Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 21066 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 21066 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 27/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5458/2021 R.G. proposto da: COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME (CODICE_FISCALE) che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE);
-ricorrente-
contro
NOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE), rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE);
-controricorrente-
Avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di VENEZIA n. 3301/2020, depositata il 18/12/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10/06/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con decreto n. 5472/2012 veniva ingiunto a NOME COGNOME il pagamento a favore di NOME COGNOME della somma di euro 66.000,00 che l’ingiunta, con la scrittura privata del 31 luglio 2006, si era obbligata a versare a decorrere dal 1° aprile 2007 in ratei mensili di euro 500,00. In particolare, NOME COGNOME aveva partecipato all’assemblea della società RAGIONE_SOCIALE, anche in rappresentanza dei figli, in veste di soci, essendo tutti subentrati nella quota societaria di NOME COGNOME COGNOME, aveva riconosciuto gli esborsi fatti dall’ingiungente per pagare i debiti societari ed aveva accettato di pagare l’importo di euro 66.000,00, cioè la quota risultante a seguito della regolazione dei rapporti dare/avere tra i soci per liquidare la società.
Il giudizio di opposizione che ne era seguito si concludeva con la sentenza n. 1791/2018, con la quale il Tribunale di Vicenza accoglieva l’opposizione e revocava il decreto ingiuntivo.
La Corte d’appello di Venezia, con la sentenza n. 3301/2020, ha accolto l’impugnazione di NOME COGNOME, ritenendo che con il verbale assembleare del 31 luglio 2006 NOME COGNOME avesse riconosciuto, per sé e per i figli, il debito per i pagamenti che l’appellante aveva effettuato nell’interesse della RAGIONE_SOCIALE , che l’appellata rivestiva un ruolo rappresentativo sia della società RAGIONE_SOCIALE sia di un’altra società del gruppo COGNOME e che, pertanto, non poteva non rendersi conto degli effetti dell’impegno che aveva sottoscritto, che, avendo partecipato all’assemblea anche per conto dei figli, NOME e NOME COGNOME, su loro delega, ma senza indicare a verbale le modalità di ripartizione del debito con i figli, aveva accettato di corrispondere l’intero importo nei confronti degli altri soci, ex art. 1294 cod.civ. Ha
invece rigettato l’appello incidentale condizionato promosso da NOME COGNOME.
NOME COGNOME ricorre per la cassazione di detta sentenza, basandosi su cinque motivi.
Resiste con controricorso NOME COGNOME.
La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis 1 cod.proc.civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente si duole, ex art. 360, 1° comma, n. 5, cod.proc.civ., della contraddittorietà della motivazione e ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ. la violazione degli artt. 1322, 2295, 1362 e 1325, 1° comma, n. 2, cod.civ.
Attinta da censura è la statuizione con cui la Corte d’appello ha ritenuto che il contenuto sostanziale della delibera assembleare del 31 luglio 2006 fosse tale da potersi considerare esercizio del diritto potestativo previsto dall’art. 11 dello statuto societario che consentiva ai soci superstiti di far entrare nella compagine sociale gli eredi del socio defunto entro sei mesi dalla sua morte oppure di liquidare la sua quota entro un anno dal decesso. Infatti, il verbale assembleare era intervenuto dopo più di un anno dal decesso di NOME COGNOME, gli eredi non avevano chiesto la liquidazione della quota del de cuius, la società aveva continuato a svolgere la sua attività, il verbale era stato sottoscritto da tutti i presenti che rappresentavano l’intero capitale sociale.
La tesi della ricorrente è che la Corte d’appello abbia stravolto il tenero letterale dell’art. 11 dello statuto, incorrendo nella violazione dell’art. 1362 cod.civ., perché esso era chiaro nello stabilire come dovesse regolarsi la sorte della quota alla morte di uno dei soci.
Inoltre esso prescriveva due termini perentori -quello di sei mesi per far subentrare gi eredi del socio defunto e quello di un anno per liquidare loro la quota del socio defunto -tant’è che prevedeva che, a decorrere dalla morte (o interdizione), il socio era da considerare estromesso dalla società e la Corte d’appello , pur prendendo atto che entrambi i termini erano decorsi, contraddittoriamente aveva ritenuto che gli eredi di NOME COGNOME fossero divenuti soci per fatti concludenti, peraltro, senza considerare che l’assemblea era stata convocata per deliberare la messa in liquidazione della società e il suo scioglimento.
Ulteriore censura è quella di violazione degli artt. 1322 e 2295 cod.civ. per non aver rispettato la volontà delle parti espressa nello statuto societario.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce, ex art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ., la violazione degli artt. 1294, 2263 e 752 cod.civ. nonché la violazione dell’art. 360, 1° comma, n. 5, cod.proc.civ. per motivazione contraddittoria.
La Corte d’appello avrebbe erroneamente posto a suo carico il pagamento dell’intero importo di euro 66.000,00, piuttosto che quello di euro 22.000,00, ritenendo che avesse accettato la definizione del debito e le condizioni di pagamento anche in rappresentanza dei figli senza indicare a verbale la ripartizione con questi ultimi.
L’errore consisterebbe nell’aver ritenuto solidali le obbligazioni a carico dei soci, in violazione dell’art. 2263 cod.civ. In altri termini, il fatto che si fosse obbligata anche per i figli non significava, secondo quanto rappresenta la ricorrente, che dovesse adempiere l’obbligazione assunta per conto dei figli, anche in considerazione del fatto che si trattava di debiti ereditari e, precisamente, di debiti inerenti la quota del defunto NOME COGNOME: in quanto tali ciascuno ne avrebbe dovuto rispondere pro quota ; di qui
l’imputazione alla Corte territoriale di aver violato anche l’art. 752 cod.civ.
Con il terzo motivo la ricorrente attribuisce alla Corte d’appello la violazione dell’art. 1362 cod.civ., in riferimento all’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ. nonché la violazione dell’art. 132, 2° comma, n. 4 cod.proc.civ. per motivazione contraddittoria, ex art. 360, 1° comma, n. 5, cod.proc.civ.
Secondo la ricorrente la Corte d’appello non avrebbe dovuto rigettare l’eccezione di incompetenza per deferimento della causa in arbitrato irrituale come previsto dall’art. 13 dello statuto, perché l’espressione ivi contenuta ‘controversie inerenti all’esecuzione e del contratto sociale’ avrebbe dovuto essere intesa come comprensiva di ogni controversia tra soci e società riguardante diritti e/o questioni che coinvolgono la società, posto che tutto quanto riguarda la vita societaria è esecuzione del contratto sociale e che una interpretazione restrittiva, quale quella fatta propria dal giudice a quo , comporterebbe, anche secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 26553/2018), la necessità di sottoporre a due organi diversi, arbitro e giudice ordinario, la decisione di questioni strettamente collegate tra loro con una dilatazione dei tempi di giudizio; in aggiunta, che per la decisione della controversia per cui è causa dovesse decidere l’arbitro emergeva dal fatto che l’art. 13 statuto rimetteva agli arbitri anche le controversie riguardanti gli eredi del socio, sicché la Corte d’appello avrebbe contraddittoriamente escluso la competenza arbitrale nonostante l’abbia ritenuto una socia – insieme con i figli – della RAGIONE_SOCIALE
Con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 cod.proc.civ., ex art. 360, 1° comma, n. 5, cod.proc.civ., per non essersi il giudice a quo pronunciato sull’eccezione di carenza di legittimazione attiva di NOME, basata sul fatto che la creditrice della prestazione avrebbe dovuto
semmai essere la società, atteso che nel verbale di assemblea, su cui si incentra l’odierna controversia, si faceva riferimento all’estinzione del debito relativo ai soci, in riferimento alla loro quota societaria, e che si prevedeva che, per sciogliere la società, i soci avrebbero dovuto ripianare i debiti, per chiudere la società in bonis . Detta eccezione su cui non si era pronunciato il Tribunale, perché l’opposizione al decreto ingiuntivo era stata accolta in forza di altra eccezione, era stata riproposta in appello, senza che su di essa la Corte d’appello si pronunciasse.
Con il quinto motivo la ricorrente si duole della nullità della sentenza per omessa pronuncia, e x art. 112 cod.proc.civ., sull’eccezione secondo la quale la scrittura privata del 31 luglio 2006, in quanto verbale di assemblea dei soci di una RAGIONE_SOCIALE, era un atto di contenuto descrittivo e non obbligatorio, inidoneo a far sorgere obblighi diretti in capo ad un socio e in favore di un altro socio.
Vanno esaminati prioritariamente il terzo e il quarto motivo di ricorso.
6.1) Il terzo motivo è infondato.
La Corte d’appello ha rigettato l’eccezione di incompetenza, perché ha ritenuto che la questione riguardasse il recupero delle spese accollatesi personalmente da uno dei soci e non le controversie relative all’interpretazione ed esecuzione del contratto sociale.
Nella sostanza, la corte territoriale ha escluso che la causa petendi fosse relativa ad una controversia nascente dal contratto e quindi ha deciso in conformità con la giurisprudenza di questa Corte secondo cui la clausola compromissoria riferita genericamente alle controversie nascenti dal contratto cui essa inerisce va interpretata, in mancanza di espressa volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte e solo le controversie aventi “causa petendi” nel contratto con esclusione,
quindi, di quelle che nello stesso contratto hanno unicamente un presupposto storico (Cass. 24/10/2022, n. 31350; Cass. 31/10/2019, n. 28011; Cass. 08/02/2019 , n. 3795; Cass. 15/02/2017, n. 4035. Cass.03/02/2012, n. 1674).
Va appena rilevato che è in linea con questa conclusione Cass. n. 26553/2018 citata dalla ricorrente che infatti afferma che ‘alla clausola compromissoria, nella parte in cui si riferisce alle controversie scaturenti dall’interpretazione ed esecuzione del contratto, le parti hanno attribuito il significato di deferire alla competenza degli arbitri tutte le controversie che trovano la causa petendi in quell’accordo’. La pronuncia infatti aveva chiarito che la clausola che faceva riferimento alle liti in tema di “interpretazione ed esecuzione del contratto”, non poteva essere interpretata in modo tale da imporre irragionevolmente alle parti che controvertevano, l’una, per far valere la risoluzione del contratto, l’altra la nullità dello stesso ‘di ricorrere all’arbitrato solo per interpretare il contratto e verificarne la rituale esecuzione essendo solo tali domande oggetto di clausola arbitrale’, confermando che ‘in assenza di specifica esclusione, deve ritenersi che le parti abbiano inteso devolvere ad arbitri tutte le questioni derivanti, in modo diretto o indiretto, dal contratto o dal rapporto’.
6.2) Il quarto motivo non ha pregio.
Il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, risultando necessario e sufficiente che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, e dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l'”iter” argomentativo seguito. Ne consegue che il vizio di omessa pronuncia – configurabile allorché risulti completamente omesso il provvedimento del giudice
indispensabile per la soluzione del caso concreto – non ricorre nel caso in cui, seppure manchi una specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti il rigetto (Cass. 28/07/2023, n.23100).
La Corte d’appello ha mostrato di aver implicitamente respinto l’eccezione di difetto di legittimazione attiva di NOME, avendo accolto la sua impugnazione.
7) Il primo motivo è inammissibile.
La Corte d’appello non ha fatto leva sull’art. 11 dello statuto per attribuire alla odierna ricorrente e ai suoi due figli la qualità di soci, ma ad una serie di indizi che ha ritenuto indicassero l’avvenuto acquisto da parte loro di detta qualità, in linea con il principio di diritto enunciato da Cass. n. 15686/2020, a mente del quale ‘ In tema di società di persone, è valida la clausola, contenuta nel contratto sociale, che attribuisca ai soci superstiti la facoltà di continuare la società con gli eredi del socio deceduto, così imponendo a questi ultimi, ove la facoltà sia esercitata, l’obbligo di proseguire l’attività sociale del loro dante causa, fermo restando che la continuazione della società da parte di questi ultimi non avviene “mortis causa”, ma in virtù dell’accordo “inter vivos” intercorso con i soci superstiti, che può manifestarsi anche per il tramite di comportamenti concludenti’.
Il che impone di segnalare la natura eccentrica delle argomentazioni difensive con cui la ricorrente imputa alla Corte d’appello di aver violato l’art. 1362 cod.civ. Il giudice a quo ha, in altri termini, ritenuto che la qualità di soci di NOME COGNOME e dei figli fosse stata assunta attraverso un comportamento concludente (proprio per questo non ha attribuito rilievo al fatto che i termini di cui all’art. 11 dello statuto fossero scaduti) e detta ratio decidendi non è stata colta e quindi non è stata efficacemente confutata dalla ricorrente.
Per le ragioni esposte deve altresì escludersi che la Corte d’appello sia incorsa in contraddizione , per aver dato atto che i termini di cui all’art. 11 dello statuto erano perenti quando si tenne la assemblea, né è incorsa nella dedotta violazione degli artt. 1322 e 2295 cod.civ., pure denunciata dalla ricorrente.
Il secondo motivo è infondato.
In primo luogo, erra la ricorrente a ritenere che l’obbligazione assunta nei confronti di NOME fosse di natura ereditaria, con conseguente violazione dell’art. 752 cod.civ., perché dei debiti ereditari , salvo il caso dell’indivisibilità dell’obbligazione, ciascun erede risponde pro quota (nomina hereditaria ipso iure dividuntur) .
La Corte d’appello ha chiarito che i soci NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME e i suoi due figli -avevano convenuto di rimborsare pro quota le somme pagate da NOME COGNOME per estinguere debiti della società, all’esito dei conteggi di quanto ciascun socio aveva apportato alla società, per procedere alla chiusura dei debiti sociali. In altri termini, il giudice a quo ha ritenuto che NOME COGNOME avesse assunto l’obbligo, anche per i figli, nella veste di socia (essendo subentrata al marito defunto insieme con i figli). Il che esclude che il debito per cui è causa avesse fonte ereditaria.
Né ha ragione NOME COGNOME di dolersi del fatto di essere stata chiamata a rispondere nei confronti di NOME COGNOME dell’intero debito di euro 66.000,00; trattandosi di una obbligazione solidale dei tre condebitori (NOME COGNOME e i suoi figli) e non di un’obbligazione parziaria (a questo si riferisce il giudice a quo quando attribuisce rilievo al fatto che NOME COGNOME non aveva indicato a verbale la ripartizione con i figli), ben poteva il creditore pretendere l’adempimento dell’intera obbligazione da uno qualsiasi dei condebitori, ai sensi dell’art. 1292 cod.civ.
Il quinto motivo non ha pregio.
La Corte d’appello, pur non essendosi espressamente pronunciata sull’eccezione, l’ha implicitamente rigettata, là dove ha sottolineato la valenza impegnativa dell’atto sottoscritto. Tanto esclude la ricorrenza degli estremi del vizio di omessa pronuncia, perché non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia ( ex multis cfr. Cass. 04/05/2020, n. 8439).
Per le ragioni esposte il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in euro 4.600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, a favore dell’ufficio di merito competente, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di Consiglio della Terza Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione in data 10/06/2024.
Il Presidente NOME COGNOME