Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 21994 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 21994 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 30/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5451/2022 R.G. proposto da : RAGIONE_SOCIALE domiciliata digitalmente ex lege , rappresentata e difesa da ll’avv . COGNOME (CODICE_FISCALE per procura speciale allegata al ricorso; -ricorrente- contro
NOME COGNOME NOME RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOME (in proprio e quale procuratore di COGNOME), COGNOME NOME RAGIONE_SOCIALE, domiciliati digitalmente ex lege , rappresentati e difesi dagli avv. COGNOME NOME (CODICE_FISCALE e COGNOME NOME (CODICE_FISCALE per procure speciali allegate al controricorso;
-controricorrenti-
nonché contro
COGNOME
-intimato- avverso la sentenza della Corte d’appello di L’Aquila n. 1789/2021, depositata il 13/12/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27/5/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. 1502/2011, il Tribunale di Pescara ( tra l’altro, e per quanto in questa sede più direttamente interessa) dichiarò nulla perché in frode alla legge – la cessione del ramo d’azienda d ella COGNOME di COGNOME RAGIONE_SOCIALE in favore della RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE, effettuata con atto pubblico del 15/1/2002.
La Corte d’appello di L’Aquila, in parziale accoglimento degli appelli proposti da RAGIONE_SOCIALE e da NOME COGNOME, rigettò, con riguardo al contratto di cessione suddetto, sia la domanda di nullità ex art. 1344 c.c. sia quella volta all’annullamento dello stesso ai sensi dell’art. 1394 c.c.
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 5849/2021, sul presupposto che ‘ la Corte territoriale esaminato solo alcune delle domande proposte e non possibile sostenere che dalle argomentazioni utilizzate con riferimento ad altre ipotesi di invalidità del contratto sarebbe possibile desumere una motivazione che copra anche l’ipotesi di causa illecita, come nullità del contratto di cessione di ramo di azienda ‘, cassò la sentenza impugnata, rinviando il procedimento al giudice a quo per ‘ valutare la eventuale fondatezza delle altre questioni di invalidità dedotte dagli odierni ricorrenti e
ritenute assorbite a seguito della iniziale pronuncia di nullità ex art. 1348 c.c .’ ( rectius , 1344 c.c.).
Pronunciandosi in sede di rinvio , la Corte d’appello di L’Aquila , dopo aver disposto il sequestro giudiziario del ramo d’azienda in discorso, confermò la statuizione di nullità del contratto già adottata dal giudice di primo grado, sia pure sul diverso presupposto del motivo illecito comune ex art. 1345 c.c. (integrante la questione rimasta ancora sub judice a seguito della pronuncia della Corte di cassazione). Opinò, in particolare, il giudice di seconde cure che l’operato del COGNOME denotasse il suo ‘chia ro intento (..), condiviso dalla De Febis e poi in concreto perseguito dalle parti, di svuotare RAGIONE_SOCIALE dell’intero patrimonio aziendale a vantaggio del Pavone e della RAGIONE_SOCIALE (società di famiglia del Pavone)’ (pag. 17 della sentenza in questa sede impugnata), e che ‘la natura illecita del motivo comune determinante (..) certamente riconosciuta in ragione della sussumibilità dell’intento perseguito dalle parti e delle condotte poste in essere per raggiungerlo in fattispecie penalmente rilevanti ‘ (pag. 19 della sentenza impugnata), successivamente sfociate in una sentenza di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p. nei confronti del COGNOME
La sentenza n. 1789/2021 della Corte d’appello di L’Aquila è stata impugnata per cassazione da Visa di COGNOME NOME RAGIONE_SOCIALE, con ricorso affidato a tre motivi. COGNOME di COGNOME NOME RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME (anche quale procuratore di NOME COGNOME) e la Parinsa di COGNOME NOME NOME RAGIONE_SOCIALE hanno resistito con controricorso.
La ricorrente ha depositato memoria ex art. 380bis .1 c.p.c., nella quale dà conto della declaratoria di inammissibilità del ricorso per revocazione proposto avverso la sentenza pure in questa sede impugnata (l’ordinanza – resa dalla Prima sezione di questa Corte reca il n. 23700 del 2022).
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la ‘violazione e/o falsa applicazione dei principi regolatori della cognizione del giudice di rinvio ex artt. 384 e 394 c.p.c. nonché la nullità della sentenza di rinvio per avere la corte territoriale omesso di uniformarsi al principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione e per indebita rinnovazione di iusdicere su parti coperte dal giudicato ex art. 2909 c.c. e 324 c.p.c. ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 e 4 c.p.c.’. Secondo una prima censura, la Corte d’appello non avrebbe potuto ‘confermare’ la sentenza di primo grado (ormai venuta meno a seguito della pronuncia della Corte di cassazione), dovendola piuttosto sostituire. In secondo luogo, la ricorrente lamenta che la Corte aquilana, ai fini dell’accertamento della fattispecie di cui all’art. 1345 c.c., avrebbe proceduto a un’inammissibile rivalutazione di circostanze la cui sussistenza era già stata esclusa, con efficacia di giudicato, dalla sentenza n. 861/2018, la quale invece aveva ‘indicato ed individuato con esattezza gli elementi (..) di cui tener conto’ (pag. 25 del ricorso per cassazione), segnatamente la natura fittizia dell’alienazione del ramo d’azienda, finalizzata all’impossessamento, da parte del COGNOME, dei beni della società, onde soddisfare il credito che egli riteneva di vantare nei confronti della COGNOME.
Il primo motivo è manifestamente privo di fondamento quanto alla prima censura, cioè quella con cui si sostiene – nel presupposto palesemente errato che la cassazione con rinvio avesse fatto venire meno anche la sentenza di primo grado – che a torto la corte di rinvio aquilana abbia ‘confermato’ la sentenza di primo grado sia pure a motivo di una nullità ai sensi dell’art. 1345 c.c. In realtà, l’uso dell’espressione ‘conferma’ da parte de lla corte territoriale è erroneo, ma del tutto innocuo: la corte di rinvio, provvedendo sulla domanda ex art. 1345 c.p.c., che non aveva esaminato ed avrebbe dovuto esaminare in quanto era stata riproposta ai sensi dell’art. 346
c.p.c. dagli appellati originari, una volta riformata la sentenza di primo grado, là dove aveva accolto l’altra domanda di nullità ex art. 1344 c.c., si è sbagliata perché ha sostanzialmente ritenuto di poter sostituire alla pronuncia di primo grado di accoglimento ai sensi dell’art. 1344 quella, adottata da lei, sulla domanda ex art. 1345 c.c., là dove, invece, formalmente avrebbe dovuto – dato che provvedeva per la prima volta sulla domanda ex art. 1345 c.c. dichiarare essa stessa la nullità della cessione di azienda.
Invero, a seguito della riforma operata dal primo giudice di appello, là dove aveva negato che fosse fondata la domanda di nullità ex art. 1344, la sentenza di primo grado dichiarativa della stessa nullità, era risultata caducata e -si badi -la Corte di Cassazione, con l’ordinanza dispositiva del rinvio, non si occupò di tale caducazione, non essendo stata la decisione in parte qua del primo giudice di appello in alcun modo censurata.
Senonché, la formulazione erronea adottata dalla corte di rinvio, non integra alcuna nullità, atteso che l’attribuzione del decisum di nullità alla sentenza di primo grado piuttosto che alla sentenza di appello non solo non si vede che pregiudizio abbia arrecato alla ricorrente (con conseguente inammi ssibilità della censura ai sensi dell’art. 360 -bis n. 2 c.p.c., secondo la lettura datane da Cass. n. 22341 del 2017 e successive conformi), ma, a monte, si presta nella sostanza ad essere intesa – leggendo la motivazione e considerando che la corte di rinvio provvedeva sull’omessa pronuncia censurata dall’ord inanza n. 5849 del 2021 – nel senso che la declaratoria di nullità ex art. 1345 sia imputabile alla sentenza di appello qui impugnata.
La seconda censura, diretta ad individuare una pretesa prescrizione da parte di detta ordinanza di quali circostanze il giudice di rinvio doveva esaminare è manifestamente infondata: lo è perché legge la motivazione dell’ordinanza dispositiva del rinvio non come deve essere letta, cioè come prescrittiva dell’esame della domanda riproposta, ritenuta a torto non esaminata dal primo giudice di
appello, con conseguente mera omissione di pronuncia, bensì come impositiva di limiti su che cosa per rimediare all’omessa pronuncia avrebbe la corte di rinvio dovuto esaminare. Il tenore ‘testuale’ evocato a pag. 26 del ricorso in alcun modo si può leggere come vorrebbe parte ricorrente. Correttamente la corte di rinvio ha esaminato le circostanze che il primo giudice aveva esaminato solo sul versante del l’art. 1344 c.c.
Assurda, perché contraddice la logica della cassazione per omessa pronuncia, è la prospettazione che l’omessa censura della sentenza di appello originaria quanto all’esclusione della rilevanza di dette circostanze avesse potuto dare luogo a giudicato interno. Tale giudicato concerneva la sola rilevanza di dette circostanze ai fini dell’azione ex art. 1344.
Pretestuose, per quanto osservato, sono poi le speculazioni che nella memoria parte ricorrente fa sulla decisione di inammissibilità della revocazione fatta dalla Prima Sezione.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1345 e 1418 e 115 e 116 c.p.c., ‘nonché vizio di motivazione’, per aver desunto la natura ‘comune’ del motivo illecito da un’imputazione penale che aveva attinto il solo COGNOME (e non la COGNOME), nonché dalle circostanze (irrilevanti a tale specifico fine) che la COGNOME fosse moglie del COGNOME e che avesse prestato attività lavorativa per la Feba, quando in realtà ‘l’atto di cessione d i ramo d’azienda non era stato utilizzato dalle parti per eludere l’applicazione di una norma imperativa’, né il motivo illecito ‘poteva ritenersi comune ai sensi dell’art. 1345 c.c. (..)’ (pag. 34 del ricorso per cassazione).
Il motivo è inammissibile, quanto alla deduzione del vizio di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., tenuto conto che, alla stregua della consolidata giurisprudenza di questa Corte, ‘ una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio
compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione’ (Cass., n. 6774/2022 ; si veda anche Cass., n. 10927/2024; e si veda già Cass. n. 11892 del 2016, i cui principi sono stati ribaditi anche da Cass., Sez. Un., n. 20867 del 2020). La Corte d’appello , del resto, non ha fatto dipendere la comunanza del motivo dalla necessità che parimenti comune fosse l’ imputazione penale, avendo, da un lato, esplicitato (al paragrafo 9.3 della sentenza in questa sede impugnata) le (diverse) circostanze di fatto valorizzate allo scopo e, dall’altro, richiamato i reati contestati al Pavone in relazione al diverso profilo dell’illiceità del motivo medesimo.
Il terzo motivo di ricorso censura la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., per avere la Corte d’appello condannato Visa al pagamento delle spese processuali in favore di COGNOME NOME e NOME e della COGNOME, nonostante questi fossero carenti di legittimazione, oltre che per avere omesso di condannare questi ultimi al pagamento delle spese processuali anche nei confronti dell’odierna ricorrente Questo motivo è inammissibile.
Al punto 8 della sentenza impugnata, la Corte d’appello di L’Aquila ha dichiarato l’inammissibilità della domanda risarcitoria proposta dalle società RAGIONE_SOCIALE e dai singoli soci nei confronti di NOME COGNOME nonché l’inammissibilità ‘delle domande, reiterate nel presente giudizio di rinvio, di declaratoria di inefficacia, di nullità (per ragioni diverse dalla illiceità del motivo comune alle parti) e di annullabilità dell’atto di cessione di azienda per cui è causa, essendo la pronuncia di rigetto di tali domande ormai passata in giudicato ‘
(pag. 14 della sentenza). Coerentemente, il giudice di secondo grado ha condannato, quindi, i COGNOME e COGNOME al pagamento delle spese processuali nei confronti del COGNOME, con statuizione rispetto alla quale l’odierna ricorrente è priva di interesse ad impugnare.
Per quel che riguarda, invece, il rapporto processuale tra l’attrice in riassunzione COGNOME e COGNOME e COGNOME, questi ultimi sono stati condannati al pagamento delle spese processuali in favore della prima in virtù della ritenuta prevalente soccombenza in ordine alla domanda di accertamento della nullità del contratto ex art. 1345 c.c., con motivazione in nessun modo attinta dal motivo in discorso, dovendosi conseguentemente applicare il principio di diritto di cui a Cass., n. 359/2005, alla cui stregua ‘ il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 n. 4 c.p.c. ‘.
In conclusione, il ricorso dev’essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente al pagamento in favore delle controricorrenti, in solido tra loro, delle spese processuali, che si liquidano in € 8.000,00 per compensi professionali ed € 200,00 per esborsi, oltre ad accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione