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Nesso di causalità: l’onere della prova nei derivati

Un’azienda ha citato in giudizio una banca per la nullità di un contratto derivato (IRS) e per l’applicazione di interessi usurari. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione di merito, rigettando la richiesta di risarcimento danni per il fallimento dell’impresa. La Suprema Corte ha stabilito che spetta al cliente dimostrare in modo specifico il nesso di causalità tra gli addebiti illegittimi derivanti dal contratto nullo e il conseguente tracollo finanziario, non essendo sufficiente la sola declaratoria di nullità. La Corte ha inoltre ritenuto legittima la compensazione tra il credito del cliente e il debito accertato sul conto corrente.

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Nesso di Causalità e Derivati: la Prova del Danno Spetta al Cliente

Quando un contratto derivato viene dichiarato nullo, l’azienda ha automaticamente diritto al risarcimento per il proprio fallimento? La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, ha chiarito un punto fondamentale: la declaratoria di nullità non basta. È onere del cliente dimostrare con precisione il nesso di causalità tra gli addebiti illegittimi subiti e il tracollo dell’attività. Analizziamo insieme questa importante decisione.

I Fatti di Causa

Una società e i suoi fideiussori convenivano in giudizio un istituto di credito chiedendo la nullità di un contratto derivato “Interest Rate Swap” (IRS) e la declaratoria di nullità per l’applicazione di interessi usurari su un contratto di conto corrente.
Il Tribunale di primo grado rigettava le domande. La Corte d’Appello, invece, riformava parzialmente la sentenza: dichiarava la nullità del contratto IRS per mancata informazione sugli elementi essenziali (costi impliciti e scenari probabilistici) e condannava la banca a restituire i flussi negativi, pari a circa 36.000 euro. Rettificava inoltre il saldo del conto corrente per circa 1.800 euro.
Tuttavia, la Corte territoriale rigettava la domanda di risarcimento per i danni subiti dall’azienda (il suo tracollo), ritenendo non provato il nesso di causalità tra gli addebiti illegittimi e la crisi aziendale. La società proponeva quindi ricorso per Cassazione.

I Motivi del Ricorso in Cassazione

I ricorrenti basavano il loro appello su tre motivi principali:
1. Omesso esame di un fatto decisivo: secondo i ricorrenti, la Corte d’Appello non avrebbe considerato che la risoluzione di un contratto di leasing, fondamentale per l’attività, era stata causata proprio dal mancato pagamento delle rate, a sua volta dovuto agli addebiti illegittimi derivanti dal contratto IRS nullo. Questo fatto, se esaminato, avrebbe provato il nesso di causalità.
2. Violazione del principio di non contestazione: si sosteneva che la banca non avesse mai specificamente contestato che le perdite subite a causa del derivato avessero sottratto le risorse necessarie per pagare le rate del leasing. Tale circostanza, quindi, doveva essere considerata come provata.
3. Errata applicazione della compensazione: I ricorrenti contestavano la compensazione operata dalla Corte tra il loro credito (derivante dalla nullità dell’IRS) e il debito vantato dalla banca sul conto corrente, sostenendo che quest’ultimo non fosse un credito certo, liquido ed esigibile.

Le Motivazioni della Cassazione sul nesso di causalità

La Suprema Corte ha rigettato tutti i motivi del ricorso. In particolare, ha unito l’analisi dei primi due punti, centrali per la questione del nesso di causalità. La Corte ha osservato che la decisione d’appello era ben motivata. I giudici di merito avevano valutato l’entità degli addebiti illegittimi (complessivamente circa 38.000 euro) come “relativamente modesti” se confrontati con un’operazione imprenditoriale che includeva un leasing immobiliare da 400.000 euro, e per di più ripartiti su un arco temporale di cinque anni.
Di conseguenza, la Corte d’Appello aveva legittimamente concluso che non vi fosse una prova sufficiente del legame diretto tra quegli addebiti e il tracollo dell’intera attività. La Cassazione ha ribadito che l’onere di provare la sussistenza di tale nesso grava su chi chiede il risarcimento. Una generica allegazione dei danni non è sufficiente e non fa scattare l’obbligo per la controparte di una contestazione circostanziata. Anche il motivo sulla compensazione è stato ritenuto infondato, poiché il credito della banca era stato accertato tramite una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU) nel corso del giudizio, rendendolo quindi certo e liquido.

Le Conclusioni

Questa ordinanza offre un’importante lezione pratica per imprese e professionisti. La semplice declaratoria di nullità di uno strumento finanziario non garantisce il risarcimento per i danni conseguenti, come la crisi d’impresa. È indispensabile che il cliente fornisca in giudizio prove concrete e specifiche che dimostrino come gli importi illegittimamente addebitati siano stati la causa diretta ed determinante della difficoltà finanziaria e del successivo danno. La valutazione del giudice si baserà su un’analisi proporzionale tra l’entità del pregiudizio economico subito a causa dell’illegittimità e la dimensione complessiva dell’attività imprenditoriale. Senza questa prova rigorosa del nesso di causalità, la richiesta di risarcimento danni è destinata ad essere respinta.

Chi deve provare il nesso di causalità tra gli addebiti illegittimi della banca e il fallimento dell’azienda?
Secondo questa ordinanza, l’onere della prova grava interamente sul cliente che agisce in giudizio. È la società a dover dimostrare in modo specifico e circostanziato che gli addebiti illegittimi sono stati la causa diretta del proprio tracollo finanziario.

La nullità di un contratto derivato dà automaticamente diritto al risarcimento per il fallimento dell’impresa?
No. La decisione chiarisce che non vi è alcun automatismo. Anche se un contratto viene dichiarato nullo e la banca condannata a restituire delle somme, il risarcimento per danni ulteriori (come la crisi aziendale) viene concesso solo se il cliente prova il nesso causale diretto tra le perdite subite e il danno lamentato. Il giudice può ritenere le somme addebitate ‘modeste’ rispetto all’attività economica complessiva e quindi insufficienti a causare il fallimento.

È possibile compensare un credito verso la banca con un debito se il saldo del conto corrente è contestato?
Sì, è possibile. La Corte ha stabilito che se il debito del cliente verso la banca (ad esempio, il saldo negativo di un conto corrente) viene accertato e quantificato nel corso del processo, ad esempio tramite una perizia tecnica (CTU), esso diventa un credito certo e liquido. Pertanto, può essere legittimamente utilizzato dalla banca in compensazione per estinguere, in tutto o in parte, il credito del cliente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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