Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 19258 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 19258 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 13/07/2025
COGNOME NOMECOGNOME
– intimato – avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO DI BARI n. 1929/2019, depositata il 16/09/2019;
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1057/2020 R.G. proposto da: COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME
– controricorrente –
nonchè contro
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Bari -Sez. stralcio -Articol. Altamura, pronunciava su domanda principale proposta da NOME COGNOME per il pagamento di lavori in appalto da lui eseguiti per la ristrutturazione di un immobile sito in Gravina di Puglia, nonché sulle eccezioni e sulla domanda proposta in via riconvenzionale da NOME COGNOME committente, per la risoluzione del contratto d’appalto e il risarcimento del danno richiesto in via solidale sia nei confronti dell’appaltatore e attore, NOME COGNOME sia nei confronti dell’Ing. NOME COGNOME progettista e Direttore dei lavori.
1.1. Il giudice di prime cure -espletata consulenza tecnica con successive integrazioni -considerava il contratto d’appalto radicalmente nullo perché contrario a norme imperative, in ragione dell’entità e configurazione delle opere edilizie oggetto di contratto, non consistenti in una semplice ristrutturazione dell’immobile bensì nell’ampliamento del terzo piano e sopraelevazione del quarto piano; opere eseguite in assenza di concessione edilizia, poiché quella rilasciata riguardava altre e minori opere, di tal ché il Comune di Gravina in Puglia aveva emesso ordine di demolizione.
Per l’effetto: rigettava la domanda proposta in via principale da NOME COGNOME per il pagamento del corrispettivo dell’esecuzione delle opere; rigettava la domanda riconvenzionale proposta dal committente NOME COGNOME; accoglieva la domanda proposta dal committente COGNOME nei confronti del progettista e direttore dei lavori, NOME COGNOME condannando quest’ultimo al risarcimento dei danni nei confronti del committente convenuto, per l’importo di €. 12.475,17 , per i vizi delle opere regolarmente autorizzate e che avrebbero dovuto
essere interamente rifatte; di €. 8.500,00, importo corrispondente alla metà del costo stimato per la demolizione delle opere assentite e mal realizzate; di €. 6.748,59 per il risarcimento del danno derivato all’utilizzo dei due piani preesistenti per la p erdurante copertura dei pozzi luce, oltre interessi e rivalutazione monetaria.
Impugnava la pronuncia del Tribunale il Direttore dei lavori NOME COGNOME innanzi la Corte d’Appello di Bari. Costituitosi, il committente NOME COGNOME spiegava appello incidentale, vertente (tra l’altro) sulla nullità erroneamente dichiarata dal giudice di prime cure sull’intero contratto d’appalto.
La Corte territoriale accoglieva l’appello principale e, in riforma della sentenza di prime cure, rigettava la domanda di risarcimento proposta da COGNOME nei confronti di NOME COGNOME; rigettava in toto l’appello incidentale.
A sostegno della sua decisione, osservava la Corte che:
-condividendo il convincimento del giudice di prime cure, considerando anche la mancata contestazione tempestiva del committente, sia in ordine all’individuazione delle opere assentite, sia in ordine alla mancata confutazione della commistione in sede di gravame, l’oggetto lecito previsto delle prestazioni assentite non può più essere distinto da quello illecito, tale divenuto nel corso dell’esecuzione del contratto e, verosimilmente, già previsto come tale dal committente sin dal suo sorgere;
-dall’accertata violazione di norme imperative deriva la nullità dell’oggetto che comporta nullità dell’intero contratto per impossibilità di demarcare i vizi ed errori sulle opere assentite e quelle non assentite;
quanto alla responsabilità per inadempimento contrattuale di NOME COGNOME progettista e direttore dei lavori, la sua esclusione
discende dalla nullità del contratto di appalto che esenta da responsabilità anche l’appaltatore, indicato dallo stesso COGNOME come solidalmente responsabile;
inoltre, formalmente l’incarico di direzione dei lavori risulta revocato a NOME COGNOME sin dal 09.10.1999, allorché i lavori avevano avuto inizio il 27.08.1999, e in ogni caso né la sentenza di prime cure né le consulenze tecniche arrivano ad affermare che nella progettazione dovessero già prefigurarsi le opere abusive, sicché le carenze strutturali della progettazione non possono che riferirsi per larga parte alle opere eseguite abusivamente, e quindi non possono riverberarsi automaticamente sugli obblighi del Direttore dei Lavori, laddove non vi è piena prova che egli le abbia dirette. Oltre al fatto che, anche a voler collocare tutte le opere abusive temporalmente prima del 09.10.1999, non può il committente delle opere accedere al risarcimento di un danno che egli stesso ha cagionato;
la già affermata commistione tra opere assentite e non, è concetto che confligge con un’individuazione di danni risarcibili per le sole opere assentite.
Avverso la suddetta sentenza propone ricorso per cassazione NOME COGNOME affidandolo a quattro motivi e illustrandolo con memoria.
Resiste NOME COGNOME.
Resa contumace NOME COGNOME.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si deduce nullità della sentenza o del procedimento (art. 360, comma 1, n. 4) cod. proc. civ.). Il ricorrente lamenta la mancata segnalazione del rilievo d’ufficio della nullità da parte del giudice, tale da comportare la violazione del dovere di
collaborazione e determinare la nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa delle parti.
1.1. Il motivo è infondato.
1.2. Premesso che per la questione che investe i rapporti tra le azioni di adempimento e di risoluzione e la rilevazione officiosa della nullità del contratto deve ritenersi ormai pacificamente ammessa la compatibilità, è anche vero che l’obbligo di rilevazione d’ufficio della nullità sempre e comunque imposto al giudice si debba coniugare con la salvaguardia dell’iniziativa di parte nel processo (Cass. Sez. U, Sentenza n. 26243 del 12/12/2014, Rv. 633563 – 01).
L’obbligo del giudice di provocare il contraddittorio sulle questioni rilevabili d’ufficio per tutto il corso del processo (per quel che qui interessa, di primo grado) trova il suo fondamento normativo nel combinato disposto delle norme di cui agli artt. 183 comma 4, 101 comma 2, c.p.c., 111 Cost.
L’intervento legislativo del 2009, con la nuova formulazione dell’art. 101 comma 2, non dovrebbe consentire dubbi di sorta: il giudice ha l’obbligo di rilevare la nullità negoziale non soltanto nel momento iniziale del processo, ma durante tutto il suo corso, fino al momento della precisazione delle conclusioni. L’art. 101, comma 2, (vigente ratione temporis , introdotto con legge 18 giugno 2009, n. 69, art. 45) impone un ‘ interpretazione dei poteri delle parti estesa alla facoltà di spiegare la conseguente attività probatoria all’esito della rilevazione officiosa della nullità nel corso di giudizio sino alla precisazione delle conclusioni. Recita infatti la disposizione: «Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti
osservazioni sulla medesima questione». La norma sancisce il dovere di evitare sentenze cosiddette «a sorpresa» o della «terza via», poiché adottate in violazione del principio della «parità delle armi», principio già enucleabile dall’art. 183 c.p.c., che fa carico al giudice di indicare, alle parti, «le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione».
Quindi, unico limite del rilievo officioso della nullità, che si salda con la garanzia del contraddittorio, consiste nell’obbligo per il giudice di instaurare il contraddittorio sull’esistenza di una causa di nullità diversa da quella prospettata, che abbia carattere portante ed assorbente e che emerga dai fatti allegati e provati o comunque dagli atti di causa (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 26495 del 17/10/2019, Rv. 655652 – 01).
1.3. Tanto precisato, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato (Cass., n. 11308 del 2020) che l’omessa indicazione alle parti di una questione di fatto oppure mista di fatto e di diritto, rilevata d’ufficio, sulla quale si fondi la decisione, priva le parti del potere di allegazione e di prova sulla questione decisiva e perciò comporta la nullità della sentenza (cd. «della terza via» o «a sorpresa») per violazione del diritto di difesa tutte le volte in cui la parte che se ne dolga prospetti in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere qualora il contraddittorio sulla predetta questione fosse stato tempestivamente attivato.
Nel caso che ci occupa, la questione della nullità del contratto di appalto rientra tra quelle miste fatto e diritto, ma non emerge la sussistenza della violazione del contraddittorio -ai fini dell’asserita nullità della sentenza -atteso che lo stesso ricorrente dà conto dettagliatamente delle difese da questi svolte nei due giudizi di merito al fine di contestare l’assenza di intreccio fisico e funzionale tra le opere
assentite e non, e così sostenendo la nullità parziale del contratto di appalto (v. ricorso, pp. 8-10).
2. Con il secondo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1418 e 1419 cod. civ. (art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ.) in ordine alla nullità del contratto. Il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale assume l’esistenza di un intreccio fisico e funzionale delle opere che escluderebbe la possibilità di distinguere tra opere assentite e non, nonché i vizi delle stesse. A giudizio del ricorrente, non sono condivisibili le conclusioni cui perviene le Corte territoriale, perché nel caso di specie si è in presenza di opere parzialmente difformi, tali da non determinare la nullità dell’intero contratto, ma al più la sua nullità parziale. A tal proposito, osserva il ricorrente, manca del tutto la prova che i contraenti non avrebbero concluso il contratto d’appalto senza la parte colpita da nullità per difformità dalla concessione edilizia: prova che il ricorrente non è stato messo nelle condizioni di fornire, essendo le difese dell’originario convenu to calibrate sull’azione di risoluzione contrattuale, e avendo invece il giudice rilevato d’ufficio la nullità, come evidenziato nel primo mezzo di gravame.
2.1. Il motivo è infondato.
Questa Corte ha avuto occasione di affermare che in tema di contratto di appalto avente ad oggetto la costruzione di immobili eseguiti senza rispettare la concessione edilizia, occorre distinguere le ipotesi di difformità totale e parziale. Nel primo caso, come quello che ci occupa, che si verifica ove l’edificio realizzato sia radicalmente diverso per caratteristiche tipologiche e volumetrie, l’opera è da equiparare a quella posta in essere in assenza di concessione, con conseguente nullità del detto contratto per illiceità dell’oggetto e violazione di norme imperative (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 30703 del
27/11/2018, Rv. 651755 -01; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7961 del 20/04/2016, Rv. 639609 -01; Sez. 1, Sentenza n. 13969 del 24/06/2011, Rv. 618451 – 01).
Con particolare riferimento alla doglianza sollevata, che contesta il convincimento del giudice in merito alla totale difformità delle opere rispetto alla concessione assentita, è stato ulteriormente precisato che in tema di responsabilità dell’appaltatore, al fine di valutare la totale difformità di un intervento edilizio rispetto a quello autorizzato è necessaria una comparazione unitaria e sintetica fra l’organismo programmato e quello che è stato realizzato con una valutazione complessiva e non parcellizzata delle singole difformità, non potendosi dunque ammettere una qualificazione di ognuna di esse come difformità solo parziale dell’immobile assentito rispetto a quello realizzato (in termini: Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 11636 del 04/05/2023, Rv. 667765 -01).
2.2. Di tale comparazione unitaria e sintetica dà conto la Corte territoriale che, dopo aver riportato le opere assentite come descritte nella relazione dell’ATP e in quella dei tecnici comunali del 2013 (v. sentenza p. 10, 1° capoverso), conclude nel senso che le opere riscontrate (secondo l’ordinanza di sospensione dei lavori emessa dal sindaco il 20.01.2000) «constano invece di un vero e proprio terzo piano, pur se ancora rustico, e di un quarto con volumi ‘tecnici’, evidenziano un aumento della volumetria e modifica della sagoma del fabbricato, con notevole aumento di altezza, la realizzazione in ogni caso di una entità completamente diversa da quella assentita» (v. sentenza p. 10, 2° e 3° capoverso).
2.3 . Non coglie, infine, nel segno la doglianza dell’attore nella parte in cui ritiene che non gli sia stata data la possibilità di dimostrare la nullità parziale dell’accordo, fondata da un lato sulla parziale difformità
delle opere realizzate, dall’altro sulla volontà delle parti di concludere ugualmente il contratto di appalto anche senza quella parte di contenuto colpita da nullità. Deve, infatti, disattendersi il presupposto sul quale essa si fonda, ossia la parziale difformità delle opere realizzate. In materia urbanistico-edilizia il concetto di parziale difformità presuppone che un determinato intervento costruttivo, pur se contemplato dal titolo autorizzatorio rilasciato dall’autorità amministrativa, venga realizzato secondo modalità diverse da quelle previste e autorizzate a livello progettuale, quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzano in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera (Cons. Stato Sez. VI, 30/06/2022, n. 5423).
Nel caso di specie, dal giudizio di merito (che comprende 1 ATP, 1 CTU seguita da due integrazioni, nonché la relazione dei tecnici comunali che avrebbe poi portato all’ordinanza di demolizione dei manufatti abusivi) è emersa la totale difformità delle opere realizzate, come emerge del resto dalla motivazione della Corte distrettuale sopra riportata (v. p. 10 sentenza).
3. Con il terzo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1453 cod. civ. ss., nonché della legge n. 1086/71 (art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ.), in ordine alla responsabilità del Direttore dei lavori e progettista per la risarcibilità del danno. Il ricorrente contesta l’esclusione della responsabilità contrattuale ascrivibile al progettista e Direttore dei lavori, sul presupposto della nullità del contratto per illiceità della causa. Più precisamente: il ricorrente rileva la contraddittorietà del ragionamento svolto in sentenza laddove si deduce che, poiché dall’argomentazione del giudice di prime cure e dalle risultanze delle consulenze tecniche
d’ufficio non si può ricavare che nella progettazione dovessero già prefigurarsi le opere abusive, allora non si possono neanche imputare al progettista opere realizzate in assenza di concessione edilizia.
3.1. Anche il terzo motivo è infondato.
La sentenza è conforme all’insegnamento di questa Corte secondo il quale non è configurabile una responsabilità contrattuale dell’appaltatore nei confronti del committente per negligenza nell’adempimento di obbligazioni che solo da un negozio valido e produttivo di effetti possono sorgere. La nullità del contratto elide in radice la configurabilità di un inesatto adempimento delle obbligazioni quando la causa della nullità sia addebitabile al committente (cfr. Cass., Sez. III, 23 giugno 2016, n. 12996; Cass. n. 7961 del 2016, cit.; Cass. n. 13969 del 2011, cit.).
Infatti, la eventuale inosservanza degli obblighi di esecuzione della prestazione non può essere posta a base di azioni contrattuali del committente, come quella risarcitoria per inesatto adempimento, essendo questi partecipe della violazione delle norme che hanno dato causa alla nullità del contratto e non potendo dolersi dell ‘ inesatta prestazione contrattuale in violazione di norme di ordine pubblico cui scientemente ha dato causa.
3.2. Nel caso concreto, la Corte territoriale ha anche riscontrato l’incertezza dell’impegno negoziale assunto da NOME COGNOME al quale -a distanza di soli due mesi dall’inizio dei lavori lo stesso committente sembrava aver revocato l’incarico.
Con il quarto motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1227 cod. civ. (art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ.), in ordine alla responsabilità assorbente del COGNOME. Osserva il ricorrente che mentre il giudice di prime cure aveva limitato il ristoro del danno a favore del committente alle sole opere assentite, la Corte d’appello –
sull’assunto che il committente abbia contribuito a cagionare il danno -considera quest’ultimo responsabile dell’esecuzione delle opere non concessionate, sino ad escludere completamente ogni pretesa risarcitoria a suo favore.
4.1. Il motivo è infondato.
Oltre a quanto argomentato al punto 3.1., è opportuno precisare che ai sensi dell’art. 11 del d.P.R. n. 380/2001, «il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo: pertanto, rientra tra i doveri della committenza quello di ottenere tutti i provvedimenti amministrativi necessari per l’esecuzione dell’opera appaltata, e incombe al titolare della concessione edilizia e al committente l’obbligo giuridico del rispetto della normativa sulle concessioni, ai sensi dell’art. 6, comma 1, L. n. 47/1985 (ora art. 29, comma 1, D.P.R. n. 380/2001)».
In definitiva, il Collegio rigetta il ricorso.
Le spese sono liquidate in dispositivo secondo la regola della soccombenza.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013, stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis , del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso;
condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore del controricorrente, che liquida in €. 5.000,00
per compensi, oltre ad €. 200,00 per esborsi e agli accessori di legge nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis , del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda