Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 10191 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 10191 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 17/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 15844/2022 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso l’indirizzo Pec del difensore, rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME
–
ricorrente – contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che la rappresenta e difende.
–
controricorrente – avverso la SENTENZA del TRIBUNALE di TIVOLI n. 1770/2021 depositata il 13/12/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18/12/2024 dal Consigliere dr.ssa NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La RAGIONE_SOCIALE, cessionaria del credito di una società di pubblicità, conveniva avanti al Giudice di Pace di Tivoli la società RAGIONE_SOCIALE per sentirla condannare al pagamento del corrispettivo per la prestazione di servizi pubblicitari.
Con sentenza n. 369/2018 il Giudice di Pace di Tivoli rigettava la domanda, sul presupposto della nullità del contratto per violazione di norma imperativa, in quanto l’attività di pubblicità era stata prestata in difetto della prescritta autorizzazione amministrativa.
Con sentenza n. 1770/2021 del 13 dicembre 2021 il Tribunale di Tivoli accoglieva l’appello proposto dalla RAGIONE_SOCIALE e, in totale riforma dell’impugnata sentenza, condannava la società RAGIONE_SOCIALE al pagamento del dovuto.
Avverso tale sentenza la RAGIONE_SOCIALE propone ora ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
Resiste con controricorso la RAGIONE_SOCIALE
La trattazione del ricorso è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis .1, cod. proc. civ.
Le parti hanno depositato rispettive memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la società ricorrente denunzia ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. dall’art. 23, comma 4, e dell’art. del Codice della strada e dell’art. 53, comma 3, regolamento di attuazione del Codice della strada in combinato disposto con l’art. 1418 c.c.’.
Deduce che l’attività pubblicitaria, di cui la controparte gli ha chiesto il pagamento, è regolamentata dall’art. 23, comma 4, del codice della strada, il quale prevede che la collocazione di cartelli e di altri mezzi pubblicitari lungo le strade o in vista di esse è
‘soggetta in ogni caso ad autorizzazione da parte dell’ente proprietario della strada’, e lamenta che, nel riformare la sentenza di prime cure, il giudice d’appello ha escluso l’incidenza della mancata osservanza, da parte del creditore che nel caso di specie ha prestato tale attività in assenza di autorizzazione amministrativa, di questa prescrizione, sul rilievo -errato, secondo il ricorrente- per cui tale regola rientra nel novero delle cd. regole di comportamento, che in quanto tali attengono alla fase dell’esecuzione del contratto e la cui inosservanza, pertanto, non può determinarne la nullità.
1.1. Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato, per le ragioni e nei termini che seguono.
Le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 26724/2007, hanno già avuto modo di affermare che ‘In relazione alla nullità del contratto per contrarietà a norme imperative, in difetto di espressa previsione in tal senso (cosiddetta “nullità virtuale”), deve trovare conferma la tradizionale impostazione secondo la quale, ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anch’esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti la quale può essere fonte di responsabilità>>, facendo al riguardo richiamo alle considerazioni svolte dalla precedente Cass. n. 19024 del 2005, ove, dopo essersi affermato che la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative postula violazioni attinenti ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto, si è escluso che l ‘ illegittimità della condotta tenuta nel corso delle trattative prenegoziali, ovvero nella fase dell’esecuzione del contratto stesso, sia causa di nullità, indipendentemente dalla natura delle norme con le quali siffatta condotta contrasti, a
meno che siffatta sanzione non sia espressamente prevista.
Il cardine intorno al quale ruotano entrambi i richiamati arresti è costituito dalla distinzione tra norme di comportamento dei contraenti e norme di validità del contratto.
La violazione delle prime, tanto nella fase prenegoziale quanto in quella attuativa del rapporto, ove non sia altrimenti stabilito dalla legge, genera responsabilità e può esser causa di risoluzione del contratto, ove si traduca in una forma di non corretto adempimento del generale dovere di protezione e degli specifici obblighi di prestazione gravanti sul contraente, ma non incide sulla genesi dell’atto negoziale, quanto meno nel senso che non è idonea a provocarne la nullità, a differenza della violazione delle seconde, che attengono invece alla intrinseca struttura dell’assetto negoziale.
Che tale distinzione, come sottolineano le Sezioni Unite, sia fortemente radicata nei principi del codice civile è difficilmente contestabile.
E’ al riguardo sufficiente considerare come dal fondamentale dovere che grava su ogni contraente di comportarsi secondo correttezza e buona fede -immanente all’intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., e sottostante a quasi tutti i precetti legali di comportamento delle parti di un rapporto negoziale (ivi compresi quelli qui in esame)il codice civile faccia discendere conseguenze che possono, a determinate condizioni, anche riflettersi sulla sopravvivenza dell’atto (come nel caso dell’annullamento per dolo o violenza, della rescissione per lesione enorme o della risoluzione per inadempimento) e che in ogni caso comportano responsabilità risarcitoria (contrattuale o precontrattuale), ma che, per ciò stesso, non sono evidentemente mai considerate tali da determinare la nullità radicale del contratto (semmai eventualmente annullabile,
rescindibile o risolubile), ancorché l’obbligo di comportarsi con correttezza e buona fede abbia indiscutibilmente carattere imperativo.
1.2. Di talchè, dalla congiunta considerazione di quanto espresso dalle Sezioni Unite del 2017 e dal precedente arresto del 2005, occorre trarre le seguenti conseguenze: a) che la “contrarietà” a norme imperative, considerata dall’art. 1418, primo comma, cod. civ., quale “causa di nullità” del contratto, postula che essa attenga ad elementi “intrinseci” della fattispecie negoziale, che riguardino, cioè, la struttura o il contenuto del contratto (art. 1418, secondo comma, cod. civ.; per una applicazione, in relazione all’oggetto del contratto, v. la recente Cass., 10/10/2024, n. 26487); b) che, pertanto, i comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattative ovvero -per quanto qui rileva – durante l’esecuzione del contratto rimangono estranei alla fattispecie negoziale e s’intende, allora, che la loro eventuale illegittimità, quale che sia la natura delle norme violate, non può dar luogo alla nullità del contratto (v. anche Cass., 09/01/2004, n. 111; Cass., 25/09/2003, n. 14234; di recente anche Cass., n. 15099 del 31/05/2021); a meno che tale incidenza non sia espressamente prevista dal legislatore (ad esempio, ai sensi dell’art. 1469 ter, quarto comma, cod. civ., in relazione all’art. 1469, quinquies , primo comma, stesso codice), dato che, come dalle Sezioni Unite sottolineato, in relazione al caso sottoposto al loro esame, in tema di intermediazione finanziaria, ma con un principio di carattere generale, ‘Si possono ovviamente avere opinioni diverse sul grado di efficacia della tutela in tal modo assicurata dal legislatore al risparmio dei cittadini, che negli ultimi anni sempre più ampiamente viene affidato alle cure degli intermediari finanziari. Ma non si può negare che gli strumenti di tutela esistono anche sul piano del diritto civile, essendo poi la loro specifica conformazione giuridica compito del medesimo
legislatore le cui scelte l’interprete non è autorizzato a sovvertire, sicché il ricorso allo strumento di tutela della nullità radicale del contratto per violazione di norme di comportamento gravanti sull’intermediario nella fase prenegoziale ed in quella esecutiva, in assenza di disposizioni specifiche, di principi generali o di regole sistematiche che lo prevedano, non è giustificato ‘.
1.3. Orbene, n ell’impugnata sentenza la corte territoriale ha dei suindicati principi fatto invero piena e corretta applicazione.
Per contro, nel motivo in scrutinio il ricorrente non offre elementi tali da indurre a rimeditare tale orientamento, senza sottacersi nemmeno dimostra di avere, nel precedente contesto processuale, specificamente allegato le ragioni in forza delle quali l’esercizio di una attività commerciale senza autorizzazione amministrativa concretizzerebbe la violazione di una norma imperativa, dettata nell’interesse generale (questione che l’arresto delle Sezioni Unite si pone al punto 1.4. della motivazione).
Con il secondo motivo la ricorrente denunzia ‘Violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione all’art. 1453 c.c. all’art. 1382 c.c. ed, ulteriormente, all’art. 1384 c.c. in combinato disposto con l’art. 33 del D. Lgs. 206/2005’.
Censura l’impugnata sentenza là dove risulta affermato che la clausola penale di cui all’articolo 4 del contratto prevede, in caso di inadempimento, che «la RAGIONE_SOCIALE avrà la facoltà di considerare il contratto risolto» e «il committente sarà tenuto al pagamento di una somma pari ai canoni scaduti e non pagati ed ai canoni a scadere, per la durata contrattuale»; ancora, che ‘Tale clausola penale, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale sopramenzionato, non può dirsi nulla per violazione dell’articolo 1453 c.c. in quanto sembra assolvere la funzione risarcitoria e sanzionatoria tipica della clausola penale, liquidando preventivamente e forfettariamente il danno e
rafforzando il vincolo contrattuale’.
Lamenta che la corte territoriale ‘non pare aver tenuto in debito conto la specifica eccezione sollevata da questa difesa in merito alla vessatorietà della clausola penale con riferimento alla previsione normativa di cui all’art. 33 del Codice del Consumo, per cui è da presumersi vessatoria, fino a prova contraria, la clausola penale manifestamente eccessiva, imposta al consumatore in caso di inadempimento o ritardo nell’adempimento, inserita nel contratto concluso tra un professionista e un consumatore’.
2.1. Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
E’ inammissibile, in quanto l’impugnata sentenza non menziona, come punto di lite tra le parti, la questione della qualità di consumatore o meno della odierna ricorrente RAGIONE_SOCIALE ed il ricorrente, nel motivo in scrutinio, non riporta né localizza se, dove e quando, nel precedente contesto processuale abbia mai sollevato tale questione, la quale risulta dunque essere questione nuova sollevata per la prima volta in sede di legittimità (v., tra le tante, Cass ., 01/07/2024, n. 18018: ‘In tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi è cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche, in virtù del principio di autosufficienza, indicare in quale specifico atto del grado precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito e non rilevabili di ufficio’) .
E’ infondato a mente del consolidato orientamento di questa Corte secondo cui ‘la qualifica di consumatore di cui all’art 3 del
d. lgs. n. 206/2005 -rilevante ai fini della identificazione del soggetto legittimato ad avvalersi della tutela di cui all’art. 33 del citato d.lgs. -spetta alle sole persone fisiche, allorché concludano un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata’ (cfr. tra le tante Cass., 11/11/2021, n. 33439; Cass., 12/03/2014, n. 5705; Cass., 29/03/2013, n. 21763; Cass, n. 17848/2017).
Alla inammissibilità e infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo in favore della controricorrente, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi euro 2.600,00, di cui euro 2.400,00 per onorari, oltre a spese generali e accessori di legge, in favore della controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Terza