Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 28716 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 28716 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 30/10/2025
SENTENZA
sul ricorso (iscritto al N.R.G. NUMERO_DOCUMENTO) proposto da:
R.G.N. 8095/23
U.P. 16/10/2025
Vendita -Preliminare immobili in costruzione -Rilascio fideiussione -Diffida ad adempiere -Ritenzione caparra confirmatoria -Riduzione -Risarcimento danni per illegittima occupazione
COGNOME NOME (C.F.: CODICE_FISCALE), rappresentato e difeso, giusta procura in calce al ricorso, dagli AVV_NOTAIO e NOME COGNOME, con domicilio digitale eletto presso l’indirizzo PEC del secondo difensore;
e
COGNOME NOME (C.F.: CODICE_FISCALE), rappresentata e difesa, giusta procura in calce al ricorso, dall’AVV_NOTAIO, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO;
-ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE con socio unico (C.F.: CODICE_FISCALE), in persona del suo legale rappresentante pro -tempore , rappresentata e difesa, giusta procura in calce al controricorso, dall’AVV_NOTAIO, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO;
-controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 102/2023, pubblicata il 17 gennaio 2023, notificata a mezzo PEC il 25 gennaio 2023;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16 ottobre 2025 dal AVV_NOTAIO relatore NOME COGNOME;
viste le conclusioni rassegnate nella memoria depositata dal P.M. ex art. 378, primo comma, c.p.c., in persona della AVV_NOTAIO Procuratrice generale AVV_NOTAIO, che ha chiesto il rigetto del primo motivo di ricorso, l’accoglimento del terzo e l’assorbimento dei rimanenti motivi; conclusioni ribadite nel corso dell’udienza pubblica;
lette le memorie illustrative depositate nell’interesse delle parti, ai sensi dell’art. 378, secondo comma, c.p.c.;
sentiti , in sede di discussione orale all’udienza pubblica, gli AVV_NOTAIO e NOME COGNOME -anche in sostituzione dell’AVV_NOTAIO per entrambi i ricorrenti e l’AVV_NOTAIO per la controricorrente.
FATTI DI CAUSA
1. –NOME conveniva, davanti al Tribunale di Milano, la RAGIONE_SOCIALE, al fine di sentire accertare la nullità dei contratti preliminari di vendita di unità immobiliari in costruzione del 18 dicembre 2008 (unità immobiliari nn. G5 e G6, con vani box e vani cantina, al prezzo di euro 523.000,00) e del 4 maggio 2009 (unità immobiliari nn. G4 ed F9, con vani box e vani cantina, al prezzo di euro 573.000,00) per il mancato rilascio della polizza fideiussoria prevista dall’art. 2 del d.lgs. 122/2005, con la conseguente condanna della convenuta promittente alienante alla restituzione delle somme versate a titolo di acconti e al pagamento del doppio della caparra confirmatoria da questa ricevuta, oltre al risarcimento del danno, nella misura complessiva di euro 1.527.818,25, di cui euro 1.200.000,00, pari al doppio della somma di euro 600.000,00, versata dall’attore promissario acquirente, a titolo di caparra confirmatoria, contestualmente alla stipula dei contratti preliminari (euro 360.000,00 per il contratto del 18 dicembre 2008 ed euro 240.000,00 per il contratto del 4 maggio 2009), euro 240.000,00 per la restituzione dell’acconto sul prezzo versato per il contratto del 4 maggio 2009, euro 37.818,25 per la restituzione delle somme versate per gli interessi di mutuo, euro 50.000,00 (o la diversa somma ritenuta di giustizia) a titolo di risarcimento del danno per la mancata disponibilità delle somme suindicate per investimenti fruttiferi in titoli ed azioni o in acquisti di altri immobili, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.
RAGIONE_SOCIALE si costituiva in giudizio, riconoscendo: – di aver stipulato i contratti preliminari del 18 dicembre 2008 e del 4
maggio 2009 in mancanza della polizza fideiussoria prevista dall’art. 2 del d.lgs. 122/2005; – di aver ricevuto le somme di euro 240.000,00 e di euro 360.000,00 a titolo di caparra confirmatoria; -di aver consegnato all’attore le unità immobiliari in data 17 aprile 2013.
Adduceva, poi, che il promissario acquirente aveva rifiutato di stipulare i contratti definitivi di compravendita e di pagare le somme residue a saldo, opponendo il difetto della fideiussione in modo pretestuoso, anche all’esito delle due diffide ad adempiere notificate.
Per l’effetto, chiedeva: A) in via principale, il rigetto delle domande attoree per la validità dei contratti preliminari; B) l’accertamento della legittimità del recesso e della ritenzione della caparra confirmatoria ex art. 1385 c.c., in ragione della gravità dell’inadempimento dell’attore, che si era rifiutato di stipulare i contratti definitivi e doveva ancora versare la somma di euro 374.310,84, quale residuo per le obbligazioni contrattuali, e di euro 12.874,86 per spese condominiali anticipate dalla convenuta; C) la condanna (dell’attore e della terza chiamata, in solido, per il contratto del 18 dicembre 2008) alla restituzione delle unità immobiliari, libere da persone e cose; D) la condanna al pagamento dell’indennità di occupazione degli immobili dalla data della consegna (17 aprile 2013) sino all’effettivo rilascio, quantificata sulla base dei canoni di edilizia convenzionata; E) la condanna al risarcimento del danno per l’usura degli immobili calcolata in euro 25.000,00 per ciascun appartamento.
In via pregiudiziale, la convenuta chiedeva l’autorizzazione a chiamare in causa COGNOME NOME, quale cessionaria del contratto preliminare del 18 dicembre 2008.
Autorizzata la chiamata in causa, si costituiva in giudizio anche COGNOME NOME, la quale assumeva che il contratto di cessione si era risolto nel settembre 2017, a seguito del protrarsi dell’inadempimento del promittente venditore, scaturito, a sua volta, da quello del costruttore. Eccepiva, per l’effetto, il proprio difetto di legittimazione passiva e, in ragione della chiamata in causa, dichiarava la propria disponibilità a stipulare, per sé o per persona da nominare, i contratti definitivi di acquisto degli immobili, con il versamento del residuo importo di euro 124.000,00, a fronte del rilascio della polizza fideiussoria prevista dall’art. 2 del d.lgs. n. 122/2005.
Chiedeva, poi, la condanna, in via alternativa o solidale, di RAGIONE_SOCIALE al risarcimento del danno di euro 188.137,18, di cui euro 52.300,00 pari al 10% del valore degli immobili, euro 40.837,18 per la restituzione di somme pagate al costruttore per rate di mutuo e spese condominiali ed euro 95.000,00 per le spese corrisposte al COGNOME.
In via subordinata, chiedeva la condanna di RAGIONE_SOCIALE, oltre che al risarcimento indicato in via principale, anche alla restituzione del doppio della somma versata a titolo di caparra confirmatoria al COGNOME per euro 335.000,00.
Quindi, il Tribunale adito, con sentenza n. 6854/2020, depositata il 2 novembre 2020: 1) respingeva la domanda di accertamento della nullità dei contratti preliminari relativi ad immobili da costruire, ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 122/2005, in
quanto ‘proposta dall’attore dopo la consegna degli immobili quando era ormai cessato il pericolo di pregiudizio del suo interesse tutelato con la previsione della necessità del rilascio della fideiussione al preliminare’; 2) in accoglimento delle domande proposte in via riconvenzionale da RAGIONE_SOCIALE: A) accertava la legittimità del recesso dai contratti preliminari stipulati il 18 dicembre 2008 e il 4 maggio 2009 per inadempimento del promissario acquirente e della cessionaria del primo contratto; B) ordinava al promissario acquirente, in solido con la cessionaria, il rilascio dei beni oggetto dei preliminari, consegnati nel mese di aprile 2013, e accertava il diritto della promittente venditrice a trattenere la caparra confirmatoria di euro 600.000,00 (di cui euro 360.000,00 per il primo contratto ed euro 240.000,00 per il secondo); 3) accertava il diritto del promissario acquirente alla restituzione dell’acconto versato di euro 240.000,00; 4) condannava il promissario acquirente e la cessionaria, in solido, al pagamento, in favore della promittente alienante, della somma di euro 157.971,00, a titolo di risarcimento del danno per l’occupazione degli immobili oggetto del contratto del 18 dicembre 2008, ed il solo COGNOME al pagamento della somma di euro 172.970,74, sempre a titolo di indennità di occupazione, relativamente agli immobili oggetto del contratto del 4 maggio 2009; 5) rigettava le ulteriori domande proposte da RAGIONE_SOCIALE e da COGNOME NOME.
2. -Proponevano separatamente appello avverso la pronuncia di primo grado NOME e COGNOME NOME, lamentando: 1) che erroneamente era stata disattesa la domanda di accertamento della nullità dei preliminari, ai sensi
dell’art. 2 del d.lgs. n. 122/2005, a fronte del mancato rilascio delle fideiussioni per immobili in costruzione; 2) che erroneamente era stata accolta la domanda, proposta dalla promittente alienante, di accertamento della legittimità del recesso e del connesso diritto ad incamerare la caparra confirmatoria dopo la verificazione dell’effetto risolutorio in ragione delle inviate diffide ad adempiere; 3) che erroneamente era stata accolta la domanda di accertamento della legittimità del recesso e del connesso diritto ad incamerare la caparra confirmatoria in ragione dell’incongrua valutazione dell’importanza dell’asserito inadempimento; 4) che non poteva trovare accoglimento, in via cumulativa, la domanda risarcitoria per l’illegittima occupazione dei cespiti e, in subordine, che la relativa quantificazione era eccessiva; 5) che era stata omessa ogni pronuncia sulla domanda di ripetizione degli esborsi sostenuti a titolo di interessi di ammortamento e preammortamento; 6) quanto alla posizione della COGNOME, che era stata erroneamente disattesa l’eccezione relativa al suo difetto di legittimazione passiva.
Si costituiva nei giudizi di impugnazione RAGIONE_SOCIALE, la quale instava per la declaratoria di inammissibilità o per il rigetto degli appelli, con la conferma della decisione impugnata.
Riuniti i giudizi, decidendo sui gravami interposti, la Corte d’appello di Milano, con la sentenza di cui in epigrafe, in accoglimento per quanto di ragione dell’impugnazione spiegata dal COGNOME e in parziale riforma della pronuncia appellata: -condannava RAGIONE_SOCIALE al pagamento, in favore del COGNOME, dell’ulteriore importo di euro 9.429,95, oltre interessi al tasso
legale dall’11 dicembre 2018 al saldo; – rigettava, per il resto, gli appelli interposti dal COGNOME e dalla COGNOME; – condannava il COGNOME e la COGNOME, in solido, al pagamento, in favore di RAGIONE_SOCIALE, della somma di euro 244.327,25 (in luogo della somma di euro 157.971,00), a titolo di risarcimento del danno per l’occupazione degli immobili oggetto del contratto del 18 dicembre 2008, oltre interessi moratori dalla pubblicazione della sentenza al saldo; – condannava altresì il COGNOME al pagamento, in favore di RAGIONE_SOCIALE, della somma di euro 270.194,26 (in luogo della somma di euro 172.970,74), a titolo di risarcimento del danno per l’occupazione degli immobili oggetto del contratto del 4 maggio 2009, oltre interessi moratori dalla pubblicazione della sentenza al saldo.
A sostegno dell’adottata pronuncia la Corte di merito rilevava per quanto di interesse in questa sede: a ) che le unità immobiliari oggetto dei contratti preliminari erano state ultimate -e consegnate nell’anno 2013 al promissario acquirente , che ne aveva fatto uso e disposto per anni, sia cedendo il contratto alla COGNOME -che, a propria volta, ne aveva fatto uso e ne aveva disposto -, sia concedendo le unità immobiliari in godimento a terzi, tanto che, alla data di proposizione dell’appello, gli imm obili erano ancora pacificamente utilizzati, direttamente o indirettamente, dal promissario acquirente, il quale aveva richiesto, per la prima volta, il rilascio delle polizze fideiussorie dopo circa tre anni dall’immissione in possesso; b ) che l’art. 2 del d.lgs. n. 122/2005 -come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità -mirava a preservare l’interesse dell’acquirente a recuperare le somme versate in favore del venditore nel caso in
cui questi si fosse trovato in uno stato di crisi che non avesse consentito il perfezionamento del programma negoziale con il trasferimento della titolarità del bene; c ) che la finalità di protezione del contraente ‘debole’, rispetto ad un rischio ben preciso -ossia quello di perdere gli acconti versati per l’acquisto di un bene non ancora venuto ad esistenza, a causa dell’insolvenza del promittente venditore , costituiva un limite all’esercizio dell’azione di nullità in tutti i casi in cui l’interesse fo ndamentale dell’acquirente fosse risultato già soddisfatto; d ) che, nel caso in esame, come evidenziato dal Tribunale, la domanda di nullità dei contratti preliminari era stata proposta dall’attore dopo la consegna degli immobili, quando era ormai cessato il pericolo di pregiudizio del suo interesse tutelato con la previsione della necessità del rilascio della fideiussione al momento del preliminare, sicché la proposizione della domanda di nullità del contratto per violazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 122/2005 concretava un abuso del diritto, che ne impediva l’accoglimento; e ) che, a fronte dell’orientamento secondo cui non sarebbe stata ammissibile la rinuncia all’effetto risolutorio già verificatosi, attraverso la richiesta di accertamento della legittimità del recesso dai contratti preliminari, al fine di incamerare la caparra, appariva maggiormente persuasivo l’orientamento di legittimità secondo il quale, anche una volta scelta, in via stragiudiziale, la strada della risoluzione mediante diffida ad adempiere, restavano aperte al contraente in bonis , nella successiva sede giudiziale, tutte le opzioni risolutive, ossia specialmente anche il recesso ex art. 1385 c.c., con richiesta di trattenimento della caparra; f ) che, peraltro, le due diffide ad
adempiere erano state notificate il 26 novembre 2018, mentre i promissari acquirenti erano stati convocati dinanzi al AVV_NOTAIO per il 5 dicembre successivo, con la conseguenza che si trattava di atti inidonei a determinare la risoluzione di diritto dei contratti preliminari, ai sensi dell’art. 1454, secondo comma, c.c., in nessun caso ostativi al successivo recesso; g ) che, inoltre, la clausola n. 7 dei contratti preliminari prevedeva che, in caso di mancato pagamento delle somme dovute da parte del promissario acquirente, la promittente venditrice avrebbe potuto domandare la risoluzione del contratto e il risarcimento dei danni o, in via alternativa, recedere e ritenere le somme versate a titolo di caparra confirmatoria, clausola espressamente riprodotta nelle c.d. ‘diffide ad adempiere’ notificate, nelle quali l’appellata, pur dichiarando di volersi avvalere del meccanismo risolutorio disciplinato dall’art. 1454 c.c., aveva precisato che, ove le controparti non fossero comparse dinanzi al AVV_NOTAIO il 5 dicembre 2018 e non avessero versato il saldo del prezzo ai sensi dell’art. 7, non solo il contratto avrebbe dovuto ritenersi risolto, ma essa avrebbe anche incamerato la caparra, questo a testimonianza, oltre che di un’innegabile confusione concettuale tra istituti giuridici, della volontà di RAGIONE_SOCIALE, fin da allora, di avvalersi del rimedio previsto dall’art. 1385, secondo comma, c.c., al fine di trattenere la caparra confirmatoria; h ) che, ancora, il diritto a trattenere la caparra confirmatoria sarebbe stato ammissibile anche in caso di diffida ad adempiere; i ) che la ragione per la quale il NOME, ottenuto il godimento degli immobili nella primavera del 2013 -data entro la quale anche il prezzo pattuito avrebbe dovuto essere interamente versato -, aveva rifiutato
ripetutamente il proprio consenso alla stipulazione di tutti i contratti definitivi, era consistita unicamente nella mancata evasione della richiesta di consegna della fideiussione e non certo in incomprensioni sorte con la promittente venditrice per l’imputazione di caparre e acconti, né in contestazioni afferenti all’ammontare del dovuto, sollevate solo nella comparsa conclusionale in appello; l ) che non poteva che convenirsi con il primo giudice in ordine all’esistenza di un inadempimento grave e imputabile, poiché il promissario acquirente, obbligato alla stipulazione dei contratti definitivi, si era sottratto in modo pretestuoso all’adempimento delle principali obbligazioni poste a suo carico, in relazione a tutte le unità immobiliari promesse in vendita; m ) che il danno da illegittima occupazione dell’immobile, frattanto consegnato al promissario, discendendo da un distinto fatto illecito, legittimava il promittente a richiedere un autonomo risarcimento, sicché non sussisteva alcun cumulo indebito, posto che la dazione della caparra assolveva alla specifica funzione di liquidazione preventiva del danno derivante dal mancato conseguimento del prezzo; n ) che RAGIONE_SOCIALE era un imprenditore commerciale ed aveva edificato il complesso residenziale nel quale erano ubicati gli immobili oggetto dei contratti preliminari allo scopo di venderli o locarli, sicché nessun dubbio sussisteva sul danno che la stessa aveva subito per effetto della protratta occupazione da parte del NOME, cessata solo il 14 giugno 2022 per le unità immobiliari G6 ed F9, il 4 agosto 2022 per l’unità immobiliare G5 ed ancora in corso per l’unità immobiliare G4; o ) che gli immobili oggetto dei preliminari erano stati edificati in regime di edilizia convenzionata e, per l’effetto, si
era proceduto ad una liquidazione equitativa del danno, quantificando il valore locativo degli immobili sulla base della clausola n. 11, che prevedeva che il canone non potesse superare il valore pari al 5% del costo totale dell’immobile; p ) che correttamente RAGIONE_SOCIALE, nel chiedere la conferma della decisione in materia di tutela risarcitoria, aveva domandato che, tenuto conto del protrarsi dell’occupazione, l’importo che le era dovuto fosse incrementato sulla base dello stesso criterio adottato dal Tribunale, poiché dalle conclusioni formulate nel giudizio di primo grado non si evinceva alcuna rinuncia della parte appellata ad esigere l’indennità di occupazione per i periodi successivi al mese di marzo 2019, quando la domanda di condanna era stata proposta; q ) che, infatti, nella comparsa di risposta del giudizio di primo grado era stato domandato il risarcimento dei danni relativi all’indebita occupazione degli immobili, a partire dalla consegna fino alla data dell’effettivo rilascio, né si poteva evi ncere dalla lettura della sentenza di primo grado la volontà del Tribunale di escludere la spettanza del diritto per il periodo successivo alla costituzione in giudizio, con la conseguenza che era consentita la proposizione in appello di domande volte a far valere i danni sofferti dopo la sentenza di primo grado, senza necessità di proporre appello incidentale, trovando gli ulteriori danni richiesti la loro fonte nella stessa causa ed avendo la stessa natura di quelli già accertati in primo grado; r ) che era inammissibile la domanda proposta per la prima volta con le note d’udienza del 1° luglio il 2021, tesa a dichiarare la nullità (integrale o parziale) della previsione delle caparre confirmatorie ovvero ad ordinarne la riduzione della misura, poiché il rilievo d’ufficio della nullità era
ammissibile esclusivamente se basato su fatti ritualmente introdotti o comunque acquisiti in causa secondo le regole disciplinanti, anche dal punto di vista temporale, il loro ingresso nel processo, non potendo fondarsi su fatti di cui il giudice poteva ipotizzare la verificazione solo in astratto e la cui introduzione presupponeva l’esercizio di un potere di allegazione ormai precluso in rito; s ) che, in specie, poggiava su allegazioni fattuali tardivamente formulate e conseguentemente indimostrate l’assunto dell’appellante secondo cui gli importi pattuiti (euro 600.000,00 su un prezzo di euro 1.096.000,00) sarebbero stati inusuali nel settore di riferimento ed esorbitanti, in quanto non avrebbero avuto alcun rapporto ragionevole con il danno che il contraente non inadempiente avrebbe potuto ricevere dalla mancata esecuzione del contratto; t ) che gli elementi di prova acquisiti, peraltro, non suffragavano l’assunto difensivo in ordine alla eccessività della somma versata a titolo di caparra, considerato che i patti prevedevano la consegna anticipata degli immobili rispetto al momento del rogito ed al saldo del prezzo, ponendo così in una posizione di forza i promissari acquirenti, e che il prezzo definitivo della vendita avrebbe dovuto essere determinato solo al momento della stipulazione del contratto traslativo, sicché, al momento della dazione delle caparre, non poteva escludersi che il prezzo da corrispondere per il saldo sarebbe stato più alto; u ) che, per gli stessi motivi, non vi erano elementi che consentissero di riqualificare, a dispetto del nomen iuris condiviso tra le parti ed al tenore delle domande proposte, la caparra come penale, non essendo sufficiente, a questo fine, la sola proporzione aritmetica tra caparra e valore delle prestazioni
oggetto del contratto, con la conseguenza che, trattandosi di caparra, essa non era riducibile ai sensi dell’art. 1384 c.c. (applicabile alla sola clausola penale).
-Avverso la sentenza d’appello hanno proposto separati ricorsi per cassazione, affidati rispettivamente a sei e a cinque motivi, COGNOME NOME e COGNOME NOME.
Ha resistito, con controricorso, l’intimata RAGIONE_SOCIALE con socio unico.
-Il Pubblico Ministero ha depositato memoria ex art. 378, primo comma, c.p.c., in cui ha rassegnato le conclusioni trascritte in epigrafe.
I ricorrenti e la controricorrente hanno depositato memorie illustrative, ai sensi dell’art. 378, secondo comma, c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Con il primo motivo entrambi i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 122/2005 e degli artt. 1418 e ss. c.c. nonché dell’art. 100 c.p.c., per avere la Corte di merito respinto la domanda di accertamento della nullità dei preliminari aventi ad oggetto il trasferimento di immobili da costruire, benché il costruttore-venditore non avesse procurato, né tantomeno consegnato, la fideiussione bancaria (ovvero rilasciata da un’impresa esercente le assicurazioni), così lasciando sprovvista di ogni conseguenza la pure acclarata violazione di legge commessa dal costruttore-venditore, in ragione dell’avvenuta consegna degli immobili con il soddisfacimento
dell’interesse fondamentale del compratore, che avrebbe costituito un limite all’esercizio dell’azione di nullità.
I ricorrenti osservano che il testo della norma non avrebbe suffragato affatto la tesi per cui l’azione di nullità, per mancata prestazione della fideiussione bancaria prescritta, avrebbe incontrato il limite della consegna dell’immobile, ma avrebbe, invece, supportato la tesi opposta della perdurante nullità del contratto, sicché sarebbe stata introdotta -senza il supporto e neanche l’appiglio di dati testuali una figura del tutto estranea al vigente sistema delle nullità contrattuali.
Per l’effetto, nel delineare una sorta di sanatoria della nullità per il conseguimento dello scopo, la sentenza impugnata si sarebbe discostata dal sistema vigente, che non avrebbe contemplato affatto una simile eventualità e nemmeno sarebbe parso orientato verso una direzione di questo genere, posto che il contratto nullo non è neanche suscettibile di convalida o di altre sanatorie.
Ad avviso dei ricorrenti, le nullità di protezione sarebbero intrinsecamente rivolte a presidio e perseguimento di interessi pubblici generali, sicché la ricostruzione operata si sarebbe posta in contrasto con la stessa rilevanza pubblicistica e generale sottesa a tali nullità.
Ne sarebbe derivato che il dato testuale, quello sistematico e quello funzionale sarebbero stati convergenti nell’indicare che il punto di riferimento proprio e diretto dell’art. 2 del d.lgs. n. 122/2005 sarebbe insito nella regolamentazione del mercato delle vendite degli immobili da costruire, con l’effetto che tale normativa avrebbe avuto un orizzonte e uno spazio operativo ben
più ampio dell’angusto microcosmo formato dal singolo, specifico rapporto, chiuso sull’effettiva esecuzione dello stesso.
In questa prospettiva, la ratio dell’imposizione della prestazione di una fideiussione bancaria sarebbe consistita nell’evitare che siano immessi nel mercato dei contratti che comunque espongano il compratore, in un modo o nell’altro, ad un rischio specifico: quello di non riuscire a recuperare gli anticipi e acconti sul prezzo, che questi abbia versato nell’attesa della costruzione e ultimazione dell’immobile.
In via riflessa, l’asse della normativa sugli immobili da costruire avrebbe dovuto essere riguardato ex ante e non già ex post , in funzione del rispetto che della prescrizione della prestazione della fideiussione bancaria debbano avere le imprese costruttrici nel proporre al mercato i contratti di vendita in pianta; e non già in funzione del numero dei casi in cui la riduzione non sarebbe servita perché, bene o male, l’immobile è stato ultimato.
Cosicché escludere la nullità di detto contratto per la sola circostanza dell’avvenuta consegna dell’immobile avrebbe costituito, nell’operatività dei fatti, un incentivo fortissimo nel senso della disapplicazione della legge, tenuto conto soprattutto del rilevante peso economico della commissione (ovvero del premio) che le banche (o le assicurazioni) pretendono dai costruttori per il rilascio della fideiussione prescritta.
1.1. -Il motivo è infondato.
Infatti, la domanda di nullità del contratto preliminare di vendita di immobili da costruire, per mancato rilascio della garanzia fideiussoria ex art. 2 del d.lgs. n. 122/2005, non può essere accolta, per violazione della clausola di buona fede
oggettiva e per carenza di interesse ad agire, allorché essa sia proposta dopo l’ultimazione dei lavori e senza che nelle more si sia manifestata l’insolvenza del promittente venditore o senza che risulti altrimenti pregiudicato l’interesse del promissario acquirente, alla cui tutela è preposta ( recte funzionalizzata) la nullità di protezione prevista dalla norma in esame (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 3817 dell’8/02/2023; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 30555 del 22/11/2019; nello stesso senso anche Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 7411 del 20/03/2024).
La particolarità di tale nullità risiede nel rilievo in forza del quale essa è regolata come nullità strutturale, in quanto implicante un vizio genetico del preliminare, sebbene abbia ad oggetto la mancata prestazione di una garanzia funzionale ad assicurare l’adempimento (e segnatamente la restituzione delle somme anticipate dal promissario acquirente al promittente alienante), ove subentri la situazione di crisi di quest’ultimo. Per l’effetto, si determina un singolare caso di interferenza tra regole di comportamento e regole di validità (c.d. nullità per inadempimento).
Ora, all’esito di una comparazione dinamica tra il mezzo accordato e lo scopo che lo stesso è diretto a perseguire, la proposizione della domanda di nullità, quando l’interesse protetto dalla norma non sia più esposto ad alcun pregiudizio, né si abbia ragione di temerne la verificazione -per essere stato, comunque, assicurato l’interesse che la condizione asimmetrica dei contraenti avrebbe potuto ledere o, addirittura, per essere stato già attuato l’interesse primario cui mirava il regolamento negoziale (c ome nel caso di specie, stante che all’ultimazione degli immobili è
conseguita la consegna anticipata in favore del promissario acquirente) -, risulta funzionale, non già ad attuare il fine di protezione perseguito dalla legge, ma il diverso scopo di sciogliere il contraente da un contratto che non reputa più conveniente o di aggirare surrettiziamente gli strumenti di reazione che l’ordinamento specificamente appronta avverso le condotte di inadempimento della controparte.
A questo fine assume una valenza dirimente, non già il momento storico in cui si realizza l’effetto traslativo, bensì il frangente temporale in cui l’opera è ultimata, posto che la normativa di settore non è indirizzata ad assicurare la solvenza del promittente alienante in termini avulsi dal contesto in cui la promessa si è perfezionata: e segnatamente dalla circostanza che il preliminare ha avuto ad oggetto un immobile da costruire e, in vista di tale oggetto, è predisposta una ‘speciale’ tutela. Proprio in ragione del fatto che la promessa riguarda un bene in corso di realizzazione, sul quale il promissario acquirente non può rivendicare l’esecuzione in forma specifica nell’ipotesi in cui, a causa della sopravvenuta crisi del promittente alienante, l’opera di costruzione si interrompa e l’impegno assunto non possa evolversi nel passaggio di proprietà, la legge prevede che debba essere concessa una polizza fideiussoria a garanzia della restituzione delle somme versate dal promissario acquirente nelle more (e non per assicurare altri possibili pregiudizi connessi alla mancata produzione dell’effetto traslativo).
Pertanto, le specifiche ragioni di protezione che giustificano la previsione normativa sono collegate al particolare stato in cui versa il promissario acquirente che, avendo anticipato delle
somme al promittente alienante per l’assunto impegno ad acquistare un immobile in costruzione, si trovi, dinanzi a una sopravvenuta situazione di crisi del costruttore, per un verso, in grave difficoltà nel far valere le azioni esecutive e concorsuali sull’immobile (aggredito dai creditori alla stregua di detto stato di crisi), la cui realizzazione si sia interrotta in ragione di tale insolvenza certificata, al fine di recuperare le somme a tale titolo anticipate, e si veda, per altro verso, compromessa, o quantomeno aggravata, la possibilità che l’effetto traslativo si perfezioni.
Di talché l’art. 2 del d.lgs. n. 122/2005, nel contemplare un’ipotesi di nullità relativa, la cui declaratoria è rimessa all’esclusiva iniziativa del promissario acquirente, ed evidentemente di protezione, è finalizzata a preservare l’interesse di quest’ultimo a recuperare, tramite apposita garanzia, le eventuali somme versate in favore del promittente venditore (in vista del pericolo di insolvenza di quest’ultimo): la consegna della polizza fideiussoria a prima richiesta è, dunque, strumentale a permettere al promissario acquirente il recupero delle somme pagate a titolo di acconto al costruttore, nelle ipotesi in cui si verifichi una situazione di crisi certificata che comprometta o aggravi il buon esito della vicenda negoziale avente ad oggetto un immobile non ultimato, obbligo il cui adempimento prescinde dal fatto che, in futuro, si verifichi o meno lo stato di crisi (purché ne ricorra il pericolo).
Più precisamente (contrariamente all’assunto dei ricorrenti) la normativa di settore protegge il promissario acquirente -in considerazione delle difficoltà che si riscontrano nel reperire
informazioni in ordine all’affidabilità della controparte, nonché ai possibili rischi e alle spese dell’affare -dall’insorgere dell’eventuale stato di crisi dell’imprenditore nei casi in cui questi, come frequentemente accade nella prassi, finanzi la costruzione dell’immobile con gli acconti anticipati dal primo. Nell’ambito di tale contrattazione, il promissario acquirente si trova a pagare una parte del corrispettivo, senza ottenere l’immediato acquisto della proprietà del bene, il quale è ancora in fase di costruzione. Così trova fondamento l’obbligo di rilasciare la garanzia fideiussoria (bancaria o assicurativa), di importo pari alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo che il costruttore ha riscosso e, secondo le modalità e i termini stabiliti nel contratto, che deve ancora riscuotere dal promissario acquirente. Si ha conferma, pertanto, che lo scopo di tale garanzia è quello di consentire al promissario acquirente di recuperare quanto versato e i relativi interessi, in caso di crisi della controparte, senza dover attendere la conclusione dei procedimenti esecutivi e fallimentari.
La soluzione legislativa a favore della nullità è dunque orientata dall’esigenza di predisporre una forma ‘forte’ di controllo sulla regolarità dell’operazione nel suo complesso, in chiave di funzionalizzazione dell’esercizio dell’atto di autonomia alla tutela di specifici interessi (considerati ‘deboli’ sul piano negoziale e suscettibili di protezione attraverso meccanismi in qualche misura correttivi dello squilibrio di potere contrattuale).
Tuttavia, lo strumento ‘protettivo’ accordato si confronta con istituti giuridici tradizionali, ispirati al principio, in gran parte superato, della perfetta eguaglianza dei contraenti.
Ora, allorché la garanzia sia concessa, la sopravvenienza dello stato di crisi del costruttore prima dell’ultimazione dell’opera consente al promissario acquirente di avvalersi del diritto potestativo di recesso dal preliminare ove sia trascritto pignoramento sul cespite, escutendo la fideiussione, e di sciogliersi dal preliminare ove sia aperta la procedura concorsuale, anche in questa evenienza escutendo la fideiussione, sempreché il competente organo della procedura concorsuale non abbia comunicato la volontà di subentrare nel contratto preliminare.
Ne consegue che tale necessità viene meno nel momento in cui la costruzione è ultimata, poiché lo stato di insolvenza del promittente venditore, che sopravvenga a tale ultimazione, consente comunque al promissario acquirente di poter perfezionare l’acquisto, in ragione della previa trascrizione del preliminare (fatta salva la facoltà di scioglimento del curatore ai sensi dell’art. 72 legge fall., vigente ratione temporis , sempre che non si tratti di immobile destinato ad uso abitativo del promissario acquirente, scioglimento che diventa automatico allorché l’escussione della garanzia fideiussoria sia comunicata al curatore prima che questi abbia optato per l’esecuzione ovvero per lo scioglimento, ai sensi dell’art. 72 -bis legge fall., vigente ratione temporis ; l’attuale disciplina segue, per ciò che qui interessa, principi sostanzialmente analoghi, fatto salvo il più ampio ventaglio di ipotesi che preclude all’organo della procedura di sciogliersi dal preliminare, ai sensi degli artt. 173 e 174 cod. crisi d’impresa).
Se, viceversa, si aderisse all’impostazione dei ricorrenti, a mente della quale l’utilità della concessione della garanzia
fideiussoria sopravvivrebbe alla conclusione dei lavori, sino a quando l’effetto traslativo non si sia prodotto, non solo sarebbe mutato lo scopo perseguito dalla norma, ma, in aggiunta, la previsione sarebbe estensibile, per identità di ratio , ad ogni promessa di vendita di immobili, quand’anche essa abbia avuto ad oggetto, sin dall’origine, beni già realizzati. Per contro, altri sono gli strumenti assicurativi che l’ordinamento appresta per garantire il trasferimento di proprietà di immobili preesistenti, a cui le parti si siano previamente obbligate.
Ebbene, quando il cespite originariamente da costruire, oggetto del preliminare di vendita, sia stato nelle more ultimato, il promissario acquirente si viene a trovare in una situazione del tutto assimilabile, sebbene ex post , a quella del promissario acquirente che abbia stipulato, sin dall’inizio ( ex ante ), una promessa di vendita di un immobile già realizzato. Sicché questi corre gli analoghi rischi che affronta quest’ultimo, nel caso di sopravvenuto stato di crisi del promittente alienante sino al momento della stipulazione del definitivo.
Pertanto, sia stata o meno rilasciata la fideiussione in un momento successivo alla conclusione del contratto, affinché non sia integrato un contegno lesivo della buona fede (o ‘abusivo’, secondo il precedente prima richiamato) del diritto riconosciuto dalla previsione normativa è indispensabile verificare se l’immobile oggetto del preliminare sia stato ultimato, perché, laddove ciò fosse, verrebbero meno le ragioni di ‘speciale’ tutela in favore del soggetto debole, che non è più in pericolo ( recte che non corre più il pericolo che la norma ha inteso scongiurare).
Su questa stessa linea si collocano gli ulteriori pronunciamenti di questa Corte sull’argomento.
Ed invero, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che il rilascio della garanzia fideiussoria di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 122/2005 in data successiva alla stipula di un contratto preliminare di compravendita, avente ad oggetto un immobile in corso di costruzione, non esclude l’operatività della nullità per mancanza della garanzia accessoria prescritta ex lege , qualora nelle more -ossia prima dell’ultimazione si sia manifestata l’insolvenza del promittente venditore ovvero risulti altrimenti pregiudicato l’interesse del promissario acquirente, sicché in tali ipotesi la proposizione della domanda di nullità del contratto per violazione del citato art. 2 non costituisce abuso del diritto (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 19510 del 18/09/2020).
Nel dettaglio, nella fattispecie esaminata dall’arresto innanzi evocato, il promittente alienante aveva rilasciato, dopo la stipulazione del preliminare e prima dell’ultimazione dell’opera, una fideiussione per un importo inferiore alle somme anticipate dal promissario acquirente, sicché la dichiarazione di nullità richiesta prima del completamento dell’opera è stata confermata.
Sempre nello stesso senso altra pronuncia di questa Corte ha evidenziato che, una volta scartata la possibilità di configurare una sanatoria del contratto nullo a seguito del mero fatto successivo del completamento dell’immobile da parte del promittente venditore, occorre verificare se, effettivamente, per effetto del completamento dei lavori relativi all’immobile promesso in vendita, sussiste o meno un interesse ancora meritevole di protezione in capo al promissario acquirente, che lo legittimi a
richiedere l’accertamento della nullità del contratto preliminare. Sicché, almeno quando il promittente alienante abbia subito la trascrizione di un pignoramento immobiliare, risultante al momento in cui i lavori sono terminati, deve essere riconosciuto al promissario acquirente l’interesse alla declaratoria di nullità del contratto preliminare di vendita stipulato con il costruttore (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21966 del 12/07/2022).
Per l’effetto, laddove la nullità di protezione sia fatta valere dopo l’ultimazione dei lavori, senza alcun collegamento con una condizione di insolvenza del promittente alienante (la quale non sia stata integrata sino a tale momento), non sussistono più le ragioni che hanno giustificato la previsione.
All’esito dell’ excursus tracciato, si rileva allora che, trovandosi ristretta -per come concepita -la nullità di protezione regolata dalla norma indicata in una doppia prospettiva, ad un tempo statica (dell’atto) e dinamica (del rapporto), la sua integrazione è condizionata al perdurare del pregiudizio, fino al momento in cui la domanda sia formulata.
Sicché essa risente del contesto storico-fattuale (eventualmente mutato rispetto a quello esistente all’atto della stipula) relativo al tempo in cui la domanda è spiegata.
La nullità di protezione, ove sia teleologicamente funzionale ad assicurare un determinato adempimento, costituisce, dunque, un rimedio che evolve in chiave sincronica.
Le stesse Sezioni unite, del resto, hanno avuto modo di affermare che, ove venga istituita dal legislatore una nullità relativa, come tale intesa a proteggere in via diretta ed immediata non un interesse generale, ma anzitutto l’interesse particolare,
l’interprete deve essere attento a circoscrivere l’ambito della tutela privilegiata nei limiti in cui viene davvero coinvolto l’interesse protetto dalla nullità, determinandosi altrimenti conseguenze distorte o anche opportunistiche (Cass. Sez. U, Sentenza n. 898 del 16/01/2018).
D’altronde, le concrete modalità di esercizio della nullità di protezione devono mirare allo scopo per il quale la protezione è prevista, pena un esercizio dell’azione contrario al canone della buona fede oggettiva (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20106 del 18/09/2009; Sez. U, Sentenza n. 23726 del 15/11/2007).
In conseguenza, nella fattispecie, si rinviene un esercizio contrario a buona fede dell’azione di nullità, rispetto al tempo in cui essa è stata proposta. E tanto perché, nei termini anzidetti, l’inevitabile commistione tra vizio genetico, da una parte, e tempo dell’esercizio dell’azione, dall’altra, risente della costruzione della nullità quale fattispecie di nullità per inadempimento.
2. -Con il secondo motivo (subordinato al mancato accoglimento del primo) entrambi i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1455 e 1385 c.c. nonché degli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 122/2005 e l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte territoriale reputato che fosse stato integrato un inadempimento grave e imputabile, poiché il promissario acquirente, obbligato alla stipulazione dei contratti definitivi, si sarebbe sottratto, in modo pretestuoso, all’adempimento della principale obbligazione a suo carico, consistente appunto nel prestare consenso alla stipulazione di tutti i contratti definitivi,
intervenendo nel rogito, unicamente per una ragione, rappresentata dalla richiesta di consegna della fideiussione.
I ricorrenti obiettano che, nella fattispecie, il giudice non avrebbe potuto isolare singole condotte di una delle parti per stabilire se costituissero motivo di inadempienza, a prescindere da ogni altra ragione di doglianza dei contraenti, ma avrebbe dovuto, invece, considerare tutti i comportamenti delle parti attraverso un’indagine globale e unitaria dell’intero loro agire, poiché l’unitarietà del rapporto obbligatorio cui ineriscono tutte le prestazioni inadempiute non avrebbe tollerato una valutazione frammentaria e settoriale della condotta dei singoli, richiedendo un apprezzamento complessivo del loro operato.
Sennonché, secondo i ricorrenti, la partecipazione al rogito non avrebbe potuto certamente essere considerata un obbligo di prestazione, poiché non rientrante nell’ambito del sinallagma, espresso dallo scambio di cui alla compravendita, potendosi addirittura dubitare, nella prospettiva del promissario compratore, che si tratti di un vero e proprio obbligo e non piuttosto di un onere, posto che, in principio, il rogito definitivo avviene per l’interesse del promissario acquirente a divenire, anche formalmente, proprietario del bene.
Alla stregua di tali premesse sistematiche, la valutazione della ‘non scarsa importanza’ dell’inadempimento avrebbe dovuto tenere conto di tutte le circostanze presenti sul piano della fattispecie concreta e, in particolare, del fatto che la consegna degli immobili era, nei fatti, avvenuta con un forte ritardo -di quasi due anni -rispetto all’impegno assunto dal costruttore -venditore.
E ciò tenuto conto, altresì, della particolare natura della compravendita riguardante beni ancora da costruire, a fronte della quale i promissari acquirenti avevano adempiuto ai propri doveri mentre il promittente venditore-costruttore non aveva rilasciato la fideiussione.
2.1. -Il motivo è infondato.
Infatti, la sentenza impugnata ha precisato che l’unica ragione per la quale il NOME, ottenuto il godimento degli immobili nella primavera del 2013 -data entro la quale anche il prezzo pattuito avrebbe dovuto essere interamente versato -, aveva rifiutato ripetutamente il proprio consenso alla stipulazione di tutti i contratti definitivi, era consistita nel fatto che non avesse avuto seguito la sua richiesta di consegna della fideiussione.
In virtù di tanto, la pronuncia ha reputato, in sintonia con le argomentazioni espresse dal Tribunale, che vi fosse un inadempimento grave e imputabile, poiché il promissario acquirente, obbligato alla stipulazione dei contratti definitivi, si era sottratto, in modo pretestuoso, all’adempimento delle principali obbligazioni a suo carico, in relazione a tutte le unità immobiliari promesse in vendita.
Ciò alla stregua di una valutazione comparativa, sia in chiave oggettiva sia in chiave subiettiva, del contegno assunto nella fattispecie dalle parti, ai fini dell’integrazione dell’inadempimento di ‘non scarsa importanza’ ex art. 1455 c.c., tale da alterare l’equilibrio negoziale, stante che a fronte dell’ultimazione degli immobili e della loro conseguente consegna il 17 aprile 2013 (consegna accettata senza riserve dal promissario acquirente) -nessun impedimento si frapponeva, se
non la condotta ostativa assunta unilateralmente e ingiustificatamente dal COGNOME, alla conclusione dei contratti definitivi e al pagamento del congruo, residuo corrispettivo dovuto (su un importo complessivo versato a titolo di caparre e acconti di euro 840.000,00, restava da corrispondere il residuo di euro 256.000,00, rispetto al prezzo complessivo convenuto per l’alienazione di tutti i cespiti di euro 1.096.000,00: euro 523.000,00 + euro 573.000,00), nonostante i solleciti e le diffide inviate (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 7187 del 4/03/2022; Sez. 6-3, Ordinanza n. 8220 del 24/03/2021; Sez. 2, Sentenza n. 10995 del 27/05/2015; Sez. 3, Sentenza n. 22346 del 22/10/2014; Sez. 3, Sentenza n. 21237 del 29/11/2012; Sez. 3, Sentenza n. 7083 del 28/03/2006).
2.2. -Né può aderirsi al rilievo dei ricorrenti, secondo cui il rifiuto opposto dal promissario compratore alla stipulazione dei contratti definitivi, senza una valida ragione giustificativa, non avrebbe potuto essere ponderato come inadempimento grave ed imputabile ad un obbligo gravante su tale parte, in difetto di alcun nesso sinallagmatico con le controprestazioni cui era tenuto il promittente venditore (essendo, piuttosto, tale incombenza assimilabile ad un onere per il promissario).
Per converso, l’inosservanza dell’impegno bilaterale assunto dalle parti del contratto preliminare alla stipulazione del definitivo, anche in difetto di un termine essenziale e di una diffida (diffida che, peraltro, nella fattispecie era stata notificata per ben due volte, senza esito, con la precisa indicazione del luogo, del giorno e dell’ora della stipulazione dell’atto notarile di trasferimento: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8910 del 9/09/1998; Sez. 2, Sentenza
n. 466 del 13/02/1976, sebbene sarà affrontato in seguito il tema della relativa efficacia di detta diffida), può costituire inadempimento di non scarsa importanza, e quindi causa di risoluzione del contratto, quando il ritardo ecceda ogni limite di tollerabilità, non potendo il tempo dell’adempimento essere rimesso all’arbitrio del soggetto obbligato.
Pertanto, non è censurabile la sentenza di merito che abbia risolto un contratto preliminare di vendita per essersi il promissario compratore rifiutato di stipulare il contratto definitivo, dopo la consegna degli immobili e dopo l’invio di solleciti e/o ‘diffide’, senza che vi fosse alcun intralcio alla produzione dell’effetto traslativo (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3010 del 3/08/1976).
3. -Con il terzo motivo entrambi i ricorrenti prospettano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1454, 1385 e 1453 c.c. (con richiesta di rimessione alle Sezioni unite, ai sensi dell’art. 374, terzo comma, c.p.c.), per avere la Corte distrettuale confermato la pronuncia di scioglimento dai contratti preliminari, in ragione dell’esercizio del diritto potestativo di recesso, con l’accertamento del diritto a trattenere le caparre confirmatorie ricevute, avendo aderito all’orientamento reputato maggiormente persuasivo -, secondo il quale, anche una volta scelta in via stragiudiziale la strada della risoluzione mediante diffida ad adempiere, sarebbero rimaste aperte al contraente in bonis , nella successiva sede giudiziale, tutte le opzioni risolutive, ivi compreso il recesso con richiesta di trattenimento della caparra.
I ricorrenti sostengono che erroneamente sarebbe stato disatteso il principio a mente del quale non avrebbe potuto recedere dal contratto la parte che avesse già determinato la risoluzione di diritto per effetto dell’invio della diffida ad adempiere, così ponendosi la pronuncia impugnata in contrasto con l’arresto delle Sezioni unite (Cass. Sez. U, Sentenza n. 553 del 14/01/2009) che aveva sancito che, per effetto dell’inutile scadenza del termine contenuto nella diffida, si determina un effetto automatico -ossia la risoluzione al momento stesso dello spirare del dies ad quem indicato dal diffidante -, senza che sia ammessa la rinuncia all’effetto risolutorio da parte del contraente non inadempiente, trattandosi di effetto sottratto, per evidente voluntas legis , alla libera disponibilità delle parti, con la conseguenza che l’avvenuta risoluzione di diritto ex art. 1454 c.c. (cui sarebbe stata strutturalmente connessa la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni derivanti dall’inadempimento colpevole) avrebbe precluso la possibilità di recesso ex art. 1385, secondo comma, c.c. (cui sarebbe stato strutturalmente connesso il potere di chiedere l’incameramento della caparra o il versamento del suo doppio).
Né, ad avviso dei ricorrenti, avrebbe potuto accogliersi il diverso orientamento nomofilattico in forza del quale il verificarsi di un’ipotesi di risoluzione del contratto di diritto (per una delle cause previste dagli artt. 1454, 1455 e 1457 c.c.) non avrebbe impedito alla parte adempiente l’esercizio della facoltà di recesso ai sensi dell’art. 1385 c.c., ai fini di ottenere l’accertamento del diritto alla ritenzione della caparra o la condanna alla restituzione del suo doppio; così come si sarebbe posta in contrasto con
l’arresto innanzi citato delle Sezioni unite la pronuncia di Cass. n. 18392/2022, in ragione della quale avrebbe potuto chiedersi l’accertamento dell’avvenuta risoluzione di diritto per effetto dell’inviata diffida ad adempiere senza esito, con la connessa richiesta di ritenzione della caparra o della corresponsione del suo doppio, senza che, peraltro, tale eventualità fosse attinente al caso concreto, avendo la promittente alienante chiesto l’accertamento dello scioglimento del contratto alla stregua dell’esercizio del diritto potestativo di recesso, e non già in ragione della risoluzione automatica conseguente all’invio, senza esito, della diffida ad adempiere.
D’altronde, proseguono i ricorrenti, non poteva condividersi l’argomento della sentenza gravata, secondo cui RAGIONE_SOCIALE avrebbe inteso avvalersi, fin dalla diffida, del rimedio del recesso e della caparra confirmatoria, considerato che, nella diffida ad adempiere (il cui testo è stato riportato nel corpo del ricorso alle pagg. 19-20), RAGIONE_SOCIALE avvertiva che, decorso il termine indicato, il contatto si sarebbe risolto e la stessa avrebbe incamerato la caparra, chiedendo il risarcimento dei danni, con l’inammissibile cumulo dei vantaggi delle due iniziative; con la correlata violazione del criterio di interpretazione letterale ex art. 1362 c.c.
Al contempo, non avrebbe assunto alcun significato l’affermazione della Corte di merito, compiuta sulla scorta di un rilievo d’ufficio, secondo cui l’effetto risolutorio non si sarebbe comunque verificato, in quanto tra la data di notificazione all’intimato delle diffide (26 novembre 2018) e la data indicata per il rogito (5 dicembre 2018) non intercorreva l’intervallo di 15 giorni, in base a quanto previsto dalle stesse diffide, posto che il
termine di 15 giorni sarebbe fissato per l’esclusiva tutela della parte intimata, sicché il mancato rispetto di tale termine non avrebbe potuto essere utilizzato dall’intimante per sostenere, a suo vantaggio, che l’effetto risolutorio non si fosse mai verificato; ciò considerato altresì che il termine di 15 giorni sarebbe comunque ampiamente decorso, senza che l’intimato avesse adempiuto.
3.1. -Il motivo è infondato.
La Corte d’appello ha osservato che, a fronte dell’orientamento secondo cui non sarebbe stata ammissibile la rinuncia all’effetto risolutorio già verificatosi, attraverso la richiesta di accertamento della legittimità del recesso dai contratti preliminari, al fine di incamerare la caparra, appariva maggiormente persuasivo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale, anche una volta scelta, in via stragiudiziale, la strada della risoluzione mediante diffida ad adempiere, restavano aperte al contraente in bonis , nella successiva sede giudiziale, tutte le opzioni risolutive, ossia specialmente anche il recesso ex art. 1385 c.c., con richiesta di trattenimento della caparra confirmatoria, come nella specie.
Alla stregua di detto orientamento, la risoluzione ( recte la domanda di risoluzione) di diritto del contratto per una delle cause previste dagli artt. 1454, 1456 e 1457 c.c. -e, nella specie, per decorso del termine stabilito nella diffida ad adempiere senza l’adempimento ex art. 1454 c.c. -non preclude alla parte adempiente, nel caso in cui sia stata contrattualmente prevista una caparra confirmatoria, l’esercizio della facoltà di recesso ai sensi dell’art. 1385 c.c. per ottenere, invece del risarcimento del
danno, la ritenzione della caparra o la restituzione del suo doppio, poiché dette domande hanno una minore ampiezza rispetto a quella di risoluzione e possono perciò essere proposte anche nel caso in cui si sia verificata di diritto la risoluzione stessa (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 19897 del 18/07/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 13640 del 16/05/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 26856 del 13/09/2022; Sez. 2, Sentenza n. 26206 del 3/11/2017; Sez. 2, Ordinanza n. 14014 del 6/06/2017; Sez. 2, Sentenza n. 21838 del 25/10/2010).
E ciò a fronte dell’orientamento di segno contrario, il quale -prendendo le mosse dall’arresto di Cass. Sez. U, Sentenza n. 553 del 14/01/2009, in ordine all’irrinunciabilità degli effetti risolutori della diffida ad adempiere -ha ritenuto che, in tema di inadempimento contrattuale, una volta conseguita, attraverso la diffida ad adempiere, la risoluzione del contratto, al quale accede la prestazione di una caparra confirmatoria, l’esercizio del diritto di recesso è definitivamente precluso, cosicché la parte non inadempiente che limiti, fin dall’inizio, la propria pretesa risarcitoria alla ritenzione della caparra ad essa versata o alla corresponsione del doppio della caparra da essa prestata, in caso di controversia, è tenuta ad abbinare tale pretesa ad una domanda di mero accertamento dell’effetto risolutorio (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 18392 dell’8/06/2022).
In siffatta prospettiva, attesa la natura di gerundio coordinato ( post hoc ) della locuzione ‘ritenendo la caparra’, e non subordinato ( propter hoc ), alla pretesa di accertamento della risoluzione di diritto ben può coniugarsi la domanda di ritenzione della caparra confirmatoria convenuta o di corresponsione del suo
doppio, ma non può -per contro -più essere esercitato il diritto di recesso all’esito dell’intervenuta risoluzione ope legis o automatica del contratto.
In ragione di questa impostazione, per un verso, è ripreso il principio di irrefutabilità della risoluzione di diritto, come sancito da Cass. Sez. U, Sentenza n. 553 del 14/01/2009, mentre, per altro verso, è superato il binomio, sempre sostenuto dalla predetta pronuncia, tra risoluzione, giudiziale o di diritto, e risarcimento dei danni, da un lato, ed esercizio del recesso e trattenimento o corresponsione del doppio della caparra confirmatoria, dall’altro.
Detto binomio aveva indotto le Sezioni unite a sostenere che la domanda di ritenzione della caparra fosse legittimamente proponibile, nell’ incipit del processo, a prescindere dal nomen iuris utilizzato dalla parte nell’introdurre l’azione «caducatoria» degli effetti del contratto: se quest’azione dovesse essere definita «di risoluzione contrattuale» in sede di domanda introduttiva, sarà compito del giudice, nell’esercizio dei suoi poteri officiosi di interpretazione e qualificazione in iure della domanda stessa, convertirla formalmente in azione di recesso.
A questa conclusione si richiama l’ulteriore orientamento della giurisprudenza di questa Corte, a mente del quale la domanda di risoluzione del contratto non costituisce domanda nuova rispetto a quella con cui il contraente non inadempiente abbia originariamente chiesto la declaratoria della legittimità del proprio recesso ex art. 1385, secondo comma, c.c., con contestuale incameramento della caparra confirmatoria, essendo l’azione di recesso un’ipotesi di risoluzione ex lege (Cass. Sez. 2,
Ordinanza n. 21317 del 30/07/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 8773 del 3/04/2024; Sez. 2, Sentenza n. 2969 del 31/01/2019).
Non vale, dunque, l’asserto contrario: ossia la domanda di scioglimento dal contratto, in conseguenza dell’esercizio del diritto potestativo di recesso ( species ), non può essere letta come domanda di risoluzione ( genus ).
3.2. -Nondimeno, nel caso di specie, il contrasto prefigurato anche dalla Procura generale, quanto alla rinunciabilità dell’intervenuta risoluzione di diritto, non assume rilevanza ai fini della decisione.
E tanto perché la sentenza impugnata ha altresì evidenziato: A) che le due diffide ad adempiere erano state notificate il 26 novembre 2018, mentre i promissari acquirenti erano stati convocati dinanzi al AVV_NOTAIO per il 5 dicembre successivo, con la conseguenza che si trattava di atti inidonei a determinare la risoluzione di diritto dei contratti preliminari, ai sensi dell’art. 1454, secondo comma, c.c., in nessun caso ostativi al successivo recesso; B) che, inoltre, la clausola n. 7 dei contratti preliminari prevedeva che, in caso di mancato pagamento delle somme dovute da parte del promissario acquirente, la promittente venditrice avrebbe potuto domandare la risoluzione del contratto e il risarcimento dei danni o, in via alternativa, recedere e ritenere le somme versate a titolo di caparra confirmatoria, clausola espressamente riprodotta nelle c.d. ‘diffide ad adempiere’ notificate, nelle quali l’appellata, pur dichiarando di volersi avvalere del meccanismo risolutorio disciplinato dall’art. 1454 c.c., aveva precisato che, ove le controparti non fossero comparse dinanzi al AVV_NOTAIO il 5 dicembre 2018 e non avessero versato il
saldo del prezzo ai sensi dell’art. 7, non solo il contratto avrebbe dovuto ritenersi risolto, ma essa avrebbe anche incamerato la caparra, questo a testimonianza, oltre che di un’innegabile confusione concettuale tra istituti giuridici, della volontà di RAGIONE_SOCIALE, fin da allora, di avvalersi del rimedio previsto dall’art. 1385, secondo comma, c.c., al fine di trattenere la caparra confirmatoria.
Ebbene, mentre la seconda affermazione non può trovare seguito, posto che, a fronte della volontà espressa di intendere risolto il contratto qualora l’intimato non avesse adempiuto alla prestazione indicata nel termine concesso -ancorché con la precisazione che, in tal caso, sarebbe stata trattenuta la caparra confirmatoria ricevuta, ‘oltre a far valere l’ulteriore risarcimento dei danni maturato’ , è ontologicamente incompatibile con il tenore dell’intimazione inviata la qualificazione in termini di esercizio del diritto potestativo di recesso, anziché quale diffida ad adempiere, per converso, il primo rilievo è dirimente allo scopo di ritenere che la diffida non abbia prodotto effetti.
E tanto contrariamente ai rilievi critici dei ricorrenti.
Ed invero, in tema di diffida ad adempiere, la fissazione al debitore di un termine per l’adempimento inferiore ai 15 giorni trova fondamento solo in presenza delle condizioni di cui all’art. 1454, secondo comma, c.c., ovvero allorché ricorra una specifica previsione derogatoria o quando il termine abbreviato sia congruo rispetto alla natura del contratto o agli usi (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 20614 del 22/07/2025; Sez. 1, Sentenza n. 8943 del 14/05/2020; Sez. 2, Sentenza n. 19105 del 6/11/2012; Sez. 2, Sentenza n. 5979 del 22/06/1994; Sez. 2, Sentenza n. 9085
dell’1/09/1990; Sez. 2, Sentenza n. 542 del 30/01/1985; Sez. 2, Sentenza n. 2089 del 5/04/1982), condizioni escluse nella fattispecie in base ad un giudizio di fatto di competenza del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se esente da errori logici e giuridici.
Il che rendeva impossibile utilizzare la diffida ai fini della risoluzione di diritto del contratto.
I ricorrenti contrappongono l’argomento che il giudice di merito non avrebbe potuto rilevare d’ufficio l’inefficacia della diffida per la concessione di un termine inferiore a 15 giorni, in mancanza di alcuna eccezione a cura della parte intimata, quale unica legittimata a far valere siffatta lesione.
Senonché la prova della congruità del termine inferiore a 15 giorni costituisce un onere che ricade sul creditore, in mancanza del quale la diffida deve ritenersi inefficace. Spetta, invece, al debitore la dimostrazione dell’incongruità del termine di diffida eguale o superiore a 15 giorni, prova che dovrà basarsi sui tempi normalmente necessari in relazione alla natura della prestazione e non potrà, invece, tener conto delle difficoltà personali del debitore, dimostrazione in mancanza della quale la diffida dovrà ritenersi efficace.
Infatti, l’art. 1454 c.c., nel richiedere l’assegnazione al diffidato di un congruo termine per l’adempimento, pone il requisito della congruità del termine come principio generale, sicché, quando dispone, nel secondo comma, che il termine non può essere inferiore a 15 giorni (salva la sufficienza di un termine minore, per alcune ipotesi previste), non implica l’assoluta congruità di tale termine e l’impossibilita di dimostrare la
congruità di un termine maggiore di 15 giorni, bensì comporta soltanto che tale dimostrazione spetta al diffidato, a cui favore è posto il termine (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5842 del 30/10/1980).
A contrario , ove il termine sia inferiore a 15 giorni, si presume l’incongruità, salva la facoltà dell’intimante di dimostrare l’integrazione delle condizioni derogatorie (diversa pattuizione delle parti o congruità del termine minore per la natura del contratto o secondo gli usi).
Orbene, la concessione di un termine non inferiore a 15 giorni rappresenta un fatto costitutivo della pretesa di ottenere la declaratoria (dichiarativa) dell’effetto risolutorio automatico per effetto dell’inutile decorso del termine congruo indicato nell’inviata diffida ad adempiere.
Pertanto, sarebbe stato onere dell’intimante ( recte del promittente alienante) dimostrare la congruità del termine assegnato, benché inferiore a 15 giorni, affinché la diffida potesse produrre effetti nel mondo giuridico, appunto in ragione dell’assegnazione di un termine ‘derogatorio’ rispetto al minimo di legge ex art. 1454, secondo comma, c.c.
In difetto di tale prova, l’inefficacia della diffida invocata poteva essere rilevata d’ufficio.
Dunque, in distonia rispetto alla tesi dei ricorrenti, il giudice di merito ben poteva rilevare l’inefficacia della diffida ad adempiere in un termine inferiore a 15 giorni, in mancanza della prova offerta dall’intimante della congruità di un termine inferiore.
Ne discende che, a fronte della ritenuta inefficacia della diffida ad adempiere, l’esercizio in via giudiziale del diritto di recesso -con la correlata richiesta di accertamento del legittimo
esercizio di detto diritto potestativo -, in forza degli stessi inadempimenti dedotti nella diffida (rifiuto di stipulazione dei definitivi e mancato pagamento del saldo), non pone, in concreto, una questione di irrinunciabilità degli effetti dell’intervenuta risoluzione di diritto.
4. -Con il quarto motivo entrambi i ricorrenti si dolgono, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., della violazione e falsa applicazione degli artt. 1453, 1385 e 1223 c.c., per avere la Corte del gravame affermato il diritto della promittente alienante ad incamerare la complessiva caparra confirmatoria ricevuta per l’importo di euro 600.000,00 di cui euro 360.000,00 per il contratto del 18 dicembre 2008 ed euro 240.000,00 per il contratto del 4 maggio 2009 -e di ottenere, in aggiunta, il diritto al risarcimento dei danni conseguenti al fatto che il promissario acquirente avesse utilizzato gli immobili sin dalla consegna degli stessi, in ragione dell’efficacia retroattiva del recesso esercitato, nocumenti quantificati, sulla scorta del presunto canone locativo, nella misura di euro 244.327,25 per l’utilizzo degli immobili di cui al contratto del 18 dicembre 2008 e di euro 270.194,26 per l’utilizzo degli immobili di cui al contratto del 4 maggio 2009, per un totale di euro 514.521,51, oltre interessi.
Senonché, secondo i ricorrenti, il recesso, con il conseguente trattenimento della caparra, avrebbe escluso l’ammissibilità di pretese ulteriori aventi ad oggetto l’inadempimento e la caducazione del rapporto contrattuale, tra cui sarebbero rientrate anche le richieste risarcitorie sottese all’ingiustificato godimento conseguito al venir meno del rapporto contrattuale.
Si sarebbe trattato, dunque, di una ulteriore voce di danno e non di un distinto fatto illecito.
I ricorrenti espongono, ancora, che, mediante il risarcimento dell’aggiuntivo, asserito danno da occupazione illegittima, la parte non inadempiente avrebbe ottenuto il risultato di essere posta nella situazione in cui si sarebbe trovata qualora il contratto non fosse stato concluso, cosicché il costruttorevenditore avrebbe conseguito il pieno risarcimento del c.d. interesse negativo, che consiste appunto nell’interesse della parte ad essere posta nella stessa condizione in cui si sarebbe trovata se il contratto non fosse venuto in essere.
Per contro, l’incameramento della caparra confirmatoria avrebbe rappresentato la forfettizzazione del danno da risoluzione commisurata all’interesse positivo, cioè al vantaggio che il contraente non inadempiente avrebbe ricavato dall’operazione economica se fosse andata a buon fine, considerato che, a seguito dello scioglimento dal contratto, detto contraente sarebbe ritornato nella disponibilità degli immobili.
In conseguenza, l’incameramento della caparra sarebbe stato incompatibile con il riconoscimento del risarcimento dei danni per occupazione illegittima, pena un indebito arricchimento a vantaggio del danneggiato.
4.1. -Il motivo è infondato.
Sul punto la pronuncia d’appello ha, nell’ordine, puntualizzato: -che il danno da illegittima occupazione dell’immobile, frattanto consegnato al promissario, discendendo da un distinto fatto illecito, legittimava il promittente a richiedere un autonomo risarcimento, sicché non sussisteva alcun cumulo
indebito, posto che la dazione della caparra assolveva alla specifica funzione di liquidazione preventiva del danno derivante dal mancato conseguimento del prezzo; – che RAGIONE_SOCIALE era un’impresa commerciale ed aveva edificato il complesso residenziale nel quale erano ubicati gli immobili oggetto dei contratti preliminari allo scopo di venderli o locarli, sicché nessun dubbio sussisteva sul danno che la stessa aveva subito per effetto della protratta occupazione da parte del NOME, cessata solo il 14 giugno 2022 per le unità immobiliari G6 ed F9, il 4 agosto 2022 per l’unità immobiliare G5 ed ancora in corso per l’unità immobiliare G4; – che gli immobili oggetto dei preliminari erano stati edificati in regime di edilizia convenzionata e, per l’effetto, si era proceduto ad una liquidazione equitativa del danno, quantificando il valore locativo degli immobili sulla base della clausola n. 11, che prevedeva che il canone non potesse superare il valore pari al 5% del costo totale dell’immobile.
4.2. -Orbene, la caparra confirmatoria ex art. 1385 c.c. ha, invero, la funzione di liquidare convenzionalmente il danno da inadempimento in favore della parte non inadempiente che intenda esercitare il potere di recesso conferitole ex lege , sicché, ove ciò avvenga, essa è legittimata a ritenere la (sola) caparra ricevuta ovvero ad esigere il doppio di quella versata, non potendo pretendere l’ulteriore ristoro dei danni (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 5854 del 5/03/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 32727 del 24/11/2023; Sez. 2, Ordinanza n. 21504 del 7/07/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 20532 del 29/09/2020; Sez. 2, Sentenza n. 8417 del 27/04/2016; Sez. 2, Sentenza n. 17923 del 23/08/2007).
Ne discende che, una volta riconosciuto il diritto del promittente venditore a ritenere la caparra confirmatoria ricevuta, in relazione all’esercizio del diritto potestativo di recesso, non può essere ammessa, in linea di principio, la concorrente tutela risarcitoria.
Solo allorché, ai sensi dell’art. 1385, terzo comma, c.c., la parte avesse agito per ottenere la risoluzione giudiziale del preliminare, senza invocare il diritto a trattenere la caparra, il risarcimento dei danni sarebbe stato regolato dalle norme generali, ossia rimesso alla verifica dell’ an e del quantum debeatur .
4.2.1. -Nondimeno, il danno da illegittima occupazione dell’immobile, frattanto consegnato al promissario, discendendo da un distinto fatto illecito, costituito dal godimento del bene nonostante il suo inadempimento, tale da legittimare il recesso dal contratto del promittente, legittima quest’ultimo a richiedere un autonomo ‘risarcimento’. Ne consegue che il promittente venditore ha diritto non solo a recedere dal contratto e ad incamerare la caparra, ma anche ad ottenere dal promissario acquirente inademp iente il pagamento dell’indennità di occupazione dalla data di immissione dello stesso nella detenzione del bene sino al momento della restituzione, attesa l’efficacia retroattiva del recesso tra le parti (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 5201 del 27/02/2025; Sez. 3, Sentenza n. 19403 del 30/09/2016; Sez. 2, Sentenza n. 9367 dell’8/06/2012; Sez. 2, Sentenza n. 3704 del 31/05/1988; nello stesso senso Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 5891 del 5/03/2024; Sez. 2, Sentenza n. 31685 del 4/12/2019; Sez. 2, Sentenza n. 21659 del 23/08/2019; Sez. 2,
Ordinanza n. 14086 del 23/05/2019; Sez. 2, Sentenza n. 32139 del 12/12/2018).
Si tratta, comunque, di danno patrimoniale da inadempimento della parte, con la conseguenza che esso non soggiace alle regole di allegazione e probatorie fissate per l’occupazione sine titulo derivante da illecito aquiliano commesso da un terzo, in cui il danno-evento è connaturato all’inadempimento accertato e il danno -conseguenza è connesso alla violazione in sé del diritto di godere, purché l’eventuale liquidazione equitativa sia parametrata sul canone locativo di mercato, a prescindere che si denunci il mancato esercizio della facoltà di godere in modo diretto o in modo indiretto (con riferimento agli oneri di allegazione e di prova per il reclamato danno da occupazione ‘abusiva’ di un bene immobile da parte di un ‘terzo’, all’esito di illecito ex art. 2043 c.c., cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 33645 del 15/11/2022; nello stesso senso Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 6909 del 15/03/2025).
Segnatamente la pronuncia delle Sezioni unite n. 33645/2022 ha precisato che il tema del danno in re ipsa da occupazione illegittima attiene all’occupazione abusiva caratterizzata dall’originario difetto di titolo e che è soggetta al regime della responsabilità di cui all’art. 2043 c.c. Invece, nel caso di sopravvenuto venir meno del titolo, che ab origine giustificava l’occupazione dell’immobile, viene in rilievo la disciplina delle fattispecie di estinzione del rapporto contrattuale e il regime applicabile è quello della responsabilità ex art. 1218 c.c.
4.2.2. -Dunque, la richiesta di trattenimento della somma ricevuta dal promittente alienante, a titolo di caparra
confirmatoria, era compatibile con l’ulteriore richiesta di ‘risarcimento’ dei danni per l’illegittima occupazione dell’immobile a cura del promissario acquirente.
Tanto chiarito, il mero fatto che il promittente venditore avesse concesso la detenzione anticipata dei cespiti, autorizzando il promissario compratore a goderne nei termini reputati più opportuni (finanche locando i beni a terzi), non escludeva il suo diritto a pretendere la riparazione del pregiudizio conseguente all’illegittima occupazione, una volta accertato che la mancata stipulazione dei contratti definitivi di vendita doveva imputarsi al contegno inadempiente del promissario acquirente, senza che questo determinasse un’indebita locupletazione a vantaggio del danneggiato.
E ciò appunto perché la detenzione anticipata era stata riconosciuta in vista del perfezionamento dell’effetto traslativo (ed era funzionalizzata alla produzione di tale effetto), sicché -esercitato il recesso in ragione dell’inadempimento del promissario compratore -la causa della riconosciuta detenzione anticipata è venuta meno, con la conseguente spettanza della tutela risarcitoria per l’occupazione divenuta sine titulo , in aggiunta alla pretesa di trattenere la ricevuta caparra confirmatoria.
Ne consegue che tali danni, originati dal lucro cessante per il danneggiato che non ha potuto trarre frutti né dal pagamento integrale del prezzo né dal godimento degli immobili, sono legittimamente liquidabili dal giudice di merito, con riferimento all’intera durata dell’occupazione e, dunque, non solo a partire dalla domanda giudiziale di risoluzione contrattuale o dall’esercizio del diritto potestativo di recesso, stante che la declaratoria di
risoluzione produce effetti ex tunc (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 30594 del 20/12/2017; Sez. 2, Sentenza n. 24510 del 21/11/2011; Sez. 2, Sentenza n. 1307 del 29/01/2003; Sez. 3, Sentenza n. 1689 del 7/07/1967; nello stesso senso Cass. Sez. 62, Ordinanza n. 7868 del 20/03/2019).
4.2.3. -Quand’anche si ritenesse che il riconoscimento di tale voce di danno ricada nell’interesse negativo ( id quod interest contractum non fuisse ), ossia nel danno da affidamento, rappresentato dai costi affrontati per stipulare il contratto, allo scopo di riportare le parti nella situazione precedente alla sua stipulazione, con la ricostruzione del patrimonio del creditore non come se il contratto fosse stato eseguito, ma come se esso non fosse stato mai concluso, comunque, sotto altra veste, il medesimo importo sarebbe comunque spettato.
Orbene, il danno patrimoniale da inadempimento deve essere ancorato ai criteri di liquidazione dell’interesse positivo (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 28022 del 14/10/2021; Sez. 2, Sentenza n. 14431 del 22/06/2006; Sez. 3, Sentenza n. 4473 del 28/03/2001; Sez. L, Sentenza n. 3598 del 15/04/1994; Sez. 2, Sentenza n. 5686 del 19/11/1985; Sez. 3, Sentenza n. 987 del 14/03/1975; nello stesso senso Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 14948 dell’11/05/2022) e della teoria differenziale, secondo cui, in base al nesso di causal ità, l’entità del risarcimento deve essere collegata al valore che la prestazione ha per il creditore, quale danno da aspettativa, esclusi i costi e le perdite che la parte danneggiata avrebbe comunque sostenuto anche nel caso di adempimento, con la conseguente ricostruzione comparativa della situazione patrimoniale che si sarebbe determinata in caso di
adempimento e di quella conseguita all’inadempimento ( quantum lucrari potuit ).
Sicché il risultato atteso dal risarcimento è sostitutivo di quello conseguito con l’adempimento e, quindi, deve portare la parte adempiente nella stessa situazione in cui si sarebbe trovata allorché avesse ricevuto correttamente la prestazione (interesse positivo).
Resta ferma, peraltro, la possibilità di riparare il danno patrimoniale secondo l’interesse negativo ossia avendo riguardo al ricavato che sarebbe derivato dal perfezionamento degli affari alternativi che siano stati trascurati o siano andati perduti proprio a cagione degli impegni negoziali assunti e poi rimasti inadempiuti -, allorché il ricorso all’interesse positivo non possa operare in concreto.
Tuttavia, il ‘danno’ figurativo (calcolato in base ai canoni locativi che sarebbero stati ottenuti), riconosciuto per la detenzione degli immobili, è comunque riconducibile ai frutti percepiti in ragione dell’anticipato godimento, la cui corresponsione è conseguente alla ripetizione dell’indebito ex art. 2033, secondo periodo, c.c. (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 10555 del 23/04/2025; Sez. 2, Ordinanza n. 10145 del 17/04/2025; Sez. 2, Ordinanza n. 35280 del 30/11/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 28381 del 28/11/2017; Sez. 2, Sentenza n. 6575 del 14/03/2017; Sez. 2, Sentenza n. 550 del 18/01/2002; Sez. 2, Sentenza n. 4465 del 20/05/1997; Sez. 2, Sentenza n. 10632 del 29/11/1996; Sez. 2, Sentenza n. 2135 del 24/02/1995; Sez. 2, Sentenza n. 875 del 25/01/1995; Sez. 2, Sentenza n. 2802 del 5/04/1990; con riferimento alla sopravvenuta inefficacia del preliminare per
intervenuta prescrizione del diritto alla stipulazione del definitivo Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16629 del 3/07/2013; Sez. 2, Sentenza n. 10752 del 29/10/1993).
In altri termini, l’accessoria richiesta ‘risarcitoria’, volta ad ottenere il pagamento dei canoni per la detenzione divenuta illegittima -quale conseguenza dell’ordine di restituzione dell’immobile concesso in detenzione anticipata al promissario acquirente, detenzione ormai priva di causa all’esito dell’accertamento del recesso per inadempimento di quest’ultimo -, si sostanzia nella pretesa di rimborso dei ‘frutti’ civili, conseguente all’accoglimento della condictio indebiti ob causam finitam .
Senza che ciò, al di là del diverso inquadramento sistematico della pretesa -qualificazione giuridica che spetta al giudice -, ne comprometta, in ogni caso, la spettanza (nella stessa identica misura e sulla scorta dei medesimi fatti storici dedotti, anche in relazione alle causae petendi fatte valere), ove sia stata chiesta la restituzione dell’immobile e il contestuale ‘risarcimento dei danni’ per l’illegittima detenzione, pari ai canoni locativi spettanti (con la conseguente identità anche del petitum ).
E tanto sebbene debba essere esclusa la funzione risarcitoria degli obblighi restitutori.
5. -Il quinto motivo del ricorso proposto da NOME investe, ai sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 3, 4 e 5, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1385, 1418 e 1384 c.c. nonché degli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 122/2005, l’omesso esame di fatti decisivi e il vizio di motivazione apparente, per avere la Corte di secondo grado negato che la caparra
confirmatoria pretesa dal costruttore-promittente venditore e versata dal promissario acquirente fosse, comunque e in ogni caso, riducibile, benché fosse stata assegnata alla predetta caparra una funzione esclusiva di liquidazione anticipata e forfettaria del danno.
Il ricorrente adduce che nessuna delle ragioni prospettate dalla sentenza impugnata avrebbe retto ad un vaglio critico, laddove -per contro -la stessa circostanza dell’assoluta ‘elevatezza’ della somma pretesa a titolo di caparra sarebbe stata chiaro indice della sua eccessività, considerato, altresì, che le somme impegnate dalla caparra erano state versate dal promissario acquirente negli anni 2008 e 2009, a fronte di immobili ultimati nell’anno 2013, senza contare gli interessi sulle somme versate, la proporzione tra caparra e prezzo -che sfiorava il limite del 55% -e il vantaggio economico che il costruttore aveva conseguito dal fatto di aver ricevuto le somme 4-5 anni prima della consegna dei cespiti.
In specie, il ricorrente contesta i rilievi della pronuncia d’appello circa: ( i ) la mancanza della facoltà del giudice di merito di riduzione della caparra confirmatoria, sulla scorta del conferimento del potere di equa riduzione previsto dall’art. 1384 c.c. soltanto per la clausola penale manifestamente eccessiva; ( ii ) l’esclusione del potere di dichiarazione ex officio della nullità (integrale o parziale) della previsione delle caparre confirmatorie, nonostante le indicazioni provenienti dalla Corte costituzionale nelle ordinanze n. 248/2013 e n. 77/2014; ( iii ) l’impossibilità di riqualificare la previsione delle caparre quali clausole penali; ( iiii ) la negazione che gli elementi acquisiti in causa suffragassero
l’assunto dell’eccessività della somma versata a titolo di caparra, all’esito di una valutazione riferita al momento della dazione.
Sulla scorta di detti argomenti, il ricorrente rileva che, anche in presenza di una caparra confirmatoria, sarebbe sorta l’esigenza che il patto non assumesse una connotazione tale da implicare un arricchimento ingiustificato in favore della parte non inadempiente, il che avrebbe escluso che il principio di riconduzione ad equità di cui all’art. 1384 c.c. avesse carattere eccezionale, con la conseguente rilevabilità d’ufficio della eccessività anche della caparra confirmatoria, in ragione di un’applicazione analogica dell’evocato precetto, sancito in tema di clausola penale.
In ogni caso -quand’anche si fosse reputato che la norma sulla riduzione della penale non fosse applicabile alla caparra -, il giudice di merito sarebbe potuto pervenire al medesimo risultato sostanziale -ed anche ad un risultato ulteriore di ‘annientamento’ dell’intera caparra , rilevando ex officio , in caso di manifesta eccessività della stessa, la nullità, totale o parziale, ex art. 1418 c.c. della relativa clausola, per contrasto con il precetto di cui all’art. 2 Cost. sotto il profilo dell’adempim ento dei doveri inderogabili di solidarietà -, norma che sarebbe entrata direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, oppure avrebbe potuto qualificare diversamente la dazione della somma cui le parti avevano attribuito formalmente il nomen iuris di caparra confirmatoria, considerando l’effettiva funzione della dazione nel caso concreto ed evitando così un regolamento degli opposti interessi non equo e
gravemente sbilanciato in danno di una parte, con correlativo arricchimento ingiustificato dell’altra.
In ultimo, il COGNOME obietta che -a fronte del rilievo della Corte d’appello circa il fatto che gli elementi di prova acquisiti non avrebbero corroborato la tesi difensiva sull’enormità della caparra versata, rispetto all’obbligazione coperta dalla medesima non si sarebbe tenuto conto della circostanza che l’eccessività avrebbe dovuto essere valutata avuto sempre riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento e, quindi, anche al tempo fissato per l’adempimento, considerato altresì il fatto decisivo omesso che il prezzo ‘definitivo’ era esattamente corrispondente al prezzo ‘provvisorio’ stabilito.
Del resto, l’argomento secondo cui non sarebbe stata sufficiente -allo scopo di ponderare l’eccessività della caparra la sola proporzione aritmetica tra caparra e valore delle prestazioni avrebbe integrato una motivazione meramente apparente.
5.1. -Il motivo è infondato.
5.1.1. -Anzitutto, si rammenta che, in ordine al tema della natura manifestamente eccessiva della caparra confirmatoria concordata e versata dal promissario acquirente, la pronuncia di secondo grado ha, in successione, prospettato: – che il rilievo d’ufficio della nullità era ammissibile esclusivamente se fosse stato basato su fatti ritualmente introdotti o comunque acquisiti in causa secondo le regole disciplinanti, anche dal punto di vista temporale, il loro ingresso nel processo, non potendo fondarsi su fatti di cui il giudice poteva ipotizzare la verificazione solo in astratto e la cui introduzione avrebbe presupposto l’esercizio di un potere di allegazione ormai precluso in rito; – che, in specie,
poggiava su allegazioni fattuali tardivamente formulate e conseguentemente indimostrate l’assunto dell’appellante secondo cui gli importi pattuiti (euro 600.000,00 su un prezzo di euro 1.096.000,00) sarebbero stati inusuali nel settore di riferimento ed esorbitanti, in quanto non avrebbero avuto alcun rapporto ragionevole con il danno che il contraente non inadempiente avrebbe potuto ricevere dalla mancata esecuzione del contratto; che gli elementi di prova acquisiti, peraltro, non suffragavano l’assunto difensivo in ordine alla eccessività della somma versata a titolo di caparra, considerato che i patti prevedevano la consegna anticipata degli immobili rispetto al momento del rogito e al saldo del prezzo, ponendo così in una posizione di forza i promissari acquirenti, e che il prezzo definitivo della vendita avrebbe dovuto essere determinato solo al momento della stipulazione del contratto traslativo, sicché, al momento della dazione delle caparre, non poteva escludersi che il prezzo da corrispondere per il saldo sarebbe stato più alto (di quello provvisorio stabilito); – che, per gli stessi motivi, non vi erano elementi che consentissero di riqualificare, a dispetto del nomen iuris condiviso tra le parti ed al tenore delle domande proposte, la caparra come penale, non essendo sufficiente, a questo fine, la sola proporzione aritmetica tra caparra e valore delle prestazioni oggetto del contratto, con la conseguente non riducibilità della caparra, in ragione dell’inapplicabilità dell’art. 1384 c.c.
La Corte di merito ha, quindi, espressamente negato la facoltà di riduzione, in ragione della mancata assimilazione della clausola prevista nei contratti preliminari ad una penale (sul presupposto che il potere di reconductio ad aequitatem di cui
all’art. 1384 c.c. si applicasse al solo istituto della clausola penale), e -ad ogni modo ( ad abundantiam ) -ha escluso che l’ammontare della caparra fosse sproporzionato rispetto al corrispettivo pattuito, alla stregua dei vantaggi conseguiti dal promissario compratore all’esito del conseguimento della detenzione qualificata anticipata (in comodato precario, ossia funzionalmente collegato al contratto preliminare, produttivo di effetti meramente obbligatori: Cass. Sez. U, Sentenza n. 7930 del 27/03/2008, come seguita dalla giurisprudenza successiva: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5211 del 16/03/2016; Sez. 2, Sentenza n. 9896 del 26/04/2010; Sez. 2, Sentenza n. 1296 del 25/01/2010) dei cespiti oggetto dei preliminari.
5.1.2. -Tanto premesso, a monte, deve escludersi che la caparra confirmatoria sia soggetta al potere di riduzione ex art. 1384 c.c. e che, ove sia qualificabile effettivamente come tale, l’entità della sua misura possa implicare la nullità, totale o parziale, della clausola che la prevede per contrarietà al dovere di solidarietà ex art. 2 Cost. e al canone di buona fede oggettiva.
Quanto al potere di riduzione della caparra confirmatoria eccessiva, alla stregua dell’applicazione analogica o estensiva dell’art. 1384 c.c. norma prevista con riferimento alla disciplina della clausola penale -, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel sostenere che tale possibilità non sia consentita (non implicando alcun vincolo interpretativo le ordinanze di manifesta inammissibilità della Corte costituzionale n. 248/2013 e n. 77/2014).
Ciò perché la norma di cui all’art. 1384 c.c., sul potere del giudice di ridurre equamente la penale, ha carattere eccezionale
e, pertanto, non è applicabile analogicamente oltre l’ambito della clausola penale, cui testualmente si riferisce, né, in particolare, in tema di caparra confirmatoria (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17715 del 25/08/2020; Sez. 3, Sentenza n. 14776 del 30/06/2014; Sez. 2, Sentenza n. 15391 dell’1/12/2000; Sez. 2, Sentenza n. 5644 del 23/05/1995; Sez. 2, Sentenza n. 1143 del 24/02/1982; Sez. 2, Sentenza n. 6394 del 10/12/1979; Sez. 2, Sentenza n. 4052 dell’8/09/1978; Sez. 2, Sentenza n. 4856 del 10/11/1977; Sez. 1, Sentenza n. 1274 del 28/07/1948, con riferimento alla non riducibilità della multa penitenziale; nello stesso senso, più recentemente, Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 32821 del 27/11/2023; Sez. 2, Ordinanza n. 18508 del 30/06/2021).
Detta conclusione si giustifica in virtù delle differenze strutturali e funzionali intercorrenti tra i due istituti, in quanto la caparra, pur assolvendo, come la clausola penale, alla funzione di liquidare preventivamente il danno da inadempimento, svolge l’ulteriore funzione di anticipato parziale pagamento per l’ipotesi di adempimento.
In questa prospettiva, la disposizione di cui all’art. 1384 c.c., contemplando l’attribuzione al giudice del potere di incidere in un caso del tutto peculiare sulle pattuizioni private e di modificare il relativo contenuto (così intervenendo nella ‘cittadella’ dell’autonomia privata), è norma che fa eccezione alla regola generale, immanente al sistema e formalmente sanzionata nell’art. 1322 c.c., che impone il rispetto dell’autonomia contrattuale dei privati e, consequenzialmente, non è passibile di applicazione analogica a situazioni diverse da quella in essa specificamente previste (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9504 del
21/04/2010; Sez. 2, Sentenza n. 13120 del 30/12/1997; Sez. 3, Sentenza n. 1209 del 6/02/1987).
5.1.3. -L’impostazione che precede merita di essere condivisa, benché -come ha evidenziato il filone della dottrina favorevole all’applicazione anche alla caparra confirmatoria dell’art. 1384 c.c., disposizione dettata in tema di clausola penale -, in chiave dinamica ed ex post (momento in cui esclusivamente assume pregnanza il tema della riducibilità della caparra sproporzionata), la ‘funzione’ dei due istituti si possa ritenere assimilabile, sicché -afferma la tesi dottrinaria citata -non avrebbe giustificazione (ai fini di negare la riduzione) il mero rilievo che, in chiave statica ed ex ante , la clausola penale e la caparra confirmatoria siano connotate da requisiti strutturali e funzionali diversi.
I due istituti condividono, invero, la medesima ratio rispetto alla funzione di autotutela, che è l’unica a persistere anche nel caso della caparra -nella fase ‘attuativa’ del ‘rapporto’ allorché ricorra un ‘difetto funzionale sopravvenuto’, ossia nella fase dell’esecuzione laddove vi sia l’inadempimento di una delle parti (sulla funzione di predeterminazione forfettaria del danno da inadempimento patito anche per la caparra confirmatoria, ove sia chiesto l’accertamento del suo diritto alla ritenzione alla stregua del legittimo esercizio del recesso ovvero la condanna al pagamento del suo doppio: Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 35068 del 29/11/2022; Sez. 2, Sentenza n. 10953 del 28/06/2012; Sez. 2, Sentenza n. 4714 del 5/11/1977; Sez. 1, Sentenza n. 925 del 9/05/1962; Sez. 2, Sentenza n. 4274 del 20/11/1954).
5.1.3.1. -Tuttavia, pur avendo la caparra confirmatoria siffatta funzione di predeterminazione forfettaria del danno nella fase attuativa (con il relativo rafforzamento della tutela del credito), allorché vi sia l’inadempimento della controparte rispetto alla parte rivendicante (quanto alla sua effettiva destinazione finale), resta comunque ferma la ratio dell’esclusione -evidentemente voluta dal legislatore, che non l’ha prevista nell’ambito dell’art. 1385 c.c. del potere di riduzione.
In proposito, è opportuno rilevare che la facoltà di riduzione non è stata estesa dal legislatore alla caparra, benché i due istituti della clausola penale e della caparra confirmatoria siano disciplinati nella stessa unità sistematica: la norma che regola la caparra segue immediatamente quella che regola il potere di riduzione della penale e si inserisce, unitamente alle norme dedicate alla clausola penale, nell’unica Sezione II ‘AVV_NOTAIOa clausola penale e della caparra’ del Capo V ‘Degli effetti del contratto’ del Titolo II ‘Dei contratti in generale’ del Libro IV ‘AVV_NOTAIOe obbligazioni’.
Tale precisa scelta normativa non importa alcuna lacuna nella disciplina della caparra confirmatoria, quale fattispecie autonoma e completa che non richiede alcuna integrazione.
Non a caso il legislatore è intervenuto solo con riferimento alla regolamentazione del codice del consumo, assimilando la clausola penale agli altri ‘titoli equivalenti’ di importo manifestamente eccessivo, qualora impongano al consumatore, in caso di inadempimento o ritardo, il pagamento di una somma di denaro nel rapporto tra professionista e consumatore, ai fini di
presumere l’abusività della previsione ex art. 33, secondo comma, lett. f ).
5.1.3.2. -Ebbene, pur risultando ex post congruente la funzione dei due istituti, gli elementi costitutivi della caparra confirmatoria -con precipuo riferimento all’ipotesi in cui essa abbia ad oggetto una somma di denaro o comunque una quantità di altre cose fungibili omogenea rispetto alla prestazione principale del contratto cui accede -escludono in radice che essa possa essere manifestamente eccessiva; e ciò diversamente dalla clausola penale.
Segnatamente, ai sensi dell’art. 1385, primo comma, c.c., la circostanza che, in caso di adempimento, la caparra debba essere ‘imputata alla prestazione dovuta’ ( recte alla prestazione principale dovuta) lascia intendere che essa non possa eguagliare e, a fortiori , superare l’importo di tale prestazione principale, fattore, questo, che qualifica anche la stessa struttura della caparra (e il meccanismo mediante il quale essa opera), che -relativamente al prezzo concordato in un preliminare di vendita -ne costituisce, per definizione, una frazione e, quindi, una parte.
La giurisprudenza di questa Corte, nel valorizzare la dazione della caparra confirmatoria quale principio di pagamento, ne configura ontologicamente la natura quale anticipato ‘parziale’ pagamento o ‘conto prezzo’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 23592 del 20/08/2025; Sez. 2, Sentenza n. 7935 del 23/08/1997; Sez. 2, Sentenza n. 1101 del 4/02/1988; Sez. 3, Sentenza n. 727 del 30/01/1980).
Siffatta limitazione quantitativa della caparra confirmatoria -che appunto non può uguagliare e, a fortiori , superare la
prestazione cui è imputata in caso di adempimento -postula che la misura della caparra sia già calmierata ex lege entro la soglia del corrispettivo dovuto quale prestazione principale, tanto da escluderne intrinsecamente la manifesta eccessività e la necessità di ricondurla ad equità, così da legittimare la previsione -a cura delle parti -della caparra confirmatoria in relazione alla -e in vista della -sua intangibilità.
In questa dimensione la libertà delle parti di attribuire un valore convenzionale ex ante al danno eventuale e comunque futuro (valore ‘personalizzato’ e dunque definito ‘idiosincratico’) non si scontra con la conseguente coercibilità in ogni caso, proprio alla stregua della sua predefinita limitazione entro lo ‘sbarramento’ della prestazione principale, tanto da assicurare un regolamento degli opposti interessi tendenzialmente equo e bilanciato.
Ciò diversamente dalla clausola penale, la cui misura è liberamente concordata dalle parti, senza alcun limite o tetto rappresentato dall’entità della prestazione principale, ragione, questa, che appare dirimente ai fini di contemplare la diminuzione equitativa del giudice.
La garanzia preventiva di tale limitazione quantitativa costituisce in sé un elemento costitutivo qualificante della caparra confirmatoria, rispetto al quale non è stata avvertita l’esigenza di prevedere un potere di riduzione (‘ulteriore’ rispetto al limite ontologico prefissato per sua natura dalla norma), sul presupposto che il contenimento entro la soglia indicata costituisca sufficiente ragione satisfattiva ( recte garanzia) per escludere che, in
concreto, la misura della caparra confirmatoria possa essere manifestamente eccessiva.
E tanto sebbene, a priori , la proporzione dell’entità della caparra rispetto al danno futuro da inadempimento non sia prevedibile al momento della pattuizione (né in eccesso né in difetto).
Detta conclusione è sintonica rispetto ai principi -dettati in tema di riduzione della clausola penale -, a mente dei quali il suo ammontare non deve essere posto soltanto in rapporto con il valore della prestazione inadempiuta, secondo una ponderazione statica, ma altresì con il danno subito dal contraente non inadempiente, il quale -in assenza della pattuizione -avrebbe diritto al risarcimento del danno da inadempimento, conseguente alla risoluzione del contratto, in ragione dell’effettiva incidenza dell’inadempimento sullo squilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale nel corso di rapporto, secondo una ponderazione dinamica (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 18463 del 7/07/2025; Sez. L, Ordinanza n. 14706 del 27/05/2024; Sez. 3, Ordinanza n. 26901 del 20/09/2023; Sez. 1, Sentenza n. 10626 del 9/05/2007; Sez. L, Sentenza n. 7835 del 4/04/2006).
5.1.3.3. -A questa imprevedibilità a priori fa da contraltare il contenimento della caparra entro il tetto della misura della prestazione principale, in ragione di un patto bilaterale che giova o nuoce ad entrambe le parti nei medesimi termini, in modo da prevenire qualsiasi asimmetria funzionale.
Infatti, la caparra confirmatoria opera in senso bidirezionale, in base ad un rischio che le parti si assumono reciprocamente sin dal momento della convenzione: essa produce
effetti pregiudizievoli nella stessa misura, qualsiasi sia successivamente la parte che si riveli inadempiente.
La natura bidirezionale -o il funzionamento bilaterale -del meccanismo di cui all’art. 1385, secondo comma, c.c. è idonea ad indurre le parti a commisurare adeguatamente la sua entità o comunque ad assumersi preventivamente il rischio delle conseguenze omologhe dell’inadempimento, sempre entro la soglia prefissata, rischio -come tale -limitato preventivamente e ritenuto tollerabile dall’ordinamento (secondo Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4856 del 10/11/1977, nel caso della caparra confirmatoria, l’autocontrollo nel determinare l’ammontare del datum è automatico, poiché la caparra opera nei confronti di entrambe le parti, imponendo, così, alle stesse una comune cautela).
Mentre la caparra confirmatoria grava sia sul tradens sia sull’ accipiens , la penale -per contro -è unilaterale, poiché è promessa da una parte in favore dell’altra e non reciprocamente (o almeno non reciprocamente in via fisiologica), il che rafforza l’esigenza di stabilirne la diminuzione ove sia manifestamente eccessiva, appunto allo scopo di evitare che essa possa diventare uno strumento di sopraffazione a carico della parte obbligata inadempiente, senza che la previsione delle parti sia ancorata ad alcun tetto.
5.1.3.4. -D’altronde, la caparra confirmatoria -diversamente dalla clausola penale -si contraddistingue per la sua ‘realità’ ossia si perfeziona con la consegna ( recte con la dazione e non già con la promessa) che una parte fa all’altra di una somma di danaro o di una determinata quantità di altre cose
fungibili per il caso d’inadempimento delle obbligazioni nascenti da un diverso negozio ad essa collegato -(e anche ove sia prevista la dazione differita essa deve compiersi prima dell’attuazione del programma negoziale: Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 19425 del 14/07/2025; Sez. 2, Ordinanza n. 35068 del 29/11/2022; Sez. 62, Ordinanza n. 21506 del 27/07/2021; Sez. 2, Sentenza n. 4661 del 28/02/2018; Sez. 2, Sentenza n. 24563 del 31/10/2013; Sez. 2, Sentenza n. 10056 del 24/04/2013; Sez. 2, Sentenza n. 17127 del 9/08/2011; Sez. 2, Sentenza n. 5424 del 15/04/2002; Sez. 2, Sentenza n. 5644 del 23/05/1995; Sez. 2, Sentenza n. 3704 del 31/05/1988), il che costituisce un indice prognostico che induce, quantomeno il tradens , a prestare maggiore attenzione nell’accordarsi per la sua quantificazione e nell’accettarne gli effetti.
5.1.3.5. -Ciò si evince anche dalla constatazione che la sua operatività è condizionata al fatto che la parte gravata si renda colpevole di un inadempimento di non scarsa importanza ex art. 1455 c.c. ( recte grave), in relazione all’interesse dell’altro contraente, le cui conseguenze risarcitorie sono prevedibili per entrambe le parti (sulla necessità che il legittimo esercizio del recesso ex art. 1385 c.c. sia supportato da un inadempimento grave della controparte ex art. 1455 c.c., Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 21209 dell’8/08/2019; Sez. 2, Sentenza n. 21206 dell’8/08/2019; Sez. 1, Ordinanza n. 12549 del 10/05/2019; Sez. 6-2, Ordinanza n. 409 del 13/01/2012; Sez. 2, Sentenza n. 398 del 23/01/1989; Sez. 2, Sentenza n. 4451 del 21/08/1985; Sez. 2, Sentenza n. 4011 del 9/07/1984; nello stesso senso, da ultimo, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10067 del 16/04/2025; Sez. 2,
Ordinanza n. 9439 del 10/04/2025; Sez. 2, Ordinanza n. 21085 del 4/07/2022; Sez. 6-2, Ordinanza n. 2315 del 2/02/2021; Sez. 2, Ordinanza n. 20532 del 29/09/2020; Sez. 2, Ordinanza n. 20449 del 28/09/2020; Sez. 2, Ordinanza n. 19337 del 17/09/2020; Sez. 2, Ordinanza n. 3273 del 11/02/2020).
La rivendicazione del diritto della parte ad incamerare (trattenendola o ottenendone il doppio) la caparra confirmatoria nella misura previamente concordata e versata esige, dunque, che la controparte si sia resa ‘colpevole’ di un ‘grave’ inadempimento, tale da legittimare l’esercizio del diritto potestativo di recesso, a garanzia del quale la caparra è stata debitamente prevista.
5.2. -Da quanto innanzi esposto discende che, solo ove la clausola che contempla la caparra confirmatoria preveda una quantificazione della somma dovuta in caso di inadempimento uguale o eccedente l’ammontare della prestazione principale, essa sarà nulla per violazione della norma imperativa di cui all’art. 1385 c.c. (nullità virtuale ex art. 1418, primo comma, c.c.), finendo per essere snaturata la sua stessa identità di caparra (e, perciò, la sua funzione), la quale -secondo gli elementi strutturali intrinseci che la connotano -consiste in una frazione della prestazione principale (sempre che vi sia omogeneità tra caparra e prestazione dovuta).
In definitiva, la previsione secondo cui la caparra, in caso di adempimento, deve essere ‘imputata’ al pagamento della prestazione dovuta lascia intendere che sia elemento qualificante e inderogabile dell’istituto il suo contenimento sotto la soglia della prestazione principale, con la conseguenza che la previsione di
una caparra di importo pari o superiore all’ammontare della prestazione principale (solitamente il prezzo) lede lo schema entro cui la figura si delinea, per perseguire scopi che non sono ad essa propri.
D’altronde, l’affidamento nell’attuazione del rapporto che si realizza nella somma di denaro ricevuta all’atto del preliminare dal promissario che riponga fiducia nell’attuazione dello scambio intanto può giustificare ragionevolmente nell’ accipiens il diritto a disporre di quanto ricevuto, in quanto il relativo importo, per un verso, non sfori la misura del corrispettivo e, per altro verso, postuli il successivo versamento del saldo a cura del tradens -inadempimento in conseguenza del quale l’ accipiens potrà definitivamente trattenere la somma già versata, esercitando il diritto di recesso dal contratto -.
Viene perciò incisa la causa concreta della previsione della caparra confirmatoria, ledendo gli interessi di rilevanza generale che, attraverso la disposizione, il legislatore ha inteso salvaguardare.
Dunque, la norma che impone, anche a prescindere dalla pattuizione delle parti, che l’oggetto della caparra confirmatoria abbia determinate caratteristiche -e segnatamente consista in una frazione o in una parte della prestazione principale -è una norma di validità (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 26487 del 10/10/2024; Sez. 6-3, Ordinanza n. 25222 del 14/12/2010).
In conseguenza, la somma versata a titolo di caparra confirmatoria sarà, al più, qualificabile come anticipato pagamento dell’intero, allorché il suo importo sia pari a quello della prestazione principale.
Viceversa, qualora la sua misura superi l’ammontare della prestazione principale, in conseguenza della dichiarazione di invalidità della clausola, l’importo versato dovrà essere restituito alla controparte, perdendo la propria giustificazione (la dazione anticipata esclude, infatti, che si tratti di clausola penale).
5.3. -A corollario di quanto anzidetto, tale meccanismo -che, in ragione del contenimento entro il tetto della prestazione principale e alla stregua della sua operatività bidirezionale, esclude la possibilità di riduzione -preserva altresì il pieno e libero esercizio della libertà di scelta delle opzioni contemplate dall’art. 1385, terzo comma, c.c.
Infatti, ove si assumesse l’ammissibilità della riduzione giudiziale della caparra confirmatoria, vi sarebbe il concreto rischio che la scelta tra caparra e risarcimento del danno secondo le regole ordinarie sia soppressa o quantomeno notevolmente menomata (o ‘alterata’), ossia che la parte non inadempiente che sia di per sé soddisfatta dall’ammontare della caparra convenuta e ricevuta o versata -possa essere indotta a richiedere la risoluzione per inadempimento e il risarcimento in via ordinaria proprio in ragione della possibilità che la caparra sia diminuita, così pregiudicando la funzione della caparra connessa all’esercizio del diritto di recesso.
In altri termini, la parte adempiente -che, sulla base di un legittimo calcolo preventivo di convenienza, abbia optato per la caparra -rischierebbe di essere defraudata allorché sia consentita una successiva riduzione, della quale, oltretutto, non potrebbe mai prevedersi la misura, lasciata alla discrezionalità del giudice (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4856 del 10/11/1977).
Questa eventualità può, in astratto, presentarsi anche ove sia convenuta la clausola penale ‘pura’, posto che, anche allorché sia pattuita la penale, la parte a cui favore essa è stabilita può decidere di chiedere in giudizio il risarcimento dei danni secondo le regole ordinarie, senza avvalersi della clausola (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 29610 del 25/10/2023; Sez. 3, Sentenza n. 19272 del 12/09/2014; Sez. 2, Sentenza n. 10741 del 24/04/2008; Sez. 2, Sentenza n. 21587 del 15/10/2007; Sez. 2, Sentenza n. 771 del 25/01/1997), sempre che la controparte non ne eccepisca (in senso stretto) la spettanza e il contenimento entro i limiti della clausola (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 29610 del 25/10/2023; Sez. 3, Sentenza n. 19272 del 12/09/2014; Sez. 2, Sentenza n. 303 del 16/01/1996).
Nondimeno, diversamente dalla caparra confirmatoria, nel caso di clausola penale, può essere convenuta la risarcibilità del danno ulteriore ex art. 1382, primo comma, c.c.
In tal caso, ove la prova del danno non sia stata data nei termini richiesti, è comunque garantita la prestazione pattuita a titolo di penale, anche se, in ipotesi, il pregiudizio effettivamente patito e dimostrato sia inferiore al suo importo (Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 21398 del 26/07/2021; Sez. 1, Sentenza n. 12956 del 22/06/2016; Sez. 2, Sentenza n. 15371 del 22/07/2005; Sez. 2, Sentenza n. 6356 del 13/07/1996).
5.3.1. -Ancora, sempre in chiave rafforzativa degli argomenti che militano per la negazione della sua riducibilità, la caparra confirmatoria -proprio sulla scorta della sua ‘realità’ è atta a remunerare l’affidamento riposto dall’ accipiens , atteso che questi, all’esito della sua consegna, può disporne, in via di
principio, nei termini che ritiene più opportuni, facendo leva sul proprio adempimento che, in via prognostica, è idoneo ad escludere definitivamente che il relativo ammontare possa uscire dal suo patrimonio, aspettativa che sarebbe invece delusa, allorché, in conseguenza dell’inadempimento della controparte, la caparra possa comunque essere ridotta, così limitando la facoltà di disposizione di tale somma.
Siffatto affidamento non ricorre, invece, nella penale, posto che, in tal caso, la prestazione deve essere eseguita solo dopo l’inadempimento, sicché la sua diminuzione non lede alcuna sicurezza preventivamente acquisita.
Senonché, nell’ottica del legislatore, l’attesa della prestazione -da parte del creditore della penale -può essere ridimensionata dal sindacato giurisdizionale, mentre non è compatibile con la ‘realità’ che sia sacrificato l’affidamento del contraente che riceve la caparra, organizzando la propria attività e i propri interessi in modo tale da confidare nella disponibilità della somma consegnata, almeno in via presuntiva.
5.3.2. -Del resto, se la caparra potesse essere ridotta avuto riguardo all’interesse che il creditore ‘aveva’ all’adempimento , essa sarebbe sostanzialmente trattata alla stregua di un mero acconto; l’ accipiens , infatti, sarebbe tenuto a restituire la parte della somma ricevuta che sia eccedente rispetto alla misura determinata dal giudice.
Per converso, la differenza tra caparra confirmatoria e acconto si traduce proprio nel fatto che, nel caso di acconto, la parte non può confidare nella sua disponibilità, poiché, ove il contratto si risolva, tale importo dovrà essere restituito; invece, la
parte che riceve la caparra può fare affidamento, in ogni caso, sulla sua ritenzione, o quale frazione del corrispettivo dovuto (se lo scambio viene attuato), o quale rimedio compensativo conseguente all’esercizio del recesso (se lo scambio è pregiudicato dall’inadempimento della controparte).
5.4. -Pertanto, la circostanza che la caparra confirmatoria sia strutturalmente confinata al di sotto del limite rappresentato dalla misura della prestazione principale, con una convergente previsione che coinvolge, in termini strutturali e simmetrici, entrambe le parti, alla luce della ‘realità’ del relativo patto, giustifica la scelta del legislatore di non estendere la previsione sulla diminuzione anche alla caparra.
6. -Con il sesto motivo del ricorso COGNOME (corrispondente al quinto motivo del ricorso COGNOME) entrambi i ricorrenti contestano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 345 c.p.c., per avere la Corte d’appello esteso la condanna risarcitoria anche ai danni da occupazione maturati nel corso del giudizio, benché la promittente venditrice avesse domandato la condanna per l’occupazione maturata sino al marzo 2019, data di proposizione della domanda, senza richiedere la riparazione per l’occupazione successiva alla sua costituzione in giudizio.
I ricorrenti precisano, altresì, che non si sarebbe trattato di un ‘aggiornamento’ dei danni dalla data della sentenza del Tribunale in poi, ma di un’attribuzione del risarcimento per il periodo compreso tra la data della domanda e la data della sentenza di prime cure che RAGIONE_SOCIALE non avrebbe richiesto con la propria comparsa di risposta con domanda riconvenzionale,
sicché per il periodo compreso tra il 9 marzo 2019 e il 2 novembre 2020 non avrebbe potuto essere invocata la norma di cui all’art. 345 c.p.c., poiché l’applicazione di tale norma avrebbe presupposto la mera ‘prosecuzione’ di nuovi danni rispetto a quelli verificatisi sino alla sentenza di primo grado.
6.1. -Il motivo è fondato.
Sul punto, la pronuncia impugnata ha chiarito: – che correttamente RAGIONE_SOCIALE, nel chiedere la conferma della decisione in materia di tutela risarcitoria, aveva domandato che, tenuto conto del protrarsi dell’occupazione, l’importo che le era dovuto fosse incrementato sulla base dello stesso criterio adottato dal Tribunale, poiché dalle conclusioni formulate nel giudizio di primo grado non si evinceva alcuna rinuncia della parte appellata ad esigere l’indennità di occupazione per i periodi successivi al mese di marzo 2019, quando la domanda di condanna era stata proposta; – che, infatti, nella comparsa di risposta del giudizio di primo grado era stato domandato il risarcimento dei danni relativi all’indebita occupazione degli immobili, ‘a partire dalla consegna fino alla data dell’effettivo rilascio’, né si poteva evincere dalla lettura della sentenza di primo grado la volontà del Tribunale di escludere la spettanza del diritto per il periodo successivo alla costituzione in giudizio, con la conseguenza che era consentita la proposizione in appello di domande volte a far valere i danni sofferti dopo la sentenza di primo grado, senza necessità di proporre appello incidentale, trovando gli ulteriori danni richiesti la loro fonte nella stessa causa ed avendo la stessa natura di quelli già accertati in primo grado.
Orbene, alla luce della disamina diretta della comparsa di risposta di RAGIONE_SOCIALE nel giudizio di primo grado risulta smentito l’assunto secondo cui la domanda risarcitoria sarebbe stata limitata con riferimento ai pregiudizi patiti sino alla proposizione della domanda; piuttosto, è stato domandato il risarcimento dei danni relativi all’indebita occupazione degli immobili, a partire dalla consegna fino alla data dell’effettivo rilascio.
Ne deriva che, in questo senso, non risulta configurabile alcuna violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
Nondimeno, appare pertinente la denunciata violazione dell’art. 345, primo comma, secondo periodo, c.p.c., nella parte in cui prevede che può domandarsi in appello il risarcimento dei ‘danni sofferti dopo la sentenza di primo grado’.
In tal caso non è necessario che sia interposto apposito appello incidentale.
Infatti, la domanda di risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza impugnata, eccezionalmente consentita dall’art. 345 c.p.c., presuppone che sia stata avanzata in primo grado una domanda di risarcimento dei danni e che gli ulteriori danni richiesti in appello trovino la loro fonte nella stessa causa e siano della medesima natura di quelli già accertati in primo grado; essa non costituisce, però, materia d’appello incidentale, soggetta alle forme ed ai termini di questo. Di conseguenza, la nuova pretesa, ove non rispetti tali requisiti, costituisce inammissibile domanda nuova, implicando nuove indagini in ordine alle ragioni poste a base della domanda iniziale e ampliamento del relativo petitum
(Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 18526 del 4/09/2020; Sez. 3, Sentenza n. 5067 del 3/03/2010; Sez. 3, Sentenza n. 5678 del 15/03/2006; Sez. 1, Sentenza n. 9405 del 25/09/1997; Sez. U, Sentenza n. 1955 dell’11/03/1996).
Tuttavia, nella fattispecie, benché la promittente alienante avesse richiesto, con la comparsa di costituzione nel giudizio di primo grado, il risarcimento dei danni da occupazione illegittima dalla data dell’avvenuta consegna degli immobili sino all’effettivo rilascio, la sentenza di primo grado aveva accolto tale domanda nei limiti dell’occupazione accertata sino alla data della proposizione della domanda giudiziale in prime cure ( recte sino al 9 marzo 2019), sicché il giudice d’appello, accogliendo la mera difesa-obiezione della parte appellata, ha esteso la condanna non solo ai danni verificatisi nel corso del giudizio d’appello per la prolungata occupazione della res , ma anche a quelli determinatisi nel corso del giudizio di primo grado, su cui il Tribunale non aveva provveduto, nonostante la domanda includesse anche il nocumento derivante dalla prosecuzione dell’occupazione nel corso del giudizio.
Ne consegue che, avverso la limitazione della tutela risarcitoria accordata solo per i danni da occupazione illegittima subiti sino alla proposizione della domanda giudiziale in primo grado, la promittente alienante avrebbe dovuto spiegare appello incidentale allo scopo di contestare tale limitazione, benché avesse richiesto l’estensione della tutela riparatoria sino all’effettivo rilascio dell’immobile, senza che il giudice d’appello potesse rimediarvi attraverso la mera difesa della parte appellata.
L’appello incidentale, invece, non è stato interposto, sicché era precluso al giudice del gravame liquidare i danni sofferti dalla promittente alienante dal momento della costituzione nel giudizio di prime cure sino al rilascio effettivo avvenuto nel corso del giudizio d’appello, poiché in difetto di uno specifico motivo di impugnazione in ordine a tale aspetto di infra-petizione -sul punto si era formato il giudicato interno.
7. -In conseguenza delle considerazioni esposte, il sesto motivo del ricorso proposto da NOME e il corrispondente quinto motivo del ricorso avanzato da COGNOME NOME devono essere accolti, nei sensi di cui in motivazione, mentre i restanti motivi di entrambi i ricorsi vanno respinti.
La sentenza impugnata va, dunque, cassata, limitatamente al comune motivo accolto, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, che deciderà uniformandosi al seguente principio di diritto e tenendo conto dei rilievi svolti, provvedendo anche alla pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
«La domanda di risarcimento dei danni sofferti ‘dopo la sentenza impugnata’, eccezionalmente consentita dall’art. 345 c.p.c., presuppone che sia stata avanzata in primo grado una domanda di risarcimento dei danni e che gli ulteriori danni richiesti in appello trovino la loro fonte nella stessa causa e siano della medesima natura di quelli già accertati in primo grado; pertanto, non può essere liquidato, in forza di tale norma, il danno subito dalla parte nel corso del giudizio di primo grado, sino alla relativa sentenza, che -seppure richiesto -non sia stato
riconosciuto, dovendo, in tal caso, essere spiegato appello incidentale avverso tale negazione».
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione
accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il sesto motivo del ricorso proposto da NOME e il corrispondente quinto motivo del ricorso avanzato da COGNOME NOME;
rigetta i rimanenti motivi di entrambi i ricorsi;
cassa la sentenza impugnata in relazione al comune motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, in data 16 ottobre 2025.
Il AVV_NOTAIO estensore NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME