come non è contestato nel caso in esame’, nonostante essa Agenzia avesse contestato il diritto alla restituzione, trattandosi di somme pagate da NOME a titolo di oblazione ex art 39 legge 724/94, al fine di fruire dei benefici penali del condono (estinzione del reato); eccepiva la violazione e falsa applicazione dell’art. 39 della legge 23 dicembre 1994 n° 724 in relazione agli art. 6 e 20 della legge numero 47/1985.
Si costituiva nel giudizio di appello Roma Capitale, che aderiva alle argomentazioni dell’appellante e chiedeva la riforma della sentenza e il rigetto della domanda attorea.
Si costituiva altresì il Sostero, eccependo in via preliminare l’inammissibilità dell’appello per l’inesistenza della notifica effettuata agli Avvocati ai quali in primo grado aveva revocato il mandato nominando in sostituzione altri. Nel merito contestava l’impugnazione e chiedeva la conferma della sentenza impugnata.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 6025/2021, in accoglimento dell’appello, respingeva la domanda originariamente proposta dal NOME, che condannava alla rifusione delle spese processuali relative ad entrambi i gradi.
Avverso la sentenza della corte territoriale ha proposto ricorso il Sostero.
Hanno resistito con distinti controricorsi l’Agenzia delle Entrate e Roma Capitale.
Per l’odierna adunanza il Procuratore Generale non ha rassegnato conclusioni scritte.
Il ricorrente si è costituito a mezzo di nuovi difensori ed ha depositato memoria.
La Corte si è riservata il deposito della motivazione entro il termine di giorni sessanta dalla decisione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. In via preliminare va rilevata la tardività del controricorso di Roma Capitale.
Invero, il ricorso è stato notificato in data 11/03/2022 per poi essere depositato il successivo 25 marzo; mentre il controricorso è stato notificato il 21/04/2022 per poi essere depositato il 4/05/2022.
Orbene, il controricorso è tardivo, in relazione alla disciplina processuale vigente sia prima che dopo la riforma del 2023 (e risultando, quindi, irrilevante stabilire quale si applichi alla specie): e, in particolare, sia rispetto al termine per la notifica del controricorso, che, secondo l’art. 370 c.p.c. nella formulazione vigente prima della entrata in vigore della detta riforma, scadeva il ventesimo giorno dalla scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso (dunque, nella specie, giovedì 14 aprile 2022); sia rispetto al termine per il deposito del controricorso, che, secondo la normativa vigente per effetto della menzionata riforma, scade il quarantesimo giorno dalla scadenza del termine per la notifica del ricorso (e, dunque, nella specie mercoledì 20 aprile 2022).
NOME COGNOME articola in ricorso due motivi.
2.1. Con il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c., violazione dell’art. 38 della legge n. 47/1985 e dell’art. 39 della legge n. 724/1994, nella parte in cui la corte di merito avrebbe omesso di soffermarsi sulle possibili interpretazioni conformi della richiamata normativa e si sarebbe limitata a sostenere che l’attivazione del procedimento necessario all’ottenimento del condono edilizio da parte di un soggetto diverso dal proprietario o dal detentore a qualsiasi titolo del bene – quale è, nel caso di specie, il direttore dei lavori – troverebbe giustificazione nella ratio dell’oblazione, quale strumento per evitare il processo penale e le ulteriori conseguenze anche dal punto di vista amministrativo. E, in particolare, nella parte in cui ha ritenuto che la norma consentirebbe <>.
Sostiene che la suddetta interpretazione striderebbe con: a) la ratio della norma; b) i presupposti per la sua applicazione; c) i benefici conseguenti all’applicazione dell’istituto; e, a tal fine svolge argomentazioni sulla ratio del condono edilizio e del pagamento dell’oblazione, sui presupposti indicati dal legislatore per la possibilità che la procedura sia attivata da soggetti diversi dai proprietari (e tra questi la configurabilità di una ipotesi delittuosa in capo al soggetto che si avvale dell’oblazione).
Sottolineato che lui non è mai stato iscritto nel registro degli indagati ex art. 335 c.p.p., osserva che le conseguenze del pagamento dell’oblazione sono distinte a seconda del soggetto proponente: nel caso dei proprietari il vantaggio derivante dal pagamento dell’oblazione sarà tanto economico quanto ‘penale’, conseguendo gli stessi la regolarizzazione edilizia dell’immobile – rispetto al quale, dunque, diviene sussistente la stessa commerciabilità – e ottenendo l’estinzione del reato medio tempore consumato; rispetto ai diversi soggetti ‘qualificati’, al contrario, alcun vantaggio economico può ritenersi sussistente, limitandosi l’oblazione a estinguere il reato rispetto al quale, come detto, l’azione penale deve essere stata esercitata.
Ricorda che la ricostruzione dell’istituto, da lui sostenuta, è stata condivisa dal giudice di primo grado, che ha fondato la propria decisione sul mancato esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero e sulla conseguente insussistenza del titolo giustificativo del pagamento dell’oblazione ad opera del direttore dei lavori.
Sostiene che: a) una volta che il proprietario ha palesato l’illecito edilizio commesso, ai fini cautelativi, senza in alcun modo sapere se la condotta sia o meno configurabile come reato (essendo abilitato alla presentazione dell’istanza di oblazione anche al solo fine di ottenere la
regolarizzazione amministrativa), il direttore dei lavori non può far altro che presentare, in via preventiva, la richiesta di oblazione, accodandosi alla c.d. autodenuncia del proprietario; b) l’autodenuncia del proprietario ha come fine principale la regolarizzazione dell’immobile, con la conseguenza che l’oblazione dallo stesso pagata potrebbe essere intesa come monetizzazione della regolarità amministrativa, il pagamento dell’oblazione da parte del direttore dei lavori è ingiustificato nel caso in cui la stessa non fosse in alcun modo corrispettivo di un vantaggio, né economico né penalistico allo stesso riconosciuto.
2.2. Con il secondo motivo, che articola in via subordinata, solleva questione di legittimità costituzionale del combinato disposto di cui agli artt. 38 della legge n. 47/1985 e 39 della legge n. 724/1994. nella parte in cui non prevedono che il pagamento dell’oblazione da parte del direttore dei lavori (e dei soggetti a quest’ultimo equiparabili) sia conseguente alla contestazione della responsabilità penale di quest’ultimo, da intendersi quale iscrizione nel registro degli indagati ai sensi dell’art. 335 c.p.p.
Sostiene che le suddette disposizioni – ove fossero interpretate nel senso che il l’oblazione pagata dal direttore dei lavori sia completamente slegata dalla sussistenza di un procedimento penale a suo carico, con la conseguenza che lo stesso debba provvedere al pagamento di un esborso di denaro, in via meramente cautelativa, senza l’ottenimento di alcun vantaggio – sarebbero contrarie agli artt. 27, 24, 3 e 9 Cost.
Il ricorso è inammissibile.
3.1. Una prima ragione di inammissibilità consegue al fatto che, com’è noto, l’art. 366 cod. proc. civ., nel dettare le condizioni formali del ricorso, ossia i requisiti di ‘forma-contenuto’ dell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, configura un vero e proprio ‘modello legale’
del ricorso per cassazione, la cui mancata osservanza è sanzionata con l’inammissibilità del ricorso stesso.
In particolare, il requisito della esposizione sommaria dei fatti ed il requisito della specifica indicazione degli atti richiamati, prescritti a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall’art. 366, primo comma n. 3 e n. 6, cod. proc. civ., essendo considerati dalla norma come specifici requisiti di contenuto-forma del ricorso, devono consistere in una esposizione che deve garantire alla Corte di cassazione, di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia, del fatto processuale e del contenuto degli atti richiamati, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso (come nel caso di specie è sopra avvenuto), compresa la stessa sentenza impugnata (Sez. un. n. 11653 del 2006).
La prescrizione di detti requisiti risponde ad una esigenza (non di mero formalismo, ma) di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Sez. Un. n. 2602 del 2003). Il relativo principio ha, nel suo complesso, superato pure le verifiche di conformità alla disciplina, anche sovranazionale, in tema di accesso al giusto processo.
Stante tale funzione, per soddisfare i requisiti imposti dall’articolo 366 comma primo n. 3 e n. 6 cod. proc. civ., è necessario che il ricorso per cassazione contenga, oltre alla specifica indicazione del contenuto e della localizzazione degli atti richiamati, l’indicazione, sia pure in modo non analitico o particolareggiato, ma sommario, delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni.
Tale indirizzo deve ritenersi a più forte ragione applicabile con riguardo alla nuova formulazione dell’art. 366, comma 1, n. 3 c.p.c. (che, avendo effetto a decorrere dal 1° gennaio 2023 ed essendo applicabile ai giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere da tale data, è applicabile ratione temporis al ricorso odierno ai sensi dell’art. 35 comma 5 d. lgs. n. 149/2022), che ha previsto in maniera ancor più stringente il requisito di ammissibilità del ricorso per cassazione costituito dalla <>.
Nella specie, il ricorso, nell’esposizione del fatto, non rispetta tali contenuti (e nemmeno la lettura della parte successiva, illustrativa delle doglianze, rimedia alla carenza), in quanto parte ricorrente ha omesso di riportare non soltanto le argomentazioni svolte nell’atto di citazione (p. 2), ma anche quelle svolte nell’atto di appello (p. 4).
3.2. L’inammissibilità consegue inoltre al fatto che è jus receptum nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le tante, Cass. n. 9752/2017) il principio per cui <>.
Orbene, nel caso di specie, il ricorrente censura l’interpretazione resa dalla corte d’appello con riferimento agli artt. 38 della L. 47/85 e 39 della L. 724/94, ma nulla deduce sull’altra ratio decidendi (e cioè sul fatto che l’oblazione comporta, da un lato, rinuncia irretrattabile del cittadino alla garanzia giurisdizionale e, dall’altro, rinuncia dello Stato all’applicazione di una sanzione superiore, con la conseguenza che la somma pagata non è ripetibile ed è irrilevante l’eventuale riserva a tal fine formulata).
Al riguardo di detto dictum – che costituisce capo autonomo, idoneo a sorreggere la sentenza impugnata – nessuna censura è stata direttamente sollevata in ricorso, nonostante il carattere assorbente di tale accertamento, con conseguente inammissibilità del ricorso anche alla stregua del principio di diritto sopra richiamato.
Alla duplice ragione di inammissibilità sopra indicata si aggiunge poi l’altra, derivante dal fatto che il ricorso (e, con esso, la questione di illegittimità costituzionale sollevata con il motivo secondo) è, in via dirimente, manifestamente infondato.
Come è noto, il legislatore nazionale del 1985 ha previsto un procedimento di «sanatoria», volto in sostanza al rilascio, previa corresponsione di un’oblazione, di una concessione (o autorizzazione) edilizia post eventum , cioè dopo che l’opera abusiva era stata eseguita, con conseguente rinuncia all’adozione, nei confronti del responsabile, dei relativi provvedimenti sanzionatori. Successivamente il legislatore ha previsto almeno: un secondo condono edilizio, con il d.l. n. 468/1994, trasfuso poi nell’art. 39 della l. n. 724/1994; e, quindi, un terzo condono edilizio con il d.l. n. 269/2003, convertito nella l. n. 326/2003 (modificata con d.l. n. 168/2004, a sua volta convertito nella l. n. 191/2004).
Orbene, dalla sentenza impugnata risulta che il Sostero si è avvalso della procedura di cui all’art. 38 commi V e VI della legge n. 47/1985 quale oblazione per cinque istanze di condono presentate in data 31 marzo 1995, a mero titolo precauzionale dopo che il Consiglio di Stato con sentenza n. 165/1995 ha annullato la concessione edilizia n. 805/1990, sulla scorta dei quali gli edifici erano stati costruiti ed ultimati sotto la sua direzione entro il 31 dicembre 1993. Infatti, le norme sul condono permettono al direttore dei lavori di non incorrere in sanzioni penali per la direzione effettuata su immobili abusivi.
In accoglimento dell’appello dell’Agenzia, la corte territoriale, riportato l’iter argomentativo seguito dal giudice di primo grado, in
difformità da quest’ultimo ha ritenuto che: a) il versamento dell’oblazione deriva dalla libera scelta del Sostero di aderire alla sanatoria di cui alla legge n. 724/1994 al fine di evitare le possibili conseguenze penali del proprio comportamento; b) l’oblazione comporta, da un lato, rinuncia irretrattabile del cittadino alla garanzia giurisdizionale e, dall’altro, rinuncia dello Stato all’applicazione di una sanzione superiore, con la conseguenza che la somma pagata non è ripetibile ed è irrilevante l’eventuale riserva a tal fine formulata; c) non è configurabile la fattispecie di cui all’art. 2033 c.c., trovando il pagamento il proprio titolo nell’art. 38 della legge n. 47/1985.
Tanto affermando la corte territoriale ha dato corretta applicazione a consolidata giurisprudenza di questa Corte.
Invero, come già reiteratamente sancito in tema di violazione di leggi finanziarie sanzionata con la comminatoria di una pena pecuniaria, è stato precisato (cfr., tra le più recenti, Cass. n. 16197/2010 e, tra le più risalenti, Cass. n. 2319/1979) che: <>.
D’altra parte, in tema di infrazioni valutarie, le Sezioni Unite con l’ormai lontana sentenza n. 1500/1985 (successivamente seguita dalla giurisprudenza a sezioni semplici: cfr., ad es., Cass. n. 16197/2010) hanno precisato che: <>.
In applicazione del generale principio ricavabile dall’appena vista giurisprudenza consolidata di questa Corte, erra dunque il ricorrente quando afferma che il pagamento della somma sarebbe avvenuto sine titulo , non essendo mai iniziato alcun procedimento penale nei suoi confronti, proprio perché la normativa denunciata consente (a chi fa domanda di concessione in sanatoria e paga interamente l’oblazione) di evitare il processo penale ed ogni altra pregiudizievole conseguenza in detta normativa prevista.
Premesso che l’effetto sospensivo o di immediata chiusura del procedimento, per effetto del versamento dell’oblazione, può interessare anche la fase della mera notizia di reato (in quanto, come è noto, il venir meno di una condizione di procedibilità costituisce ragione per iscrivere la notizia nel registro degli atti non costituenti reato ovvero per formulare la richiesta di archiviazione ex art. 411 c.p.p.), occorre sottolineare che l’art. 38 denunciato, a prescindere dalle vicende del procedimento penale, determina l’estinzione dei reati correlati agli abusi, oggetto di oblazione. In altri termini, affinché si determini l’effetto estintivo del reato, non è affatto necessario il previo esercizio dell’azione penale.
D’altra parte, la procedura di oblazione ha carattere volontario e, in quanto tale, non soltanto la parte interessata può attivarla anche in un momento in cui l’autorità giudiziaria competente non ha ancora svolto alcuna valutazione sulla rilevanza penale della condotta da essa tenuta, ma tanto può determinarsi a fare proprio al fine di evitare che detta valutazione venga compiuta. In altri termini, nella fase
precedente all’esercizio dell’azione penale, il soggetto che accede alla procedura di oblazione consegue il vantaggio di impedire l’avvio delle indagini preliminari o di rendere prevedibile la chiusura delle stesse mediante un decreto di archiviazione.
Sarebbe, così, contrario ad ogni ragionevolezza consentire a chiunque di evitare anche solo l’avvio di un procedimento penale corrispondendo una somma, per poi ritenere che, conseguito tale favorevole effetto e non essendo stato avviato quel procedimento, la somma versata sia poi da qualificare non dovuta: il versamento ha, invece, conseguito proprio l’effetto desiderato. Più in generale, il meccanismo lato sensu condonistico appena descritto implica che, ad esso liberamente accedendo il soggetto interessato ad evitare negative conseguenze delle sue violazioni, il solvens rinuncia per ciò stesso, ma liberamente e -soprattutto -irretrattabilmente, alla tutela giurisdizionale spettantegli per le violazioni stesse.
Tali conclusioni rendono manifesta l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale prospettate dal ricorrente.
Per le ragioni che precedono, dando continuità ai suddetti principi anche nella materia oggetto di ricorso, quest’ultimo viene deciso sulla base del seguente principio di diritto:
<>.
Resta impregiudicato il diritto al rimborso della somma versata a titolo di oblazione inerente al procedimento amministrativo di condono edilizio (e la conseguente condanna dell’amministrazione finanziaria alla sua restituzione) nel solo caso in cui – esattamente opposto a quello di specie, nel quale, si ribadisce, per effetto dell’annullamento da parte del Consiglio di Stato della concessione edilizia n. 805/1990, l’abuso si è perpetrato – a seguito del sopravvenuto permesso di costruire in sanatoria rilasciato dal Comune competente ai sensi dell’articolo 36 del d.P.R. n. 380/2001, il condono abbia perso qualsiasi utilità e finalità e, di conseguenza, il versamento della somma abbia perso il suo titolo giustificativo.
Invero, come sopra rilevato, presupposto dell’oblazione è il fatto dell’abuso edilizio (non l’iscrizione della notizia nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. e neppure l’avvio delle indagini preliminari, né tanto meno l’esercizio dell’azione penale).
In considerazione della inammissibilità del controricorso di Roma Capitale e della conseguente irritualità di ogni attività difensiva da quella svolta nel presente giudizio soggetto al rito camerale di legittimità, al rigetto del ricorso consegue la condanna alle spese del ricorrente in favore della sola Agenzia resistente, nonché la declaratoria della sussistenza dei presupposti processuali per il pagamento dell ‘ importo, previsto per legge ed indicato in dispositivo, se dovuto (Cass. Sez. U. 20 febbraio 2020 n. 4315).
P. Q. M.
La Corte:
dichiara inammissibile il controricorso di Roma Capitale;
rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente al pagamento, in favore dell’Agenzia dell’Entrate – Riscossione, delle spese del presente giudizio, spese che liquida in euro 8.200 per compensi, oltre alle spese eventualmente prenotate a debito ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell ‘ art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera di parte ricorrente al competente ufficio di merito, dell ‘ ulteriore importo a titolo di contributo unificato a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 20 giugno 2025, nella camera di consiglio