Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 23418 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 23418 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 17/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso 10202-2024 proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 460/2023 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 02/11/2023 R.G.N. 301/2023; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/04/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
PDA
Gestione Commercianti
R.G.N.10202/2024
COGNOME
Rep.
Ud.10/04/2025
CC
RILEVATO CHE
1.La C orte d’appello di Torino ha confermato la sentenza di primo grado di parziale accoglimento del ricorso proposto da NOME COGNOME volto ad accertare l’infondatezza della pretesa contributiva riportata in tre avvisi di addebito emessi da INPS, oltre alla decadenza dalla iscrizione a ruolo ed alla prescrizione. I l tribunale aveva respinto l’opposizione per un avviso relativo al periodo gennaio-dicembre 2015 e per un altro limitatamente al periodo gennaio-marzo 2019, accogliendola per il resto. Quanto al rigetto, aveva affermato che non fosse maturata la decadenza ex art. 25 d.lgs. n. 46 del 1999 e che il ricorrente risultava essersi iscritto su domanda alla gestione commercianti in relazione alla attività svolta presso la BAF 3 s.a.s. dal gennaio 2015.
Q uanto all’accoglimento , aveva affermato che l’INPS non avesse provato, in relazione alla società RAGIONE_SOCIALE, la partecipazione del ricorrente con attività personale, abituale e prevalente, e che, in relazione alla sua partecipazione alla RAGIONE_SOCIALE, fosse stato invece provato che l’attività sociale era limitata alla locazione a terzi di immobili di proprietà.
La Corte territoriale ha respinto i motivi di appello del COGNOME, reputando che, prima dell’intimazione di pagamento , l’azione proposta contro l’iscrizione a ruolo dei contributi previdenziali integri un ‘opposizione all’esecuzione, che la conferma della sua iscrizione per l’anno 2015 sia derivata non dalla formale volontà di iscrizione bensì dal carattere di abitualità e prevalenza nella sua partecipazione all’attività commerciale della RAGIONE_SOCIALE, che non v’era dubbi o che i due avvisi di addebito confermati si riferisser o alla sua posizione di socio d’opera in seno alla RAGIONE_SOCIALEa.s., che altrettanto era indubitabile che il socio d’opera
esercente attività commerciale in una società debba pagare i contributi con riferimento alla totalità dei redditi di impresa conseguiti, compresi quelli derivanti dalla sua partecipazione alle due società di locazione immobiliare, e che non fosse affatto maturato il termine quinquennale di prescrizione in presenza di una comunicazione di debito del 29/1/2019 e della notifica dell’avviso di addebito per importi inerenti al 2019 avvenuta in data 31/12/2019.
2.- Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione NOME COGNOME affidandosi a un unico motivo, cui INPS resiste con controricorso.
3.- A seguito di formulazione da parte del consigliere delegato di una sintetica proposta di definizione accelerata del giudizio argomentata sul rilievo che il carattere di abitualità e prevalenza dell’attività lavorativa costituisce un accertamento di fatto e che tutti i redditi percepiti nell’anno di riferimento anche quelli da partecipazione a società di persone in cui il lavoratore autonomo non svolga attività lavorativa sono inclusi nella tutela previdenziale obbligatoria, in tal senso richiamando un orientamento giurisprudenziale di legittimità relativo proprio alla partecipazione societaria in società di persone che si limitavano a dare in locazione immobili di proprietà senza prestazione lavorativa, il ricorrente presenta istanza di decisione ai sensi del secondo comma dell’art. 380 -bis cod. proc. civ. riportandosi a quanto eccepito in sede di ricorso per cassazione.
La causa è stata trattata e decisa all’adunanza camerale del 10 aprile 2025.
CONSIDERATO CHE
1.Con l’unico motivo il ricorrente deduce ai sensi dell’art. 360 comma 1 n.3 e n.4 c.p.c. la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1 comma 202 e ss. della legge n.662 del 1996, e dell’art. 3 -bis del d.l. n. 384 del 1992 conv. dalla legge n. 438 del 19 92 circa l’illegittima sussunzione della partecipazione del ricorrente alla società RAGIONE_SOCIALE nell’ambito della fattispecie costitutiva dell’obbligo previdenziale preteso da INPS; invero, non sarebbe fornita la prova della partecipazione personale con abitualità e prevalenza, né a tal fine sarebbe sufficiente la mera iscrizione alla Gestione commercianti su domanda dell’interessato. Ed ancora, l’esercizio di un’attività commerciale sarebbe escluso dalla attività di locazione immobiliare svolta dalla RAGIONE_SOCIALE s.a.s., in presenza di un contratto di affitto d’azienda alla RAGIONE_SOCIALE.sRAGIONE_SOCIALE, ed in costanza di altre partecipazioni del ricorrente alle società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, esercenti attività di locazione immobiliare.
Il ricorrente si duole anche della nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione e per motivazione apparente, in violazione agli artt. 24 e 111 co. 6 Cost., dell’art. 132 co.2 n.4 c.p.c., e dell’art. 118 disp. att. c.p.c. . In particolare, il ricorrente deduce di non avere mai svolto l’attività di socio lavoratore, di essersi limitato al solo incasso dell’affitto d’azienda e di non aver svolto attività tipica commerciale in modo abituale e prevalente, non provato da INPS; né l ‘attività di affitto d’azienda doveva considerarsi tale, trattandosi di un ‘ attività immobiliare esercitata dalle società partecipate dal ricorrente, come socio accomandatario d’opera nella BAF 3 , che diventa commerciale se v’è partecipazione personale al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza.
Nel controricorso l’INPS eccepisce l’inammissibilità del ricorso, nel quale non sono indicate le parti della sentenza oggetto di specifica censura, non autosufficiente ed in presenza di una pronuncia doppia conforme, che mira ad una rivalutazione dei fatti; segnala che la ricorrente tende ad un accertamento di abitualità e prevalenza, rimessa alle fasi di merito.
3. Il ricorso è inammissibile.
NOME COGNOME per quanto emerge dallo storico di lite riportato nel ricorso, è iscritto alla RAGIONE_SOCIALE dal gennaio 2015 in virtù della sua qualità di socio d’opera della RAGIONE_SOCIALE esercente attività commerciale di natura immobiliare, riveste la qualità di socio accomandatario nella RAGIONE_SOCIALE e partecipa anche alle società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE
Sul piano normativo i lavoratori autonomi iscritti alla gestione previdenziale in quanto svolgano un’attività lavorativa per la quale sussistano i requisiti per il sorgere della tutela previdenziale obbligatoria, devono parametrare il proprio obbligo contr ibutivo a tutti i redditi percepiti nell’anno di riferimento, tenendo conto anche di quelli da partecipazione a società di persone nella quale non svolgano attività lavorativa. Questa Corte ha già dato un assetto sistematico alla tematica in indagine, per il diverso profilo inerente alla partecipazione a società di capitali, con la sentenza n. 21540 del 2019, sviluppando snodi argomentativi che, per avere preso in considerazione proprio il diverso profilo, ora all’esame, della partecipazione a società di persone, sono condivisi e vanno, dunque, richiamati integralmente. Invero, l’art. 3-bis del d.l. 19 settembre 1992, n. 384, convertito con modificazioni dalla legge
14 novembre 1992 n. 438, ha previsto che « A decorrere dall’anno 1993, l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti di cui all’art. 1, L. 2 agosto 1990, n. 233, è rapportato alla totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini IRPEF per l’anno al quale i contributi stessi sì riferiscono », in tal modo superando la previgente disciplina contenuta nell’art. 1 della legge n.233 cit., che prevedeva a decorrere dal 1990 l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti iscritti alle gestioni dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli artigiani e degli esercenti attività commerciali, titolari, coadiuvanti e coadiutori, in misura pari al 12% del reddito annuo derivante dalla attività di impresa che dà titolo all’iscrizione alla gestione, dichiarato ai fini Irpef, relativo all’anno precedente.
5.1 – Con la nuova disposizione, invece, rileva “la totalità” dei redditi d’impresa denunciati ai fini IRPEF, non parlandosi più della sola attività che dà titolo all’iscrizione alla gestione ex art. 1 legge n. 233 cit. La differente formulazione normativa realizza un ampliamento della base imponibile contributiva, sicché, al fine di individuare quale sia il reddito d’impresa rilevante ai fini contributivi occorre fare riferimento alle norme fiscali di cui al Testo Unico delle imposte sui redditi, in cui al l’art. 55 si distingue fra redditi di impresa e redditi da capitale: i primi derivano dall’esercizio di attività imprenditoriale, i secondi comprendono gli utili da partecipazione alle società soggette ad IRES (cfr. Cass. n. 25867 del 2023).
5.2 – Si precisa che i redditi di capitale non concorrono a costituire la base imponibile ai fini contributivi INPS, giacché il sistema contributivo prevede che la tutela previdenziale spetti ai lavoratori, non a coloro che si limitino ad investire i propri
capitali a scopo di utile. Come rammentato, questa Corte (cfr. Cass. n. 25732 del 2023), per quanto di interesse in questa sede, ha affermato che: ‘ 21. Diversamente, per i soci di società di persone opera il principio della trasparenza fiscale, in forza del quale i redditi delle società in nome collettivo e in accomandita semplice, da qualsiasi fonte provengano e quale che sia l’oggetto sociale, sono considerati redditi d’impresa e sono determinati unitariamente secondo le norme relative a tali redditi (art. 6 comma 3 del testo post riforma del 2004 del D.P.R. n. 917 del 2016). 22. Ed è proprio il diverso regime dettato per le società di persone da cui deriva il principio, già affermato da questa Corte nella sentenza n. 29779 del 2017, e al quale va data continuità, secondo il quale ai fini della determinazione dei contributi dovuti dagli artigiani ed esercenti attività commerciali, vanno computati anche i redditi percepiti in qualità di socio accomandante, seppure diversi dal reddito che trova causa nel rapporto di lavoro oggetto della posizione previdenziale ‘ . Parimenti, anche la Corte costituzionale, con sent. n. 354 del 2001, ha distinto la posizione dei soci (non lavoratori) delle società di capitali e quelli delle società di persone, ritenendo non fondata, in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis d.l. 19/9/1992 n. 384, conv., con modif., in legge 14/11/1992 n. 438, il quale, sottoponendo a contribuzione INPS i redditi denunciati ai fini IRPEF dal socio accomandante di società in accomandita semplice, introdurrebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra socio accomandante di società in accomandita semplice e socio di società di capitali. Ha infatti rimarcato, il Giudice delle leggi, che ‘ nell’ambito delle società in accomandita semplice (e in quelle in nome collettivo) assume preminente rilievo, diversamente dalle società di capitali,
l’elemento personale, in virtù di un collegamento inteso non come semplice apporto di ciascuno al capitale sociale, bensì quale legame tra più persone, in vista dello svolgimento di un’attività produttiva riferibile, nei risultati, a tutti coloro che hanno posto in essere il vincolo sociale, ivi compreso il socio accomandante; né la scelta del legislatore può ritenersi affetta da irragionevolezza, in quanto all’onere contributivo si correla un vantaggio in termini di prestazioni previdenziali ai sensi dell’art. 5 legge n. 233 cit., in base al quale la misura dei trattamenti è rapportata al reddito annuo d’impresa ‘ (Nello stesso senso, si veda da ultimo Cass. ord. n. 1506/2025).
Ciò posto, occorre, nel caso di specie, definire altri due aspetti qualificanti ai fini della invocata corretta sussunzione nella fattispecie di cui all’art. 1 commi 202 e 203 della legge n.663 del 19 96: se l’attività svolta all’interno della RAGIONE_SOCIALE possa assumere il connotato di attività svolta con carattere di abitualità e prevalenza, e se l’attività immobiliare svolta dalla società, ove limitata alla sola riscossione dei canoni di locazione, possa ritenersi commerciale.
Sotto il primo profilo (come precisato ex multis da Cass. n. 29914 del 2021) la disciplina relativa alla gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali e del terziario è stata modificata dalla legge n. 662 del 1996, art. 1, comma 203, il quale, nel riformulare la legge n. 160 del 1975, art. 29, comma 1, ha previsto che ‘ l’obbligo di iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali di cui alla L. n. 613 del 1966, sussiste per i soggetti che siano in possesso dei seguenti requisiti: a) siano titolari o gestori in proprio di imprese che, a prescindere dal numero dei dipendenti, siano organizzate e/o dirette prevalentemente con il lavoro proprio e dei
componenti la famiglia, ivi compresi i parenti e gli affini entro il terzo grado, ovvero siano familiari coadiutori preposti al punto di vendita; b) abbiano la piena responsabilità dell’impresa ed assumano tutti gli oneri ed i rischi relativi alla sua gestione (ancorché tale requisito non sia richiesto per i familiari coadiutori preposti al punto di vendita nonché per i soci di società a responsabilità limitata); c) partecipino personalmente al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza; d) siano in possesso, ove previsto da leggi o regolamenti, di licenze o autorizzazioni e/o siano iscritti in albi, registri e ruoli ‘. Ciò è quanto in via riassuntiva emerge dalla sentenza n. 18892/2023 che, in un caso analogo a quello in esame, ha svolto le seguenti ulteriori considerazioni: ‘ tenuto conto che la L. n. 1397 del 1960, art. 2, nel testo modificato dalla L. n. 45 del 1986, art. 3, stabilisce a sua volta che analogo obbligo di iscrizione (ricorrendo l’ulteriore requisito della partecipazione personale al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza) grava sui soci di società in nome collettivo e sui soci accomandatari di società in accomandita semplice, risulta evidente che il presupposto imprescindibile per l’iscrizione alla gestione commercianti consiste pur sempre nella prestazione di un’attività lavorativa abituale all’interno dell’impresa, sia essa gestita in forma individuale che societaria: e ciò perché -come a suo tempo rimarcato da Cass. S.U. n. 3240 dei 2010l’assicurazione obbligatoria non intende proteggere l’elemento imprenditoriale del lavoro autonomo, ma piuttosto accomunare commercianti, coltivatori diretti e artigiani ai lavoratori dipendenti in ragione dell’espletamento di attività lavorativa abituale, qualora il loro impegno personale si connoti, rispetto
agli altri fattori produttivi, come elemento prevalente all’interno dell’impresa ‘ .
Orbene, nella impugnata sentenza, risulta positivamente svolto l’accertamento sul carattere di abitualità e prevalenza, in risposta al secondo motivo di appello, sicché oltre a non potersi procedere in sede di legittimità ad una diversa valutazione di meri to, rileva in questa sede anche l’infondatezza della censura di carenza di motivazione o di apparente motivazione. Questa Corte di legittimità (Cass. n. 13977 del 2019; Cass. n. 6758 del 2022) ha precisato che ricorre il vizio di motivazione apparente della sentenza, denunziabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. quando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture. Tali caratteri non sono certo presenti nella sentenza impugnata che, al contrario, di quanto sostiene la ricorrente, dopo aver ricostruito i fatti essenziali della questione, ha individuato il quadro normativo proprio dell’impo nibile contributivo relativo al socio di RAGIONE_SOCIALE e partecipe di altre società di persone, ed ha delineato l’oggetto dell’attività svolta, giungendo per quanto si dirà alla corretta soluzione in diritto.
Si aggiunga che è stato anche affermato da questa Corte che sussiste il vizio di assenza della motivazione, di cui al n. 4 del comma 1 dell’ art. 360 c.p.c., allorché la sentenza sia nulla per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, che rendono incomprensibili le ragioni poste a base della decisione (Cass. n.
16611 del 2018), e che in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla legge n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi -che si convertono in violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza- di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (cfr. Cass. n. 23940 del 2017). Le censure mosse dal ricorrente su entrambi gli aspetti motivazionali sono palesemente infondate perché non riscontrabili nella impugnata pronuncia, in cui è stata puntualmente fornita una risposta soddisfacente a tutti i motivi di appello, non palesandosi, né risulta specificamente rappresentato dal ricorrente, alcun contrasto irriducibile di affermazioni rese all’interno della pronuncia, e neppure è descritta la carenza del minimo costituzionale che si richiede nei provvedimenti decisori.
Altro profilo è quello se, ai fini dell’iscrizione nella gestione commercianti, l’attività di mera riscossione dei canoni di un immobile locato costituisca o meno di norma attività d’impresa,
indipendentemente dal fatto che ad esercitarla sia una società commerciale (Cass. n. 3145 del 2013), salvo che si dia prova che costituisca attività commerciale di intermediazione immobiliare (Cass. n. 845 del 2010; Cass. n. 12981 del 2018); l’eventuale impiego dello schema societario per attività di mero godimento, in implicito contrasto con il disposto dell’art. 2248 c.c., non può trovare una sanzione indiretta nel riconoscimento di un obbligo contributivo di cui difettino i presupposti propri, per come sopra ricostruiti (v. Cass. 30/12/2016, n. 27588). Sul punto, è stato osservato (Cass. 18892 del 2023 cit., ma anche n.25867 del 2023, e n. 25723 del 2023) che la questione va risolta sotto il profilo della individuazione del reddito (ulteriore rispetto a quello tratto dall’attività che dà titolo all’obbligo di iscrizione alla gestione artigiani e commercianti) da considerare per determinare l’imponibile contributivo, nell’ipotesi in cui l’iscritto alla gestione stessa sommi ulteriore reddito (derivante dalla partecipazione a società di persone il cui oggetto è la mera fruizione di canoni di locazione) al reddito tratto dall’attività che fonda l’obbligo assicurativo. Si tratta, cioè, in questo caso, di ricostruire il quadro normativo riferito all’imponibile c ontributivo degli iscritti alla gestione commercianti/artigiani. E vale quanto enunciato in premessa, sull’impianto normativo secondo il quale l’obbligo contributivo vada parametrato a tutti i redditi percepiti nell’anno di riferimento, tenendo conto anche di quelli da partecipazione a società di persone nella quale il socio non svolge attività lavorativa e che ha per oggetto il mero godimento dei canoni di locazione.
11. La Corte di merito si è attenuta ai suddetti principi, dai quali questa Corte non intende discostarsi, e restano quindi manifestamente infondati i rilievi svolti dal ricorrente sia sul
dedotto vizio di sussunzione, essendo correttamente richiamata la normativa ex art. 1 comma 202 e 203 della legge n.662 del 1996 (in particolare per i soggetti indicati alla lett. b e c) ed ex art. 3-bis della legge n.384 del 1992 (sulla totalità dei redditi di impresa), sia sul difetto di motivazione.
La soluzione cui si perviene è in linea con la proposta di definizione accelerata orientata verso la continuità con il consolidato orientamento giurisprudenziale. In conclusione, il ricorso è inammissibile; le argomentazioni difensive non hanno superato le statuizioni della impugnata sentenza che ha deciso le questioni in modo conforme alla giurisprudenza della Corte.
Alla soccombenza fa seguito la condanna del ricorrente al pagamento delle spese, competenze e onorari, liquidate in ragione del valore di causa.
Il giudizio viene così definito in conformità alla proposta non accettata, e si applicano gli ultimi due commi del l’art.96 c.p.c. , contenendo l’art.380 bis, ult. co. c.p.c. una valutazione legale tipica della sussistenza dei presupposti per la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata in favore della controparte e di un ‘ ulteriore somma di denaro in favore della Cassa delle Ammende, secondo quanto statuito da questa Corte (S.U. n. 27195, 27433, 36069 del 2023, e Cass. 27947 del 20 23), l’una come ulteriore aggravamento della condanna alle spese, l’altra con funzione prettamente sanzionatoria a favore della collettività, entrambe espressive di maggior rilievo dato dalla novella codicistica alla finalità deterrente rispetto al compimento di atti processuali meramente defatigatori, valorizzando la funzione deflattiva della proposta definitoria per disincentivare, in presenza di
orientamenti consolidati ed in mancanza di innovative argomentazioni, inutili lungaggini processuali. La ricorrente va dunque condannata a pagare , ai sensi dell’art. 96, terzo e quarto comma c.p.c., una somma equitativamente determinata in €2 .500,00 in favore della resistente (pari alla metà della principale condanna alle spese), ed un’eguale somma in favore della Cassa delle Ammende.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del DPR n.115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 -bis del citato D.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite che si liquidano in Euro 4.000,00 oltre accessori di rito.
Condanna altresì il ricorrente al pagamento della ulteriore somma di euro 2.000,00 in favore della controparte, ed al pagamento, in favore della cassa delle ammende, della somma di Euro 2.000,00.
Dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, a norma del comma 1bis dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione