Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 6637 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 6637 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 13/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 16135/2021 R.G. proposto
da
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore ed elettivamente domiciliata in Roma INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati RAGIONE_SOCIALE COGNOME NOME e COGNOME NOME
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore ed elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO
Oggetto:
Contratti
bancari
–
Mutuo fondiario
– Clausola multicurrency
R.G.N. 16135/2021
Ud. 26/02/2025 CC
17, presso lo studio dell’avvocato COGNOME che l a rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME
-controricorrente – avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO ROMA n. 6481/2020 depositata il 17/12/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 26/02/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza n. 6481/2020, pubblicata in data 17 dicembre 2020 , la Corte d’appello di Roma, nella regolare costituzione dell’appellata RAGIONE_SOCIALE ha respinto l’appello proposto da RAGIONE_SOCIALE avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 5388/14, pubblicata in data 7 marzo 2014.
Quest’ultima , a propria volta, aveva respinto la domanda della stessa RAGIONE_SOCIALE volta a conseguire la condanna di RAGIONE_SOCIALE alla restituzione della somma di € 15.240.321,00, oltre interessi e d al risarcimento del maggior danno ex art. 1224, secondo comma, c.c.
Detta somma, secondo l’attrice, era costituita dalla differenza tra l’importo di € 34.796.679,00 erogato a titolo di capitale in forza di ventisette contratti di mutuo fondiario stipulati tra San Paolo S.p.A. (poi Sanpaolo RAGIONE_SOCIALE, a propria volta incorporata in RAGIONE_SOCIALE e le società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE (dei cui diritti la RAGIONE_SOCIALE si era resa cessionaria), da una parte, e l’importo restituito per il medesimo titolo, pari ad € 50.033.000,00, dall’altra.
I contratti in questione prevedevano la facoltà per il mutuatario di indicare periodicamente al mutuante la moneta da utilizzare per la provvista (clausola c.d. ‘multicurrency’) .
Secondo l’odierna ricorrente, in particolare, le pattuizioni tra le parti prevedevano che la Banca mutuante si procurasse la provvista delle somme mutuate in divisa estera, acquistandola sul mercato estero per poi addebitarne il costo alla mutuataria.
Aveva dedotto la ricorrente che, invece, l’odierna controricorrente , malgrado l’espressa richiesta, non aveva dimostrato di aver negoziato effettivamente la valuta estera, acquistandola e rivendendola sul mercato.
Aveva pertanto dedotto che, in assenza della prova dell’adempimento dell’impegno contrattuale di acquisto e rivendita di valuta estera, la banca era tenuta a restituire l’eccedenza tra il capitale oggetto di mutuo e la maggior somma restituita a titolo di capitale.
Il giudice di prime cure aveva respinto la domanda escludendo che dall’interpretazione delle clausole contrattuali emergessero in capo alla banca mutuante obblighi di rendiconto propri del mandatario e ritenendo che le medesime clausole venissero invece a connotare di aleatorietà i contratti, prevedendo la facoltà del mutuatario di convertire la valuta, originariamente prescelta, in altra valuta, assumendosene i rischi.
Aveva pertanto escluso che sulla convenuta gravasse l’onere di dimostrare di avere adempiuto l’obbligo assunto di procurare la provvista in valuta estera acquistandola sul mercato per poi rivenderla in occasione della restituzione del capitale, secondo le indicazioni del mutuatario.
Esaminando l’unico motivo di appello col quale veniva censurata la ricostruzione interpretativa seguita dal giudice di prime cure -la Corte capitolina ha ritenuto di condividere le conclusioni cui era pervenuto il tribunale, osservando, in particolare che dalle clausole del contratto e dell’atto di erogazione emergeva che l’intenzione dei contraenti era stata quella di addossare alla parte mutuataria l’eventualità che il valore di conversione in euro della divisa prescelta potesse subire decrementi o incrementi, riducendo o aumentando di conseguenza il controvalore del debito residuo dovute al cambio della valuta scelta dalla stessa parte mutuataria.
La Corte d’appello ha parimenti ritenuto che fosse e sclusa l’esistenza di un obbligo di rendiconto in capo alla banca mutuante, in quanto tale obbligo non era previsto in alcuna delle clausole negoziali con la conseguenza per cui non poteva trovare accoglimento la pretesa restitutoria avanzata dall’appellante, in quanto ‘fondata sulla mera allegazione dell’inadempimento della banca mutuante dell’obbligo di acquistare la valuta estera per reperire la provvista e sulla generica asserzione che la stessa si sarebbe limitata a speculare sul cambio, addebitandole i costi, in tal modo causando un incremento del capitale rimborsato non dovuto’ , laddove la regola di distribuzione degli oneri probatori operante per l’azione di ripetizione di indebito avrebbe imposto all’appellante medesima di provare che l’importo restituito in eccedenza rispetto al capitale mutuato aveva carattere indebito.
Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Roma ricorre RAGIONE_SOCIALE
Resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma degli artt. 375, secondo comma, e 380bis .1, c.p.c.
Le parti hanno depositato memorie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è affidato a tre motivi.
1.1. Con il primo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, c.p.c., la ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 132 cod. pro. civ., degli artt. 1362 e ss. cod. civ. e dell’art. 115 cod. proc. civ. ‘ .
La ricorrente deduce che la decisione impugnata si baserebbe su una motivazione meramente per relationem e non su un autonomo processo deliberativo, esaurendosi nella generica condivisione delle argomentazioni svolte dalla sentenza di primo grado.
Ulteriormente, la ricorrente censura l’interpretazione delle clausole contrattuali adottata dalla decisione impugnata e, riproducendone il tenore, evidenzia che la decisione impugnata si sarebbe erroneamente concentrata sul profilo dell’individuazione del contraente sul quale doveva ricadere il rischio legato alla valuta prescelta, laddove il profilo rilevante e dedotto dalla ricorrente era quello di individuare quali fossero gli obblighi discendenti dal contratto concretamente posto in essere tra le parti e di stabilire se tali obblighi fossero stati effettivamente rispettati dalla controricorrente, avendo essa ricorrente dedotto in giudizio il mancato adempimento dell’obbligo assunto dalla banca mutuante di acquistare valuta estera per costituire la provvista della somma data a mutuo.
Argomenta, in ogni caso, che la corretta applicazione delle regole di interpretazione dei contratti palesa l’errore della decisione impugnata nell’affermare che ‘il mutuo era ancorato al corso del cambio tra la valuta nazionale e la valuta estera, come se le parti
avessero pattuito una sorta di mera indicizzazione, giacché i patti contrattuali, correttamente interpretati, dicono tutt’altro: la banca mutuante si impegnava a procurare la valuta estera (indicata dal mutuatario) al momento della erogazione ed a vendere tale valuta estera al momento della restituzione’ .
Deduce, pertanto, che ‘secondo l’architettura negoziale disegnata dalle parti, l’assunzione del rischio di cambio presupponeva l’adempimento da parte della banca mutuante dell’obbligo di acquistare la valuta estera al momento della erogazione’ , con la conseguenza che solo il rispetto di tale obbligo poteva giustificare la pretesa della banca mutuante di ottenere, al momento della estinzione del mutuo, il rimborso del capitale corrispondente alla rivendita della valuta estera acquistata dalla banca in esecuzione del mandato.
La ricorrente censura ulteriormente l’interpretazione seguita dalla decisione impugnata, argomentando che la stessa avrebbe radicalmente omesso di ricorrere al criterio costituito dal comportamento delle parti successivo alla conclusione del contratto, sebbene tale comportamento fosse stato pienamente ricostruito da un accertamento tecnico preventivo svolto prima dell’istaurazione del giudizio, il quale aveva evidenziato che sino all’anno 1996 l’odierna controricorrente aveva operato nei termini esatti che avrebbero costituito esatta esecuzione del contratto, mentre in epoca successiva aveva omesso anche di dare prova di aver conservato tale condotta.
1.2. Con il secondo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, c.p.c., la ‘v iolazione e falsa applicazione degli artt. 1374 e 1375 c.c. e degli artt. 112 e 132 c.p.c .’ .
La ricorrente censura ulteriormente la decisione impugnata, deducendo che quest’ultima avrebbe adottato una motivazione
apparente nell’escludere un inadempimento della controricorrente, limitandosi a richiamare le considerazioni spese dal giudice di prime cure ed omettendo di considerare che le deduzioni della stessa ricorrente concernevano non il mancato rispetto di un obbligo di rendiconto, quanto la violazione de ll’obbligo esplicito di acquistare la valuta estera.
Argomenta, ulteriormente, che tale obbligo, oltre ad essere desumibile dalle clausole del contratto, trovava anche fonte nel combinato disposto di cui agli artt. 1374 e 1375 c.c. e che nell’escludere l’inadempimento dello stesso, la Corte d’appello avrebbe negletto le evidenze documentali.
1.3. Con il terzo motivo il ricorso deduce la ‘v iolazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2697 cod. civ. e dell’art. 115 cod. proc. civ. ‘ .
Il ricorso, infine, censura la decisione impugnata, per avere la stessa escluso l’inadempimento della controricorrente, affermando che la stessa ricorrente non aveva fornito adeguata prova delle proprie allegazioni.
Deduce la violazione degli artt. 1281 e 2697 c.c., argomentando che, avendo dedotto l’inadempimento della controricorrente sarebbe stata quest’ultima a dover dimostrare di aver esattamente adempiuto, anche alla luce del c.d. principio di vicinanza della prova.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
2.1. Il motivo, invero, viene a sollevare due profili eterogenei, tuttavia distinti ed argomentati separatamente, costituiti, il primo, dal vizio che affliggerebbe la motivazione impugnata in quanto articolata meramente per relationem e, il secondo, dalla violazione delle regole di interpretazione dei contratti.
Non si può non evidenziare che i due profili sono logicamente incompatibili , ponendosi un’evidente alternativa : o la motivazione della Corte territoriale è da ritenersi nulla per essere sviluppata solo per relationem – ed allora, evidentemente, non potrebbe neppure porsi un problema di corretta interpretazione delle clausole contrattuali – oppure tale problema viene a porsi proprio in ragione del carattere non viziato della motivazione.
2.2. Quanto al primo profilo, le deduzioni della ricorrente risultano infondate.
Questa Corte ha reiteratamente affermato il principio per cui la validità della sentenza la cui motivazione sia redatta per relationem presuppone che la motivazione stessa resti autosufficiente, riproducendo i contenuti mutuati e rendendoli oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto della diversa causa, in modo da consentire la verifica della sua compatibilità logico-giuridica, mentre deve ritenersi nulla, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., la sentenza che si limiti alla mera indicazione dell’esistenza del provvedimento richiamato, senza esporne il contenuto e senza compiere alcun apprezzamento delle argomentazioni assunte nell’altro giudizio e della loro pertinenza e decisività rispetto ai temi dibattuti dalle parti, così rendendo impossibile l’individuazione delle ragioni poste a fondamento del dispositivo (Cass. Sez. 6 -2, Ordinanza n. 459 del 10/01/2022).
Se, infatti, al giudice di appello non è imposta l’originalità né dei contenuti né delle modalità espositive -sicché lo stesso ben può aderire alla motivazione della statuizione impugnata ove la condivida, senza necessità di ripeterne tutti gli argomenti o di rinvenirne altri- è tuttavia vero che la condivisione della motivazione deve comunque essere raggiunta attraverso una autonoma valutazione critica, che
deve emergere, sia pure in modo sintetico, dal testo della decisione (Cass. Sez. L – Ordinanza n. 28139 del 05/11/2018; Cass. Sez. 6 Ordinanza n. 15884 del 26/06/2017; Sez. 6 – 5 Ordinanza n. 5209 del 06/03/2018), mentre risulta viziata la decisione con cui il giudice si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (Cass. Sez. L – Ordinanza n. 28139 del 05/11/2018; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 14786 del 19/07/2016).
Nel caso in esame, tuttavia, non può ritenersi che la motivazione della Corte territoriale si sia limitata ad un mero richiamo acritico per relationem alle valutazioni del giudice di prime cure in quanto, nell’operare detto richiamo, la Corte non ha espresso un a generica ed immotivata adesione, ma ha comunque proceduto ad un autonomo vaglio della decisione di primo grado, operando altresì una distinta individuazione e valutazione dei motivi di gravame, ed ha conservato appieno il carattere dell’autosufficienza, restando, conseguentemente, immune dal vizio denunciato.
2.3. Quanto al secondo profilo, invece, non può che richiamarsi il costante orientamento di questa Corte, la quale ha chiarito che l’interpretazione del contratto, traducendosi in una operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in una indagine di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in cassazione, oltre che per violazione delle regole ermeneutiche, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., anche nell’ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. L – Sentenza n. 10745 del 04/04/2022) e che il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli
artt. 1362 e ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (Cass. Sez. 1 – Ordinanza n. 9461 del 09/04/2021; Cass. Sez. 1 – Ordinanza n. 27136 del 15/11/2017).
Onere, quest’ultimo, che discende dalla fondamentale considerazione per cui l’interpretazione accolta nella decisione impugnata non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. Sez. 3 – Sentenza n. 28319 del 28/11/2017).
Ebbene, tornando al caso in esame si deve constatare che, per quanto la ricorrente abbia cercato di dimostrare in modo argomentato il carattere assolutamente erroneo del l’interpretazione adottata dalla decisione impugnata -sforzo, questo, che evita al motivo la radicale declaratoria di inammissibilità -si deve nondimeno constatare che tale sforzo non vale a raggiungere il risultato di dimostrare che il traguardo ermeneutico conseguito dalla decisione impugnata si caratterizzi per assoluta illogicità e contrasto con i canoni di interpretazione dei contratti, risultando, invece, tale interpretazione
comunque plausibile, con la conseguenza che il motivo di ricorso si limita unicamente a contrapporre una scelta interpretativa ad un’altra e risulta, conseguentemente, infondato.
Il secondo motivo di ricorso risulta, invece, in parte inammissibile ed in parte infondato.
3.1. Anche in questo caso si deve rilevare che il motivo solleva due distinti temi, e cioè quello della nullità della motivazione in quanto apparente e (ancora una volta) per relationem , da un lato, e quello della violazione degli artt. 1374 e 1375 c.c., dall’altro .
3.2. Il primo tema, nella parte riferita al vizio di motivazione per relationem , può ritenersi già esaustivamente trattato in sede di esame del primo motivo, potendosi qui unicamente richiamare quanto precedentemente osservato.
Quanto al carattere apparente della motivazione non può che rammentarsi che è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si sia tramutata in violazione di legge costituzionalmente rilevante, esaurendosi detta anomalia nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 e, da ultimo, Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 7090 del 03/03/2022), risultando invece escluso dall’ambito del vizio ogni profilo relativo sia alla “sufficienza” della motivazione sia alla razionalità della motivazione sulle quaestiones facti , implicante un raffronto tra le ragioni del decidere adottate ed espresse nella sentenza impugnata e le risultanze del materiale probatorio sottoposto al vaglio del giudice di merito.
Nessuna delle carenze estreme appena richiamate risulta ravvisabile nella motivazione della decisione impugnata, la quale espone il proprio percorso argomentativo in modo sintetico ma comunque completo ed immune da affermazioni reciprocamente inconciliabili, di talché risulta inevitabile constatare che le doglianze della ricorrente si sostanziano in una critica del merito della decisione.
3.3. Il secondo profilo dedotto, invece, si caratterizza per una radicale inammissibilità.
Rammentato che:
il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c., non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione. (Cass. Sez. 1 -Ordinanza n. 16700 del 05/08/2020; Cass. Sez. 1 – Sentenza n. 24298 del 29/11/2016);
il ricorrente, quindi, a pena d’inammissibilità della censura, ha l’onere di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a
richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass. Sez. U Sentenza n. 23745 del 28/10/2020);
si deve constatare che il motivo di ricorso si limita nello specifico ad un anodino richiamo agli artt. 1374 e 1375 c.c. senza in alcun modo specificare né se tali profili fossero stati concretamente dedotti nel gravame innanzi alla Corte capitolina né quali fonti di integrazione del contratto siano state concretamente neglette dalla decisione impugnata.
Ciò comporta, in primo luogo, che, dal momento che la controricorrente ha eccepito la novità del profilo e che parte ricorrente non ha dedotto di averlo sollevato nei precedenti gradi di giudizio, individuando, in ossequio all’art. 366 c.p.c., l’atto o gli atti nei quali sarebbe avvenuta tale deduzione, deve trovare applicazione il principio, reiteratamente enunciato da questa Corte, per cui qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio (Cass. Sez. L – Ordinanza n. 18018 del 01/07/2024; Cass. Sez. 2 – Sentenza n. 20694 del 09/08/2018; ed anche Cass. Sez. 2 –
Ordinanza n. 2193 del 30/01/2020; Cass. Sez. 2 – Sentenza n. 14477 del 06/06/2018; Cass. Sez. 6 -1, Ordinanza n. 15430 del 13/06/2018; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 23675 del 18/10/2013).
Ma ciò, comporta, ulteriormente, l’inammissibilità del motivo per radicale carenza di specificità e trasgressione dell’art. 366 c.p.c., limitandosi il motivo ad una serie di deduzioni quanto mai generiche e del tutto inidonee ad argomentare in che modo la decisione impugnata si sarebbe posta in conflitto con il contenuto precettivo delle norme invocate.
4. Inammissibile, infine, è il terzo motivo.
Lo stesso si impernia sull’affermazione per cui la Corte d’appello avrebbe operato un inadeguato governo della regola di distribuzione degli oneri probatori in tema di inadempimento contrattuale, censura che, peraltro, compare anche nei precedenti motivi di ricorso e che è opportuno esaminare in questa sede finale.
Tuttavia, esso, in tal modo, si pone in diretto conflitto con quella che è la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale ha qualificato la domanda dell’odierna ricorrente come azione per la ripetizione di indebito, applicando, quindi -ed in modo conforme alla giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. 3 – Ordinanza n. 34427 del 23/11/2022; Cass. Sez. 3 – Sentenza n. 11294 del 12/06/2020; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 7501 del 14/05/2012) -il principio per cui è chi agisce ex art. 2033 c.c. a dover provare la sussistenza dei presupposti per la ripetizione.
Tale essendo la ratio adottata dalla Corte capitolina, sarebbe stato onere della ricorrente, prima ancora di formulare la censura ora in esame, quello di censurare la qualificazione della domanda adottata dal giudice di merito, deducendo -nel rispetto del canone di specificità di cui all’art. 366 c.p.c. di aver formulato invece una
domanda di risarcimento danni da inadempimento, domanda effettivamente sorretta dal ben diverso regime probatorio stabilito da questa Corte, a partire da Cass. Cass. Sez. U, Sentenza n. 13533 del 30/10/2001.
La ricorrente, invece, non ha in alcun modo specificato le domande formulate in sede di prime cure, limitandosi ad un mero richiamo all’originaria citazione -come tale non rispettoso dell’art. 366 c.p.c. – e reiterando tale sommaria ricostruzione anche nella memoria ex art. 380bis. 1 c.p.c. ma incontrando le contestazioni della controricorrente, la quale, invece, nega che l’originaria domanda fosse impostata come domanda di risarcimento danni da inadempimento.
Ne consegue che, non essendo adeguatamente censurata la qualificazione della domanda operata dal giudice di merito, risulta inevitabile concludere nel senso dell’inammissibilità del motivo , proprio perché lo stesso non si confronta adeguatamente con la ratio decidendi.
Il ricorso deve quindi essere respinto, con conseguente condanna della ricorrente alla rifusione in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate direttamente in dispositivo.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto” , spettando all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause
originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento (Cass. Sez. U, Sentenza n. 4315 del 20/02/2020).
P. Q. M.
La Corte, rigetta il ricorso.
condanna la ricorrente a rifondere alla controricorrente le spese del giudizio di Cassazione, che liquida in € 10.200,00 , di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima