Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 253 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 253 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 07/01/2025
Oggetto: Risoluzione per inadempimento – Risoluzione per mutuo dissenso – Domanda.
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26546/2019 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio del dottor NOME COGNOME
-ricorrente – contro
NOME e COGNOME NOME.
-intimati – avverso la sentenza n. 1354 della Corte d’Appello di Bari, depositata il 12/06/2019 e notificata il 14/06/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 8
novembre 2024 dalla dott.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
Con atto di citazione notificato il 04/07/2003, i coniugi COGNOME NOME e COGNOME NOMECOGNOME premesso di aver sottoscritto, in data
19/03/2000, con il legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE un contratto preliminare, avente ad oggetto l’acquisto di immobile ad uso abitativo al prezzo di complessive lire 290 milioni da corrispondere in più tranches, che la consegna sarebbe dovuta avvenire entro e non oltre il 31/12/2000, e che, nonostante il loro puntuale adempimento, la promittente venditrice non aveva eseguito i lavori secondo il disciplinare tecnico allegato al contratto, né aveva mai comunicato l’avvenuta ultimazione dei lavori, chiesero che venisse disposto il trasferimento dell’immobile promesso in vendita ex art. 2932 cod. civ., che venisse ordinata al legale rappresentante la consegna della documentazione relativa all’accatastamento e al certificato di abitabilità, che venisse accertata l’omessa realizzazione dei lavori a regola d’arte con obbligo della società di realizzare gli opportuni accorgimenti e che quest’ultima venisse altresì condannata al risarcimento dei danni subiti nella misura di € 40.000,00 o di altra somma maggiore o minore risultante in corso di causa.
Costituitasi in giudizio, la società RAGIONE_SOCIALE eccepì di aver realizzato, su indicazione dei promissari acquirenti, ulteriori lavori che avevano aumentato la spesa, che, al momento fissato per la consegna, questi avevano chiesto un differimento per la stipula del definitivo in quanto sprovvisti dei necessari mezzi finanziari e che soltanto invitati alla conclusione del contratto definitivo avevano opposto, per la prima volta, la sussistenza di gravi ed insanabili difformità, chiedendo, dunque, il rigetto della domanda.
Con successivo atto di citazione, notificato il 20/8/2004, la società RAGIONE_SOCIALE convenne in giudizio i promissari acquirenti, onde ottenere la risoluzione del contratto per loro inadempimento e la condanna degli stessi al pagamento della penale pattuita, nonché al risarcimento dei danni.
Costituitisi in giudizio, i convenuti chiesero la riunione del procedimento con quello precedentemente da essi incardinato e la reiezione della domanda.
Riuniti i due procedimenti, i coniugi COGNOME chiesero, in sede di precisazione delle conclusioni, la risoluzione del contratto.
Con sentenza n. 4046/2015, pubblicata il 24/9/2015, il Tribunale di Bari accolse la domanda proposta da COGNOME NOME e COGNOME NOMECOGNOME dichiarando la risoluzione del contratto preliminare per inadempimento della convenuta e condannò quest’ultima al pagamento della somma di euro 46.481,12, rigettando la domanda proposta dalla stessa.
Il giudizio di gravame, instaurato dalla società con atto di citazione del 6/11/2015, si concluse, nella resistenza degli appellati, con la sentenza n. 1354/2019, pubblicata il 12/6/2019, con la quale la Corte d’Appello di Bari accolse l’appello per quanto di ragione e, in riforma della sentenza appellata, dichiarò inammissibile la domanda di risoluzione proposta dagli appellati COGNOME, rigettò la domanda di risoluzione contrattuale proposta dalla società e dichiarò risolto per mutuo dissenso il contratto preliminare di compravendita, con obbligo della società di restituire alle controparti una somma di euro 25.822,84, con gli interessi legali decorrenti dalla domanda di risoluzione contrattuale dagli stessi avanzata.
Per quanto qui interessa, i giudici di merito ritennero di poter decidere sulla base degli accertamenti compiuti dal c.t.u. in ordine alle difformità urbanistiche riscontrate nell’immobile, ancorché al di fuori dei quesiti sottopostigli, ritennero inammissibile perché tardiva la domanda di risoluzione proposta dagli originari attori con la comparsa conclusionale siccome fondata su fatti diversi da quelli fatti valere con gli atti introduttivi, esclusero che le opere eseguite costituissero abusi minori, che, in assenza di concessione in
sanatoria, potesse darsi luogo alla stipula del contratto definitivo di compravendita e che, di conseguenza, fosse fondata la domanda di risoluzione proposta dalla società appellante, e affermarono che le parti, con le reciproche domande di risoluzione, avessero manifestato la volontà di sciogliere il contratto, rispetto al quale sussistevano i presupposti per la risoluzione per mutuo dissenso e obbligo della società di restituire le somme percepite in esecuzione del contratto.
Contro la predetta sentenza, la RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione, affidato a sei motivi. COGNOME NOME e COGNOME NOME sono rimasti intimati.
Considerato che :
Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., con riferimento all’art. 156 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., perché i giudici di merito, nonostante avessero dichiarato l’inammissibilità della domanda di risoluzione proposta dai coniugi COGNOME in sede di comparsa conclusionale in ragione dell’accertata sussistenza di abusi edilizi in quanto costituente mutatio libelli , avevano rigettato la loro domanda di risoluzione, sulla base proprio della consulenza tecnica d’ufficio acquisita nel processo da essi incardinato che avrebbe dovuto, invece, essere travolta dalla pronuncia di inammissibilità.
Col secondo motivo, si lamenta la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., con riferimento all’art. 195 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., perché i giudici di merito avevano omesso di pronunciarsi sul motivo col quale la società aveva lamentato la violazione del diritto di difesa, per non avere il c.t.u. inviato al proprio c.t.p. la bozza della relazione.
Con il terzo motivo di ricorso, si lamenta la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc.
civ., per avere i giudici di merito posto a base della decisione di rigetto della domanda di risoluzione proposta dalla società prove di abusivismo edilizio non dedotte dalle parti e totalmente estranee all’oggetto del giudizio e agli stessi quesiti sottoposti al c.t.u. nel procedimento n. 226 r.g. 2003, oltreché non accertate neppure in sede di consulenza tecnica, che aveva stabilito la conformità alla concessione edilizia delle opere stesse, sebbene la stessa, a causa della contraddittorietà di alcuni passaggi, avrebbe dovuto essere soggetta a esame critico.
Con il quarto motivo di ricorso, si lamenta la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito respinto il quarto motivo d’appello sulla base di fatti (quelli afferenti all’abuso edilizio) dagli stessi riconosciuti come mai dedotti dalle parti, né accertati nel contraddittorio processuale e nemmeno mediante consulenza tecnica d’ufficio, peraltro non costituente mezzo di prova.
Con il quinto motivo di ricorso, si lamenta la violazione dell’art. 112, cod. proc. civ., con riferimento all’art. 277 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., per avere la Corte d’Appello dichiarato risolto per mutuo dissenso il contratto preliminare di compravendita del 19/03/2000, con obbligo della società di restituire a COGNOME NOME e a COGNOME Flora la somma di € 25.822,84, senza che questi ultimi avessero formulato alcuna domanda di risoluzione, essendo stata quella proposta dichiarata inammissibile dalla stessa Corte, con conseguente nullità della decisione per violazione del divieto di ultra petizione.
Con il sesto motivo di ricorso, subordinato al rigetto del precedente motivo, si lamenta, infine, la violazione degli artt. 1453 e 1458 cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito pronunciato la risoluzione del contratto per mutuo dissenso in assenza dei presupposti di legge, essendo stata
dichiarata inammissibile la domanda di risoluzione proposta dai coniugi COGNOME
7.1 Il primo, secondo, terzo e quarto motivo, da trattare congiuntamente in quanto afferenti al medesimo thema decidendum relativo alla validità della consulenza tecnica d’ufficio, ora affrontata in termini di nullità della stessa per non essere stata considerata travolta dalla declaratoria di inammissibilità della domanda di risoluzione proposta dagli originari attori, ora di violazione del contraddittorio per non essere stata esaminata la questione dell’omessa trasmissione della bozza ai c.t.p., ora di reputata sussistenza della prova di abusivismo edilizio, pur non dedotto dalle parti e pur accertato dal c.t.u. in assenza di quesiti al riguardo, sono tutti manifestamente infondati.
Quanto alla prima questione, occorre partire dall’iniziale domanda proposta dai coniugi COGNOME la quale aveva ad oggetto la pronuncia di adempimento del contratto preliminare ai sensi dell’art. 2392 cod. civ., modificata in azione di risoluzione per inadempimento della controparte con la comparsa conclusionale e dichiarata inammissibile dalla Corte d’Appello in quanto costituente mutatio libelli , con pronuncia non impugnata e dunque ormai passata in giudicato, cui si contrapponeva l’opposta domanda della società di risoluzione del contratto, avanzata in diverso procedimento riunito al primo.
Orbene, la pretesa della ricorrente di inammissibilità della consulenza tecnica che doveva accertare lo stato dell’immobile e le difformità rispetto a quanto pattuito dalle parti nell’ottica di determinare e quantificare l’eventuale riduzione del prezzo e gli accorgimenti da adottare al fine di eliminare i vizi dell’immobile compromesso – per effetto della declaratoria di inammissibilità della modifica della domanda attorea, si scontra col principio di acquisizione della prova derivante, nel sistema processualcivilistico
vigente, principalmente dalla costituzionalizzazione del principio del giusto processo, in forza del quale un elemento probatorio, una volta introdotto nel processo e in qualunque modo ottenuto, è definitivamente acquisito alla causa e non può più esserle sottratto, dovendo il giudice utilizzare le prove raccolte indipendentemente dalla provenienza delle stesse dalla parte gravata dell’onere probatorio, concorrendo tutte alla formazione del suo libero convincimento (Cass., Sez. U, 23/12/2005, n. 28498; Cass., Sez. L, 25/9/2013, n. 21909; Cass., Sez. 3, 13/4/2023, n. 9863).
Non può del resto neppure dirsi che questo principio non valga per la consulenza tecnica d’ufficio, non essendo questa fonte di prova.
Come osservato da questa Corte, infatti, la consulenza tecnica, pur non costituendo in linea di massima mezzo di prova bensì strumento di valutazione della prova acquisita, può assurgere al rango di fonte oggettiva di prova quando si risolva nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche, tant’è che il consulente d’ufficio, pur in mancanza di espressa autorizzazione del giudice può, ai sensi dell’art. 194, primo comma, cod. proc. civ., assumere informazioni da terzi e procedere all’accertamento dei fatti accessori costituenti presupposti necessari per rispondere ai quesiti postigli (Cass., Sez. 3, 19/1/2006, n. 1020; Cass., Sez. 3, 14/2/2006, n. 3191; Cass., Sez. 2, 30/5/2007, n. 12695; Cass., Sez. L, 19/1/2011, n. 1149), circostanza quest’ultima certamente ravvisabile nella specie, considerate le questioni sottoposte alla verifica tecnica del c.t.u., come sopra descritte.
7.2 Quanto alla seconda questione, costituisce principio costantemente affermato da questa Corte quello secondo cui l’omesso invio alle parti della bozza di relazione dà luogo a un’ipotesi di nullità a carattere relativo, suscettibile di sanatoria se il vizio non è eccepito nella prima difesa utile successiva al deposito
della perizia, sanatoria che può avvenire anche per rinnovazione, quando il contraddittorio sia recuperato dal giudice dopo il deposito della relazione, con la rimessione in termini delle parti per formulare le proprie osservazioni, al fine di consentire il pieno esercizio dei poteri di cui all’art. 196 cod. proc. civ. (Cass., Sez. 3, 8/6/2023, n. 16196; Cass., Sez. 6-L, 9/10/2017, n. 23493).
Pertanto, non avendo la parte sollevato la questione o comunque dedotto di averla sollevata, deve ritenersi che il vizio sia stato sanato.
Peraltro, quand’anche così non fosse, la censura difetta di specificità ex art. 366, sesto comma, n. 1, cod. proc. civ., così come chiarito dalle Sezioni Unite con la decisione n. 8077/2012, con specifico riferimento alla denuncia degli errores in procedendo , avendo la parte ricorrente del tutto omesso di richiamare in ricorso il contenuto dell’atto di appello al fine di consentire di rilevare dal suo esame l’effettiva sussistenza della censura mossa (vedi sul punto Cass., Sez. 2, 12/12/2018, n. 32146), e come, soprattutto, non possa trovare spazio la pur paventata omissione di pronuncia in ordine alla questione dell’intervenuta violazione del contraddittorio per non avere il c.t.u. trasmesso la bozza di relazione al c.t.p., atteso che non è denunziabile ex art. 112 cod. proc. civ. la pretesa omessa disamina di un’eccezione di carattere processuale, occorrendo a tal fine fare richiamo alla costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. da ultimo Cass., Sez. 6-2, 12/1/2016, n. 321), a mente della quale il mancato esame da parte del giudice di una questione puramente processuale non è suscettibile di dar luogo al vizio di omissione di pronuncia, il quale si configura esclusivamente nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito, ma può configurare un vizio della decisione per violazione di norme diverse dall’art. 112 cod. proc. civ. se, ed in quanto, si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente
censurata, la soluzione implicitamente data dal giudice alla problematica prospettata dalla parte (conf. Cass., Sez. 5, 6/12/2004, n. 22860; Cass., Sez. 2, 12/12/2018, n. 32146).
7. 3 Quanto, infine, alla terza e quarta censura, occorre prendere le mosse dal principio, affermato dalle Sezioni unite di questa Corte con riguardo al negozio di trasferimento di proprietà immobiliare, secondo cui la nullità comminata dall’art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della l. n. 47 del 1985 va ricondotta nell’ambito del comma terzo dell’art 1418 cod. civ., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile, sicché, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato (Cass., Sez. U, 22/3/2019, n. 8230).
Pertanto, in ipotesi di compravendita di costruzione realizzata in difformità della licenza edilizia, non è più ravvisabile un vizio della cosa, non vertendosi in tema di anomalie strutturali del bene, ma trova applicazione l’art. 1489 cod. civ., in materia di oneri e diritti altrui gravanti sulla cosa medesima, sempre che detta difformità non sia stata dichiarata nel contratto o, comunque, non sia conosciuta dal compratore al tempo dell’acquisto (Cass., Sez. 2, 28/9/2023, n. 27559; Cass., Sez. 2, 28/2/2007, n. 4786; Cass., Sez. 2, 23/10/1991, n. 11218).
L’affermata irrilevanza, ai fini della sussistenza del vizio genetico del contratto, della conformità o meno della costruzione al titolo menzionato, valevole, come detto, nel contratto ad effetti reali, non può che ridondare, a maggior ragione, nel contratto ad effetti obbligatori, quale il contratto preliminare di compravendita immobiliare, per la cui esistenza non è richiesta neppure la dichiarazione del promittente alienante degli estremi del titolo urbanistico, la quale può anche sopravvenire all’atto ed essere prodotta in giudizio, ove si intenda ottenere con esso la sentenza di trasferimento coattivo del bene ai sensi dell’art. 2932 cod. civ. (Cass., Sez. 3, 15/1/2020, n. 538), essendo comunque preclusa al giudice la possibilità di disporre il trasferimento coattivo della proprietà (o di altri diritti reali) in assenza, rispettivamente, della dichiarazione degli estremi della concessione edilizia relativa all’immobile e del certificato di destinazione urbanistica relativo al terreno, trattandosi di condizioni dell’azione, la cui mancanza è rilevabile d’ufficio (Cass., Sez. 2, 27/8/2019, n. 21721).
Escluso che le difformità edilizie diano luogo ad un vizio genetico dell’atto, deve evidenziarsi come esse, alla stregua degli arresti giurisprudenziali di cui si è detto, assumano viceversa rilevanza sotto il profilo dell’inadempimento, dovendosi esse sussumere nell’alveo del vizio di cui all’art. 1489 cod. civ., in relazione al quale occorre tener conto della natura e dell’intensità degli oneri e dei diritti del terzo sulla cosa, e cioè controllare se essi incidono sulla stessa nel modo o nella misura richiesti dalla norma citata, ossia si risolvano in una limitazione del libero godimento della cosa medesima o, quanto meno, in una diminuzione del suo valore (vedi sul punto Cass., Sez. 2, 27/4/1982, n. 2620).
Orbene, la Corte di merito ha evidenziato come la sussistenza di difformità urbanistiche nel bene, rimaste accertate dal c.t.u., impedissero la conclusione del contratto definitivo e come questo
determinasse l’infondatezza della domanda di risoluzione del preliminare proposta dalla società appellante sul presupposto del mancato pagamento del prezzo da parte dei promissari acquirenti.
La correttezza del ragionamento seguito e, correlativamente, l’infondatezza delle due doglianze in esame si fonda sul fatto che, ai fini della pronuncia di risoluzione, il giudice non può isolare singole condotte di una delle parti per stabilire se costituiscano motivo di inadempienza a prescindere da ogni altra ragione di doglianza dei contraenti, ma deve, invece, procedere alla valutazione sinergica del comportamento di questi ultimi, attraverso un’indagine globale ed unitaria dell’intero loro agire, anche con riguardo alla durata del protrarsi degli effetti dell’inadempimento, perché l’unitarietà del rapporto obbligatorio a cui ineriscono tutte le prestazioni inadempiute da ognuno non tollera una valutazione frammentaria e settoriale della condotta di ciascun contraente ma esige un apprezzamento complessivo, sicché, nel delibare la fondatezza della domanda di accertamento dell’inadempimento di uno dei contraenti, ovvero di risoluzione contrattuale per inadempimento, il giudice deve tener conto, anche in difetto di una formale eccezione ai sensi dell’art. 1460 cod. civ., delle difese con cui la parte contro la quale la domanda viene proposta opponga a sua volta l’inadempienza dell’altra (Cass., Sez. 1, 16/3/2023, n. 7649; Cass., Sez. 1, 09/01/2013, n. 336).
Posto che, come già sopra evidenziato, gli elementi probatori, una volta introdotti nel processo e in qualunque modo ottenuti, sono definitivamente acquisiti alla causa e utilizzabili dal giudice, concorrendo tutte alla formazione del suo libero convincimento (Cass., Sez. U, 23/12/2005, n. 28498; Cass., Sez. L, 25/9/2013, n. 21909; Cass., Sez. 3, 13/4/2023, n. 9863), correttamente i giudici di merito hanno incluso anche l’accertamento delle violazioni edilizie nella valutazione dell’andamento complessivo del rapporto
intercorso tra le parti, pervenendo alla conclusione dell’insussistenza dei presupposti per la pronuncia di risoluzione chiesta dalla società.
Ciò comporta, perciò, l’infondatezza delle censure.
Gli ultimi due motivi sono parimenti infondati.
Per la prevalente giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal collegio (Cass., Sez. L, 28/09/2018, n. 23586; Cass., Sez. 3, 24/05/2007, n. 12075; Cass., Sez. 2, 22/11/2006, n. 24802; Cass. 06/08/1997 n. 7270; Sez. L, 16/05/2001, n. 6727; Cass., Sez. 2, 11/07/2003, n. 10935; Cass., Sez. 1, 19/04/1971, n. 1113), la risoluzione consensuale del contratto non costituisce materia di eccezione in senso proprio o stretto, ma rappresenta un fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal contratto, che, diversamente dalla risoluzione per inadempimento o dalla risoluzione per effetto di clausola risolutiva espressa, se ed in quanto rilevante ai fini della decisione può essere accertato d’ufficio dal giudice pure in sede di legittimità, ove non vi sia necessità di effettuare indagini di fatto (Cass., 20/6/2012, n. 10201 ).
Pertanto, il fatto che il mutuo consenso non fosse stato dedotto esplicitamente da alcuna delle parti, non poteva impedire al giudice di rilevarlo anche d’ufficio, dal momento che le stesse avevano chiesto la stessa pronuncia, e cioè la risoluzione del contratto, anche se ne addebitavano poi reciprocamente la colpa, così manifestando entrambe chiaramente la volontà di sciogliere il vincolo contrattuale.
Ne consegue l’infondatezza delle censure.
In conclusione, dichiarata l’infondatezza delle censure, il ricorso deve essere rigettato. Nulla deve disporsi sulle spese, non avendo l’intimato spiegato difesa.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 -della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
La Corte rigetta il ricorso.
Dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 8/11/2024.