Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 1764 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 1764 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/01/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 24249/2019 R.G. proposto da:
COGNOME, COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME (CODICE_FISCALE, COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrenti e controricorrenti all’incidentalecontro
COGNOME, COGNOME, elettivamente domiciliate in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, rappresentate e difese dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-controricorrenti e ricorrenti incidentali-
avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO NAPOLI n. 631/2019 depositata il 07/02/2019.
Udita la relazione svolta nell ‘udienza del 03/12/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Udite le osservazioni del P.M., il Sostituto P.G. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e del ricorso incidentale.
Udito l’avvocato NOME COGNOME per i ricorrenti .
FATTI DI CAUSA
Nel 2010, NOME COGNOME e NOME COGNOME (promissari acquirenti) stipulavano con NOME COGNOME (promittente venditore) un contratto preliminare di compravendita di un fabbricato rurale da ristrutturare, circondato da circa 44.430 mq di terreno. Il prezzo era fissato in € 282.500, con caparra di € 30.000. Il contratto prevedeva che, entro il 30/10/2010, il promittente venditore -previo versamento dell’ulteriore acconto di € 40.000 – avrebbe dovuto stipulare con i promissari acquirenti un contratto di affitto, per consentire loro di acquisire la qualifica di coltivatore diretto e beneficiare di contributi europei. Nel 2011 i promissari acquirenti convenivano dinanzi al Tribunale di Benevento NOME e NOME COGNOME eredi del promittente venditore, chiedendo la risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del venditore e la restituzione del doppio della caparra. Gli attori lamentavano che il promittente venditore non aveva stipulato entro il termine pattuito il contratto di affitto ed anzi ne aveva subordinato la stipula alla modifica delle condizioni originarie, richiedendo (tramite il proprio avvocato) il versamento di una maggiore somma (€ 70.000) rispetto agli € 40.000 previsti nel preliminare e uno slittamento dei termini per la stipula del definitivo. Tutto ciò attraverso un accordo integrativo (scrittura del 24/09/2010). Le convenute contestavano, narrando che, dopo l’invito alla stipula del contratto di affitto, i promissari acquirenti erano scomparsi, per poi ricomparire dopo la scadenza del termine del 30/10/2010 a denunciare l’intervenuta risoluzione del contratto. In riconvenzionale domandavano pertanto la risoluzione per inadempimento degli attori
con ritenzione della caparra. Il Tribunale accoglieva la domanda degli attori, dichiarando la risoluzione del contratto per inadempimento imputabile al promittente alienante e condannando le convenute al pagamento del doppio della caparra. La Corte di appello ha riformato integralmente la sentenza di primo grado, ritenendo infondato il presunto inadempimento del promittente alienante (ha sostenuto che dall’assenza di un formale mandato da parte del COGNOME al proprio legale non si può inferire la sua mancata risposta all’invito per la stipula del contratto di affitto). Ha rilevato (da una e-mail del 2010 indirizzata dall’avvocato del COGNOME all’avvocato della controparte) che la richiesta della somma di € 70.000 (peraltro da imputarsi sul prezzo complessivo), avanzata in sede di trattativa, non rappresentava una condizione necessaria per la stipula del contratto di affitto ma una mera proposta negoziabile (la dichiarazione veniva sottoposta all’esame di controparte, con facoltà di quest’ultima di apportare eventuali modifiche). Ha ritenuto fondato il rilievo che i promissari acquirenti si erano resi irreperibili nei giorni previsti per la stipula del contratto di affitto. Inoltre, l’inadempimento fatto valere dai promissari acquirenti con riferimento alla stipula del contratto di affitto non riguardava obbligazioni principali del contratto preliminare e, dunque, non era tale da giustificarne la risoluzione ai sensi degli artt. 1453 e 1455 c.c. Lo stesso vale per l’inadempimento fatto v alere dalla parte convenuta (con riferimento all’irreperibilità tattica dei promissari acquirenti). Tuttavia, la Corte ha osservato che entrambe le parti avevano manifestato comportamenti incompatibili con la prosecuzione del rapporto contrattuale e ha dichiarato la risoluzione del contratto per mutuo dissenso.
Ricorre in via principale la parte promissaria acquirente con sette motivi, illustrati da memoria. Resiste la parte promittente venditrice con controricorso, illustrato da memoria, cui resiste (qualificandolo come ricorso incidentale) la parte ricorrente principale con controricorso. La Procura generale ha depositato osservazioni scritte.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. -Il primo motivo denuncia violazione dell’art. 115 c.p.c., facendo valere (contrariamente a quanto accertato) che la stipula del contratto di affitto entro il 30/10/2010 era necessaria per consentire ai promissari acquirenti di acquisire la qualifica di coltivatore diretto (indispensabile per beneficiare dei contributi comunitari a fondo perduto). Si osserva che tale necessità era stata chiaramente dedotta e non era stata oggetto di contestazione. È violato così l’obbligo del giudice di porre a fondamento della decisione i fatti non contestati, violazione che nel caso attuale ha condotto la Corte di appello a sottovalutare la portata del punto 5 del contratto preliminare.
Il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 115 c.p.c., evidenziando che la Corte di appello non ha considerato il contenuto della scrittura privata del 24/9/2010, nella quale controparte richiedeva il pagamento di un’ulteriore caparra confirmatoria di € 70.000 e il posticipo della stipula del contratto definitivo di compravendita. Si osserva che il disconoscimento della fotocopia di tale scrittura, operato nella memoria ex art. 183 co. 6 n. 3 c.p.c., era generico e privo di riferimenti specifici, quindi non valido ai fini della contestazione. Si rileva inoltre che, anche in presenza di un disconoscimento, la conformità della fotocopia all’originale non implica automaticamente la negazione del contenuto del documento o della sua riferibilità alla parte indicata. Pertanto, la Corte di appello era tenuta a considerare il contenuto della scrittura. La mancata applicazione dell’art. 115 c.p.c. ha condotto la Corte di appello a ignorare che la scrittura evidenziava la subordinazione della stipula del contratto di affitto sia al versamento della caparra aggiuntiva sia al posticipo del termine per il contratto definitivo.
Il quarto motivo -da anteporre logicamente al terzo motivo – denuncia violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., lamentando che la Corte di appello abbia erroneamente confuso la «dichiarazione integrativa» allegata alla e-mail del 29/10/2010 (mai
prodotta in giudizio) con il documento n. 7, prodotto dagli acquirenti, nel quale il promittente venditore richiedeva una caparra aggiuntiva di € 70.000 e il posticipo della stipula del contratto definitivo. Tale confusione ha condotto la Corte a un’errata interpretazione, ritenendo che la «dichiarazione integrativa» non costituisse una condizione essenziale per la stipula del contratto di affitto.
In particolare, si evidenzia che il giudice di primo grado aveva correttamente valutato la mancata produzione della «dichiarazione integrativa» come un comportamento processuale rilevante ai sensi dell’art. 116 co. 2 c.p.c., deducendo che la mancata stipula del contratto di affitto fosse riconducibile alla pretesa del venditore di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali. Tale valutazione era stata motivata con riferimento sia alla mancata produzione documentale da parte dei convenuti sia alla rilevanza della richiesta di una caparra aggiuntiva per gli acquirenti. La Corte di appello, invece, ha supplito all’omissione documentale avversaria interpretando erroneamente il documento n. 7 come se fosse l’allegato alla e -mail del 29 ottobre 2010, arrivando alla conclusione che la «dichiarazione integrativa» non costituisse una condizione essenziale per la stipula del contratto di affitto. Si sottolinea che tale errore contrasta con i principi sanciti dagli artt. 115 e 116 c.p.c. e dall’art. 2697 c.c., i quali impongono che la prova sia fornita dalla parte che intende far valere un determinato fatto. Si sostiene che, applicando correttamente le suddette disposizioni, la Corte avrebbe dovuto ravvisare l’inadempimento del promittente venditore, il quale subordinava la stipula del contratto di affitto all’accettazione da parte degli acquirenti di modifiche contrattuali non previste originariamente.
1.2. – Il primo, il secondo e il quarto sono da esaminare congiuntamente per connessione.
Essi sono infondati.
Nel loro complesso, pur da diverse prospettive, essi fanno valere sostanzialmente che la Corte di appello avrebbe dovuto valutare il
contenuto della scrittura integrativa del 24/09/2010 nel duplice senso vuoi della essenzialità del termine del 31/10/2010 per i promissari acquirenti, vuoi della richiesta di importi aggiuntivi da parte del promittente venditore.
Tale censura non coglie nel segno (in nessuno dei profili sotto i quali è fatta valere), poiché la Corte di appello ha fondato la propria decisione su una valutazione complessiva della vicenda. Si legga la sentenza (p. 12): « Poiché si è in presenza di reciproche domande di risoluzione e poiché si è accertata l’infondatezza degli scambievoli addebiti e non si può quindi pronunciare la risoluzione per colpa di una delle partì, occorre dare atto dell’impossibilità di esecuzione del contratto per effetto della scelta, operata ex art. 1453, comma 2 c.c. in combinato disposto di cui al successivo art. 1458, da entrambi i contraenti, di domandare la risoluzione, ed occorre statuire conseguentemente una risoluzione del contratto per mutuo dissenso, tanto più che il contratto stesso risulta ineseguito dal 2010 ». In tale quadro è considerata la circostanza – non smentita dal documento del 24/09/10 – per cui la richiesta di € 70.000 integrava un ulteriore acconto sul prezzo di acquisto, non un sovraprezzo. Infatti, la stessa parte ricorrente definisce la somma: « ulteriore caparra confirmatoria ». Tale richiesta di ulteriore anticipo sul pagamento del prezzo è stata valutata quindi come priva di rilevanza nell’economia del contratto, giacché i promissari acquirenti erano comunque tenuti in breve tempo alla corresponsione dell’intero prezzo della compravendita.
– Il terzo motivo denuncia manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata in relazione agli artt. 132 n. 4 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. La Corte di appello, pur riconoscendo che gli acquirenti si erano tempestivamente attivati per addivenire alla stipula del contratto di affitto, predisponendo gli assegni circolari e inviando uno schema di contratto e una diffida a controparte, ha contraddittoriamente affermato che essi si sarebbero
resi irreperibili, fondandosi sul mancato tempestivo riscontro a un’e -mail del legale del promittente venditore, priva dell’allegato richiamato. Si osserva che la disponibilità degli acquirenti a procedere nei termini previsti dal contratto preliminare è provata da documenti e giustificata dall’interesse concreto a non perdere per tardività i contributi finanziari delle istituzioni europee, mentre il promittente venditore non ha mai formalizzato una disponibilità effettiva a stipulare il contratto di affitto entro il 30/10/2010, proponendo modifiche unilaterali, tra cui lo spostamento del termine per la stipula del contratto definitivo e il versamento di un’ulteriore caparra confirmatoria di € 70.000.
Del terzo motivo è da dichiarare l’inammissibilità.
Esso non coglie la ratio della pronuncia.
Il punto della motivazione censurato non è elemento portante nell’argomentazione giustificativa della decisione. Infatti, la Corte d’appello ha riformato la sentenza di primo grado poiché non vi erano elementi che si frapponessero alla stipula del contratto definitivo, ma non si è pervenuti a quest’ultima per un illogico irrigidimento di entrambe le parti. È tale accertamento la base della pronuncia di risoluzione del contratto, pur in assenza di inadempimento colpevole da parte di alcuna delle parti (cfr. il brano di motivazione riportato nel precedente paragrafo).
Il terzo motivo è inammissibile.
3. – Il quinto motivo denuncia violazione degli artt. 116 c.p.c., 1455 e 2697 c.c., lamentando che sia stato sottovalutato l’inadempimento del promittente venditore, il quale ha subordinato la stipula del contratto di affitto alla modifica delle condizioni originarie del contratto preliminare, impedendo così agli acquirenti di beneficiare dei vantaggi fiscali e dei contributi comunitari connessi alla qualifica di coltivatore diretto. La Corte di appello ha ritenuto che la clausola n. 5 del contratto preliminare, relativa al contratto di affitto, fosse di portata secondaria e non sinallagmatica, considerando la pretesa
degli acquirenti di ottenere la qualifica di coltivatore diretto come simulata. Tuttavia, la Corte non ha fornito elementi probatori a supporto di questa interpretazione e non ha rispettato il principio dell’onere della prova, come previsto dagli artt. 116 c.p.c. e 2697 c.c. Si evidenzia che il documento n. 7, mai contestato nel contenuto dalla controparte, indica chiaramente che il contratto di affitto era una condizione necessaria per ottenere i benefici fiscali e i finanziamenti derivanti dalla qualifica di coltivatore diretto. La Corte non ha adeguatamente valutato tale documento e ha trascurato il significato determinante della clausola n. 5, che rivestiva una funzione essenziale per la conclusione dell’intera operazione. L’errata qualificazione della clausola ha condotto a una sottovalutazione della gravità dell’inadempimento, contrariamente a quanto richiesto dall’art. 1455 c.c., il quale impone di verificare l’interesse della parte non inadempiente rispetto alla prestazione mancata.
Il quinto motivo è infondato.
Esso rinviene il suo fulcro nella rivalutazione del giudizio sull’importanza dell’inadempimento . Senonché la valutazione della gravità dell’inadempimento ex art. 1455 c.c., ai fini della risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive, costituisce questione di fatto affidata al prudente apprezzamento del giudice del merito (cfr. Cass. 26605/2023, 12182/2020). Ne segue che può lamentarsi eventualmente un vizio di motivazione, originato da un omesso esame circa fatti decisivi, censurato ex art. 360 n. 5 c.p.c., ovvero da un difetto dei requisiti ex art. 132 co. 2 n. 4 c.p.c., ove la motivazione non sia effettiva, risoluta o coerente secondo l’orientamento interpretativo dischiuso da Cass. SU 8053/2014. Nel caso attuale, la motivazione non è censurata sotto tali profili, né d’altra parte essa presterebbe il fianco a tali censure (cfr. sentenza, p. 9 s.: « La clausola di cui al punto 5 del preliminare, inerente il contratto di affitto da stipulare nelle more del termine per la definitiva compravendita, è stata inserita nell’esclusivo interesse degli odierni appellati, con il dichiarato
intento -peraltro simulatorio -di far acquisire ai promissari acquirenti il titolo di coltivatore diretto, così da beneficiare di aiuti economici europei, senza che fosse prevista alcuna prestazione sinallagmatica da parte dei beneficiari, se non la dazione di un ulteriore acconto da imputarsi sul prezzo complessivo della compravendita. Non può revocarsi in dubbio, pertanto, che ai fini dell’economia complessiva del preliminare dedotto in giudizio, la clausola in questione assuma una portata relativa, sicuramente secondaria rispetto alla regolamentazione dell’assetto di interessi che si intendeva dare con il preliminare stesso. Di conseguenza, l’eventuale inadempimento a detta clausola -comunque escluso per quanto sopra esposto -del promittente alienante non avrebbe potuto condurre alla declaratoria di risoluzione, proprio per difetto di rilevanza dello stesso inadempimento »).
Il quinto motivo è rigettato.
4. Il sesto motivo denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., contestando che la Corte di appello abbia dichiarato la risoluzione del contratto per mutuo dissenso sulla base di un potere decisorio esercitato oltre i limiti fissati dalla disposizione. Si osserva che il giudice può rilevare d’ufficio determinate eccezioni solo se i fatti sottesi siano stati tempestivamente allegati o acquisiti ritualmente nel giudizio, conformemente ai principi stabiliti dalla giurisprudenza. La Corte di appello ha erroneamente affermato che la risoluzione per mutuo dissenso potesse essere riconosciuta in assenza di un accertamento sull’imputabilità dell’inadempimento a una delle parti. Ciò è privo di supporto probatorio, poiché gli atti dimostrano che gli acquirenti avevano adempiuto le proprie obbligazioni, predisponendo il pagamento del prezzo e dichiarandosi disponibili alla stipula del contratto nei termini concordati. Si reitera che la Corte ha confuso il documento n. 7, prodotto dagli acquirenti, con la «dichiarazione integrativa» mai prodotta dalla controparte, allegata alla e-mail del 29 ottobre 2010, e ha omesso di considerare che il promittente venditore aveva
subordinato la stipula del contratto di affitto all’accettazione da parte degli acquirenti di ulteriori oneri (caparra aggiuntiva di € 70.000) e al posticipo della stipula del contratto definitivo. Tali condizioni, non previste dal contratto preliminare, sono indicative dell’inadempimento del venditore, rendendo non giustificabile la declaratoria di risoluzione per mutuo dissenso.
Il sesto motivo è infondato.
Sul punto la decisione della Corte di appello è conforme all’orientamento di questa Corte. Cfr., tra le più recenti, Cass. 13118/2024: « In presenza di reciproche domande di risoluzione contrattuale fondate da ciascuna parte sugli inadempimenti dell’altra, il giudice che accerti l’inesistenza di singoli specifici addebiti, non potendo pronunciare la risoluzione per colpa di taluna di esse, deve dare atto dell’impossibilità dell’esecuzione del contratto per effetto della scelta di entrambi i contraenti ex art. 1453 co. 2 c.c. e pronunciare, comunque, la risoluzione del contratto, con gli effetti di cui all’art. 1458 c.c., essendo le due contrapposte manifestazioni di volontà dirette all’identico scopo dello scioglimento del rapporto negoziale ».
Il Collegio non ravvisa alcun motivo per distaccarsi da tale orientamento. Pur non potendo rinvenire il proprio fondamento normativo direttamente in quella parte d ell’art. 34 c.p.c. che dispone un’estensione dell’oggetto del giudicato per legge (indipendentemente dalla domanda di parte), tale orientamento è sorretto da una logica analoga a quella che ha ispirato il legislatore nel dettare l’art. 34 c.p.c. Infatti, l’impossibilità dell’esecuzione del contratto per effetto della scelta di entrambi i contraenti ex art. 1453 co. 2 c.c. di domandare la risoluzione del contratto (fondata da ciascuna parte su ll’ inadempimento dell’altra) si prospetta come un ostacolo preclusivo alla pronuncia sulla risoluzione del contratto per inadempimento imputabile all’una o all’altra. Su ciò si profila la necessità di decidere con efficacia di giudicato nel senso appunto dello scioglimento del rapporto contrattuale. Pertanto, non si dà alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c.
Il sesto motivo è rigettato.
– Il settimo motivo denuncia violazione degli artt. 2907 c.c., 99, 112 e 346 c.p.c., contestando che la Corte di appello abbia, d’ufficio, escluso la possibilità per gli acquirenti di ottenere la restituzione della caparra confirmatoria (trattenere la s omma di € 30.000 rispetto alla cifra da restituire in esito alla riforma della sentenza di primo grado). La Corte ha motivato tale decisione affermando che gli appellati non avevano reiterato la relativa domanda in appello, rimasta assorbita in primo grad o dall’accoglimento della domanda principale. Si rileva che la Corte di appello ha erroneamente applicato l’art. 346 c.p.c., poiché l’eccezione di decadenza derivante dalla mancata riproposizione di una domanda non è stata sollevata dalla controparte. In particolare, si argomenta che la Corte ha attribuito un vantaggio processuale agli attuali resistenti, che eccede il contenuto delle loro domande, in contrasto con l’art. 112 c.p.c. Si sottolinea inoltre che la presunzione di rinuncia prevista dall’art. 346 c.p.c. ha valore esclusivamente processuale e non sostanziale. Pertanto, la domanda non riproposta in appello può essere azionata in separato giudizio, non essendo opponibile il giudicato esterno in tale contesto.
Il quinto motivo è inammissibile in quanto è formulato dubitativamente, giacché contiene l’esplicita riserva di riproporre la domanda di restituzione della caparra confirmatoria in un successivo giudizio separato (potere di riproposizione che certamente spetta alla parte).
– Nelle conclusioni, la controricorrente chiede in via subordinata che sia dichiarata la decadenza dalla richiesta di restituzione della caparra e la risoluzione del contratto preliminare per esclusivo inadempimento della parte promissaria acquirente, con condanna al pagamento delle spese processuali in tutti i gradi.
Il rigetto del ricorso determina in ogni caso l’assorbimento di tale richieste.
– Il ricorso è rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
Inoltre, ai sensi dell’art. 13 co. 1 -quater d.p.r. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo unificato a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente a rimborsare alla parte controricorrente le spese del presente giudizio, che liquida in € 5.500 , oltre a € 200 per esborsi, alle spese generali, pari al 15% sui compensi, e agli accessori di legge, da corrispondere all’avv. NOME COGNOME dichiaratasi antistataria.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo unificato, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 03/12/2024.