Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 7906 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 7906 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 23/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 15658/2020 R.G. proposto da:
COGNOME NOME e COGNOME NOME, in proprio e nella qualità di soci della RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) che li rappresenta e difende unitamente all’AVV_NOTAIO NOME COGNOME (CODICE_FISCALE);
-ricorrenti- contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante p.t., NOME COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO COGNOME che la rappresenta e difende;
e sul ricorso incidentale proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante p.t., NOME COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO COGNOME che la rappresenta e difende;
-ricorrente incidentale-
nei confronti di
COGNOME NOME e COGNOME NOME, in proprio e nella qualità di soci della RAGIONE_SOCIALE IN RAGIONE_SOCIALE;
-intimati-
Avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di TORINO n. 1622/2019, depositata il 07/10/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 04/03/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO
Nel giudizio di opposizione avverso il decreto n. 6485/2016 con cui veniva intimato il pagamento di euro 30.463,23, per 28 fatture insolute, a favore della RAGIONE_SOCIALE, gli opponenti, NOME COGNOME di Celle e NOME COGNOME di Celle, in proprio e nella qualità di soci della RAGIONE_SOCIALE liquidazione, contestavano la pretesa monitoria e, in via riconvenzionale, chiedevano che fosse accertata l’invalidità del contratto di franchising stipulato tra le parti o in subordine che fosse accertato il grave inadempimento della opponente e, di conseguenza, il contratto fosse risolto e la RAGIONE_SOCIALE fosse
condannata al risarcimento dei danni, quantificati in euro 200.000,00 o nella diversa somma accertata giudizialmente.
In particolare, deducevano che la RAGIONE_SOCIALE, alla quale erano affiliati sin dal 2012 per la vendita al dettaglio di sigarette elettroniche e relativi accessori, aveva ceduto loro merce inidonea al commercio per irregolarità nell’etichettatura – omessa marcatura Ce dei prodotti hardware e omesso adeguamento delle etichette all’ordinanza del Ministero della salute che era stata causa di alcuni provvedimenti di sequestro penale, non aveva evaso con puntualità gli ordini, aveva sostituito i prodotti ordinati con altri, aveva ridotto i quantitativi di merce consegnata, aveva consegnato merce difettosa, aveva calcolato le royalties dovute computando anche l’IVA, aveva costretto ad applicare prezzi più bassi alla clientela. La somma di detti inadempimenti li avrebbe costretti a chiudere il punto vendita di Torino, INDIRIZZO, e a risolvere il contratto di affitto d’azienda relativo al negozio di Settimo Torinese.
Il Tribunale di Torino, con la sentenza n. 109/2018, revocava il decreto ingiuntivo e condannava gli opponenti al pagamento alla RAGIONE_SOCIALE della minor somma di euro 9.489,15.
La Corte d’appello di Torino, con la sentenza n. 1622/2019, depositata il 07/10/2019, ha confermato la decisione del Tribunale, respingendo sia l’appello principale degli opponenti sia quello incidentale della società opposta.
Segnatamente, la Corte d’appello ha confermato la decisione di prime cure nella parte in cui aveva ritenuto dimostrato che il contratto di franchising relativo al punto vendita di INDIRIZZO era già cessato alla data di instaurazione della causa, avendo le parti chiarito che, dalla fine di luglio 2013, l’attività oggetto di entrambi i contratti di franchising era cessata, non avendo più avuto esecuzione per anni. Il fatto che fosse mancata una dichiarazione unilaterale o consensuale di risoluzione del contratto,
secondo la Corte territoriale, non rileverebbe, posto che il contratto risolutorio non deve risultare da un accordo esplicito dei contraenti, ben potendo lo stesso risultare dalla volontà di non dare ulteriore corso al contratto, liberando le parti dalle rispettive obbligazioni, sulla scorta di fatti univoci posti in essere successivamente alla stipula del contratto e contrastanti con la volontà di mantenerlo in vita; ha ritenuto assorbita ogni altra questione -compresa quella diretta a contestare la natura di contratto di durata del franchising – ed inammissibile, siccome formulata tardivamente solo con la comparsa conclusionale, l’eccezione riferita al carattere formale del contratto di franchising e dunque alla necessità che la medesima forma rivestisse anche l’accordo solutorio eventualmente intervenuto.
Ha confermato la sentenza impugnata in ordine della determinazione del quantum spettante a RAGIONE_SOCIALE, per le fatture insolute e per le royalties maturate, anche perché nella determinazione del quantum era stato tenuto conto della non corretta esecuzione delle forniture, della difficoltà creata per le vendite e della imposizione di campagne promozionali, e anche in merito al difetto di prova che gli inadempimenti dell’affiliante avessero provocato danni all’affiliata, precisando che detta prova non era stata fornita neppure in sede di appello (p. 21); ha rigettato l’appello incidentale, rilevando che, proprio la difficoltà di quantificare il danno per il franchisee in termini di mancato guadagno aveva giustificato il ricorso alla valutazione equitativa, ancorata al valore del fatturato del negozio di INDIRIZZO, ai margini di ricavo ed all’apertura di un secondo punto vendita.
NOME COGNOME di Celle e COGNOME NOME COGNOME di Celle, in proprio e nella qualità di soci della RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, ricorrono per la cassazione di detta sentenza, formulando tre motivi.
Resiste con controricorso e promuove ricorso incidentale fondato su due motivi la RAGIONE_SOCIALE.
La trattazione dei ricorsi è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis 1 cod.proc.civ.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Ricorso principale
1) Con il primo motivo i ricorrenti si dolgono della violazione o falsa applicazione dell’art. 1372 cod.civ. (mutuo dissenso) e degli artt. 1362-1371 cod.civ. in riferimento alla disciplina della risoluzione del contrato (art. 1453 cod.civ.) nonché della violazione dell’art. 2729 cod.civ.
Alla Corte d’appello si imputa di avere ritenuto sussistente il mutuo dissenso in ragione della cessazione dell’esecuzione del contratto, senza attribuire alcun rilievo alla mancanza di dichiarazioni delle parti in tal senso e giudicando tardiva la doglianza relativa al mancato rispetto della forma scritta per il perfezionamento del contratto solutorio.
La tesi dei ricorrenti è che l’interruzione di un contratto sinallagmatico non implica necessariamente l’intento di risolverlo consensualmente, potendo rispondere alla logica della sospensione delle prestazioni ai sensi dell’art. 1461 cod.civ., che la chiusura del punto vendita di Torino e la risoluzione dell’affitto di azienda di Settimo Milanese erano da intendersi quali rimedi per evitare un aggravamento dei danni provocati dall’inadempimento dell’affiliante, che la Corte territoriale avrebbe dovuto tener conto che, riaprendo un punto vendita, la RAGIONE_SOCIALE avrebbe potuto riavviare le prestazioni sospese in qualunque momento, che per il recesso senza causa dal contratto di affiliazione commerciale era previsto il pagamento di una penale.
Le circostanze indiziarie da cui la Corte d’appello ha desunto la volontà di sciogliere per mutuo consenso il contratto non erano
gravi, né precise, né concordanti; quindi, non avrebbe dovuto trarsene la conclusione che vi era stato un mutuo dissenso, tanto più che il mutuo dissenso ha una disciplina eccezionale e derogatoria rispetto a quella della risoluzione del contratto per inadempimento.
Di conseguenza, il contratto avrebbe dovuto essere dichiarato risolto giudizialmente per grave inadempimento dell’affiliante, con diritto alla restituzione della somma pagata una tantum per diritto di ingresso, pari ad euro 10.000,00, in quanto priva di corrispettività prestazionale, ed esclusione del diritto alla penale per il recesso senza giusta causa, di cui all’art. 10 del contratto, preteso dalla RAGIONE_SOCIALE.
Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 3, della l. 129/2004 e degli artt. 1218 e 1223 cod.civ.
La Corte d’appello, ritenuto sussistente il mutuo dissenso, ha respinto la richiesta di risarcimento dei danni ritenendo, come già il Tribunale, non provato il nesso di causa tra inadempimento e danno ed eccepito tardivamente che l’iniziativa imprenditoriale era cessata anticipatamente per effetto dell’inadempimento della RAGIONE_SOCIALE. Secondo i ricorrenti, invece, solo la richiesta del risarcimento del danno per perdita di chance era stata formulata in sede di precisazione delle conclusioni, tutti gli altri danni invece erano stati chiesti con la citazione in opposizione al decreto ingiuntivo. Di qui la denuncia di approssimazione e trascuratezza mossa alla sentenza d’appello e di erronea esclusione del risarcimento del danno per difetto di prova tra inadempimento e danno, atteso che gli artt. 1218 e 1223 cod.civ., letti in combinato disposto con l’art. 3 della l. 129/2004, a mente del quale l’affiliante, ove il contratto sia a tempo determinato, deve garantire all’affiliato una durata minima sufficiente all’ammortamento dell’investimento, non inferiore comunque a tre anni, salva la
risoluzione anticipata per inadempimento di una delle parti, avrebbero dovuto indurre la Corte d’Appello, una volta provato l’inadempimento, a ritenere sussistente il nesso di causa tra esso e il prematuro scioglimento del contratto, con conseguente diritto al risarcimento del danno per gli investimenti fatti.
Con il terzo motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione degli artt. 1223 e 1226, 2697, 2736 n. 2, cod.civ., degli artt. 61 e 191 cod.proc.civ. e per il mancato esame di un fatto decisivo.
Al giudice a quo rimproverano di non aver deferito il giuramento suppletorio alla RAGIONE_SOCIALE per provare il fatturato medio e di non aver disposto una CTU al fine di determinate equitativamente il danno.
Ricorso incidentale di RAGIONE_SOCIALE
Con il primo motivo la società ricorrente si duole della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 342 e 434 cod.proc.civ., per avere la Corte territoriale disatteso l’eccezione di rito con cui aveva denunciato l’inammissibilità dell’atto di appello per violazione dell’art. 342 cod.proc.civ.
A suo avviso, l’atto di appello era carente in ordine all’indicazione delle circostanze che avrebbero giustificato la modifica della sentenza di prime cure, non offriva una differente ricostruzione dei fatti, conteneva doglianze e allegazioni generiche e ripropositive, nella forma e nella sostanza, delle difese di primo grado.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 e 2697, dell’art. 1226, 1362 e 1371 cod.civ.
Oggetto di censura è la statuizione con cui la Corte d’Appello, confermando la decisione del Tribunale, l’ha ritenuta inadempiente per non avere correttamente eseguito le forniture e per aver creato difficoltà nelle vendite, disponendo dopo il sequestro penale, il ritiro solo di una parte della merce precedentemente consegnata agli
affiliati e per avere imposto due campagne proporzionali che, almeno in un caso, avevano eroso ingiustificatamente i margini di profitto dell’affiliata.
Tali conclusioni sarebbero il frutto di erronea interpretazione e applicazione delle clausole contrattuali ed in specie dell’art. 4.3, ove era data facoltà all’affiliante di apportare in qualsiasi momento variazioni ai quantitativi di prodotti a suo insindacabile giudizio, purché nei limiti della normale rotazione dei prodotti, secondo le quantità ritenute congrue ai normali fabbisogni dell’esercizio; degli articoli 4.4 e 4.7, i quali prescrivevano, rispettivamente, che le forniture sarebbero state effettuate nei limiti della disponibilità dei singoli prodotti e che l’affiliante non sarebbe stato responsabile per inadempimenti o ritardi nelle forniture per temporanea indisponibilità dei prodotti o per la mancata consegna da parte dei fornitori dovuta a causa di forza maggiore. L’articolo. 4 7 indicava quale causa di forza maggiore la ricorrenza di eventuali provvedimenti della pubblica autorità ed ogni altra circostanza al di fuori del controllo della affiliante, prevedendosi in tali particolari eventualità che l’affiliante avrebbe potuto rifornirsi presso terzi. Di qui l’errore del giudice di appello che avrebbe trascurato l’interpretazione di tali disposizioni contrattuali, perciò, avrebbe riconosciuto a suo carico profili di responsabilità in correlazione al sequestro penale subito dell’affiliante, obbligandola al risarcimento del danno, nonostante l’avvenuto sequestro penale per espresso accordo tra le parti non potesse integrare alcun inadempimento, e le avrebbe imposto di provare la indisponibilità dei prodotti da rifornire, nonostante ciò fosse conseguenza del sequestro penale, di cui non doveva rispondere. Inoltre, a suo avviso, i ricorrenti non avrebbero mai fornito prove o allegazioni tali da documentare un suo inadempimento effettivo (essendosi limitati a produrre in giudizio documentazione comprovante esclusivamente l’intervenuto sequestro), né ragguagli in ordine alle ragioni per le quali non
avevano provveduto a rifornirsi altrove, pur essendo detta facoltà espressamente prevista dall’articolo 4.7 del contratto.
Per ragioni logiche va esaminato in via prioritaria il primo motivo del ricorso incidentale, atteso che il suo eventuale accoglimento determinerebbe l’assorbimento del ricorso principale.
Il motivo è inammissibile, perché le ragioni addotte a sostegno delle censure formulate sono meramente assertive e non supportate dall’adempimento delle prescrizioni di cui all’art. 366, 1° comma, n. 6, cod.proc.civ. e si rivelano del tutto inidonee a confutare la statuizione impugnata nella parte in cui ha ritenuto che l’atto di appello individuasse parti della sentenza di primo grado investite dall’impugnazione, ricostruisse diversamente i fatti rispetto a quanto operato dal giudice di primo grado, individuasse le circostanze dalle quali sarebbe derivata la violazione di legge e ne descrivesse la rilevanza in funzione della riforma della sentenza del Tribunale.
Si può dunque procedere allo scrutinio del ricorso principale.
Il primo motivo è inammissibile per plurime ragioni:
-nella parte in cui denuncia la violazione delle regole di ermeneutica contrattuale, perché la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. cod.civ., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi
disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 28/11/2017, n.28319; Cass. 09/04/2021, n. 9461 e la giurisprudenza conforme);
– i n ordine all’impiego del ragionamento inferenziale, perché le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione; spetta quindi al giudice del merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti certi da porre a fondamento del relativo processo logico, apprezzarne la rilevanza, l’attendibilità e la concludenza al fine di saggiarne l’attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire inferenze logiche e compete sempre al giudice del merito procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi indiziari precedentemente selezionati ed accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione, e non piuttosto una visione parcellizzata di essi, sia in grado di fornire una valida prova presuntiva tale da ingenerare il convincimento in ordine all’esistenza o, al contrario, all’inesistenza del fatto ignoto; la delimitazione del campo affidato al dominio del giudice del merito consente innanzi tutto di escludere che chi ricorre in cassazione in questi casi possa limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per sé solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva non conduca necessariamente all’esito interpretativo raggiunto nei gradi inferiori, salvo che esso non si presenti intrinsecamente implausibile tanto da risultare meramente apparente; pertanto, chi
censura un ragionamento presuntivo o il mancato utilizzo di esso non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice del merito, ma deve far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio , né può addurre che sarebbero state trascurate determinate circostanze fattuali suscettibili di assumere un diverso significato (ad esempio, le circostanze di cui alle lett. a, b, c, d indicate alle pp. 5-6 del ricorso): cfr., ex plurimis , Cass. 2/11/2021, n. 31071;
-quanto all’accertamento del mutuo consenso, perché esso costituisce apprezzamento di fatto del giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se correttamente e congruamente motivato (Cass. 27/11/2006, n. 25126; Cass. 4/06/2002, n. 8102). Nel caso di specie, non essendo il contratto di franchising un contratto solenne, né essendo stato dimostrato che le parti avessero pattuito la forma scritta, il mutuo consenso è svincolato da qualsiasi requisito di forma e può manifestarsi “per facta concludentia” o essere desunto dal comportamento delle parti in sede processuale (Cass. 15/06/2001, n. 8106; Cass. 24/06/1997, n. 5639).
Il secondo motivo non merita accoglimento.
I ricorrenti pretendono il risarcimento del danno da perdita dell’investimento per la risoluzione ante tempus del contratto per inadempimento della controparte, nonostante tale pretesa fosse stata ritenuta inammissibile dal Tribunale per essere stata formulata tardivamente e detta statuizione sia stata confermata dalla sentenza d’appello (pp. 21 -22).
Il tentativo di confutarla non va a segno, perché i ricorrenti si limitano a rinviare alle conclusioni rassegnate nella citazione in opposizione al decreto ingiuntivo, che hanno riportato integralmente (p. 3 del ricorso) per dimostrare che avevano sin dall’inizio chiesto la liquidazione di tutti i danni ( e non di questo o di quel danno), e che anche la sentenza di prime cure aveva
ritenuto tardiva solo la domanda relativa alla perdita di chance , mentre per tutte le altre voci, compresa quella relativa alla perdita degli investimenti fatti, il rigetto si era basato sull’assenza di prova del nesso causale tra inadempimento e danno, tanto più che, secondo il Tribunale, i ricorrenti avrebbero sostenuto in ogni caso dette spese anche se il contratto avesse avuto regolare esecuzione. Le censure non sono conducenti: il Tribunale e la Corte d’appello hanno ritenuto non dimostrato il danno consistente nei costi per affrontare l’acquisto delle quote sociali, per gli adempimenti fiscali, per l’affitto del ramo d’azienda relativo al punto vendita di Settimo Torinese, per il pagamento dei dipendenti e , in generale, per la gestione dell’attività, perché ‘trattandosi di spese che gli opponenti avrebbero sostenuto comunque, anche se il contratto avesse avuto regolare esecuzione: manca, in altre parole, il nesso causale tra l’inadempimento ed il danno, richiesto in modo stringente dall’art. 1223 cod.civ.’.
La Corte d’appello ha confermato detta statuizione, rilevando che neppure in appello, la prova del nesso di causalità tra inadempimento e danno era stata fornita (p. 21 della sentenza).
Quanto invece alla richiesta risarcitoria consistente nella perdita del diritto all’ammortamento per fatto imputabile alla controparte che avrebbe determinato lo scioglimento anticipato del contratto, la Corte d’appello ha rilevato che il Tribunale, a p.13, aveva osservato che tale voce di danno era stata adombrata solo in sede di discussione e non risultava dedotta in precedenza (p. 22 della sentenza).
È dunque evidente che il ricorrente non ha colto il ragionamento della Corte d’appello e non avendolo colto non lo ha efficacemente censurato: non basta né il rinvio alle conclusioni rassegnate nel giudizio di opposizione né l’affermazione meramente assertoria che, a differenza di quanto ritenuto dal giudice a quo , il Tribunale avesse rigettato la richiesta risarcitoria per difetto di prova che il
danno lamentato fosse derivato dall’inadempimento della RAGIONE_SOCIALE.
Il terzo motivo è infondato.
Il deferimento del giuramento suppletorio è rimesso alla discrezionalità del giudice del merito, la cui valutazione, in ordine alla sussistenza del requisito della cosiddetta semiplena probatio e alla scelta della parte alla quale deferirlo costituiscono apprezzamenti di fatto, non sindacabili in sede di legittimità, se non sotto il profilo dell’adeguatezza della motivazione (Cass. 23/02/2017, n. 4585).
Il Tribunale, e la statuizione è stata confermata dalla Corte territoriale, non ha disatteso la domanda risarcitoria avente ad oggetto il danno da lucro cessante, ma ha provveduto alla sua quantificazione in via equitativa. Non ricorre dunque l’ipotesi in cui il rigetto della domanda di CTU si traduce in una grave carenza nell’accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che ridonda in un vizio della motivazione della sentenza impugnata. La consulenza tecnica in genere ha la funzione di fornire al giudice la valutazione dei fatti già probatoriamente acquisiti, ma può costituire fonte oggettiva di prova quando si risolva anche in uno strumento di accertamento di situazioni rilevabili solo con il concorso di determinate cognizioni tecniche; in tale ipotesi, il rifiuto della sua ammissione sotto il profilo del mancato assolvimento, da parte dell’istante, dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 cod.civ. costituisce un’aporia logica, perché viene imputato alla parte di non avere provato ciò che le è stato impedito di provare nonostante lo abbia allegato e ritualmente richiesto (Cass. 16/12/2022, n.37027).
Il secondo motivo del ricorso incidentale è inammissibile, perché, senza neppure confrontarsi con la sentenza impugnata che ha ritenuto non decisivo il richiamo delle disposizioni contrattuali per giustificare i ritardi nella fornitura delle merci e non allegata la
temporanea indisponibilità dei prodotti, ripropone le stesse questioni già sottoposte allo scrutinio del giudice d’appello e da questi rigettate. Deve ribadirsi che con i motivi di ricorso per cassazione la parte non può limitarsi a riproporre le tesi difensive svolte nelle fasi di merito e motivatamente disattese dal giudice dell’appello, senza considerare le ragioni offerte da quest’ultimo, poiché in tal modo si determina una mera contrapposizione della propria valutazione al giudizio espresso dalla sentenza impugnata che si risolve, in sostanza, nella proposizione di un “non motivo”, come tale inammissibile ex art. 366,1° comma, n. 4, cod.proc.civ. (Cass. 24/09/2018, n.22478).
Per quanto esposto il ricorso principale va rigettato ed il ricorso incidentale va dichiarato inammissibile.
Data la reciproca soccombenza, è giustificata la compensazione delle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale, dichiara inammissibile il ricorso incidentale. Compensa le spese tra ricorrente principale e ricorrente incidentale.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti principali e della ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il rispettivo ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di Consiglio della Terza Sezione civile