Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 3108 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2   Num. 3108  Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 02/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11449/2022 R.G. proposto da: COGNOME  NOME,  elettivamente  domiciliato    in  INDIRIZZO,  INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato AVV_NOTAIO che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
NOME COGNOME;
– intimata – avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di ROMA n. 1152/2022 depositata il 18/02/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/01/2024 dal Consigliere NOME COGNOME;
FATTI DI CAUSA
1. NOME COGNOME conveniva, dinanzi al Tribunale di Roma, NOME COGNOME, deducendo che in data 12.1.2005 aveva sottoscritto con la RAGIONE_SOCIALE la proposta irrevocabile di acquisto dell’immobile costituito dal Villino 2INDIRIZZO, all’epoca ancora in costruzione, facente parte del complesso edilizio sito nel Comune di Roma, INDIRIZZO, di seguito definitivamente ubicato in INDIRIZZO per un prezzo complessivo per l’acquisto di € 315.000,00 di cui € 5.000,00 da versarsi al momento dell’accettazione della proposta e che personalmente si era onerato del pagamento, oltre che di detto importo, anche del versamento di ulteriori € 160.208,00, fino al momento della consegna dell’immobile.
L’attore sosteneva che egli, in qualità di compromissario aveva stipulato con RAGIONE_SOCIALE il contratto di fornitura di gas e aveva chiesto all’impresa di costruzione alcune modifiche all’immobile tra le quali l’apertura di una finestra nel sottotetto . Successivamente, in data 15 settembre 2006, in forza di un mandato senza rappresentanza conferito alla coniuge NOME COGNOME, era stato stipulato il contratto definitivo di compravendita ove la parte acquirente, in luogo del COGNOME, divenuto mandante, era la mandataria COGNOME. La medesima situazione si era determinata anche in relazione al mutuo che veniva intestato a quest’ultima per la residua somma di € 150.000,00 .
Il COGNOME precisava che tutte le rate per l’estinzione del mutuo erano state versate da lui e non dalla COGNOME in quanto i versamenti venivano effettuati in contanti, prima di ogni singola scadenza, su un nuovo conto corrente bancario all’uopo acceso presso la filiale RAGIONE_SOCIALE Banca ove il COGNOME aveva già il proprio rapporto bancario.
L ‘attore lamentava, quindi, che successivamente all’acquisto dell’immobile  la  COGNOME,  nella  sua  qualità  di  mandataria  avrebbe dovuto  provvedere  al  ri-trasferimento  dello  stesso  in  capo  al legittimo  proprietario  e  che  ciò  non  era  avvenuto  nonostante  i numerosi inviti in tal senso formulati.
Ciò premesso, il COGNOME chiedeva al Tribunale di Roma di accertare e dichiarare che tutte le somme versate sia in favore della RAGIONE_SOCIALE che avevano preceduto il rogito, sia quelle successive e corrispondenti alle rate del mutuo fondiario, erano state corrisposte esclusivamente dal COGNOME per la compravendita dell’immobile; chiedeva, inoltre, di accertare e dichiarare la sussistenza di un mandato senza rappresentanza di cui all’art. 1705 c.c. dall’attore conferito a COGNOME NOME per il perfezioname nto in nome di costei ma per conto del primo, del trasferimento di proprietà del suddetto immobile attraverso la stipula notarile del 13.9.2006 nonché della stipula, in pari data, del mutuo fondiario con la RAGIONE_SOCIALE Banca S.p.A. nonché accertare il grave inadempimento da parte della mandataria in quanto in violazione dell’art. 1706, comma 2, c.c. non aveva portato a termine l’incarico conferitole non provvedendo al trasferimento della proprietà dell’immobile in capo al mandante NOME COGNOME. Conseguentemente, chiedeva l’emissione di sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. che tenesse luogo del mancato trasferimento come invece avrebbe dovuto aversi ai sensi dell’art. 1706 c.c. .
In via subordinata, il COGNOME svolgeva domanda di ingiustificato arricchimento in danno dell’attore e conseguentemente chiedeva la condanna  della  COGNOME  alla  refusione  di  tutte  le  somme  versate indicate in € 165.208,00, oltre interessi e rivalutazione
 NOME  COGNOME  si  costituiva  in  giudizio  chiedendo  il  rigetto delle domande attoree.
Il  T ribunale, espletata l’istruttoria necessaria, rigettava le domande.
 NOME  COGNOME  proponeva  appello  avverso  la  suddetta sentenza.
NOME COGNOME si costituiva in appello chiedendone il rigetto.
La Corte d’Appello di Roma rigettava il gravame. In particolare, la Corte evidenziava che gli elementi probatori offerti dal COGNOME ed acquisiti al giudizio per provare l’esistenza del mandato senza rappresentanza non risultavano né gravi, né precisi né concordanti, neppure se valutati globalmente. Infatti, seppure per la sussistenza del mandato senza rappresentanza, anche in caso di compravendita di immobili, non occorre la prova scritta, prova che può essere dunque fornita anche attraverso presunzioni, è comunque onere del mandante provare l’esistenza del mandato.
L’appellante era divenuto dal 1996 collaboratore di giustizia con riguardo a vicende relative all’organizzazione criminale ‘RAGIONE_SOCIALE‘ , sicché nei suoi confronti era stato avviato il programma di protezione, con l’assegnazione di una nuova identità, dapprima provvisoria nel 2000 e poi definitiva nel periodo 2006/2007. Egli poi aveva chiesto di uscire dal programma di protezione nel 2005 e nel corso del 2006 aveva ottenuto la capitalizzazione delle misure di assistenza, sicché -sebbene fino a quel momento non avesse potuto svolgere attività imprenditoriali né essere titolare di beni, stante la specifica regolamentazione del suo ‘status’ avrebbe avuto una serie di proventi, ivi compresi quelli derivanti dalla vendita di immobili intestati alla moglie ma acquistati con denaro
del COGNOME, con i quali non solo aveva potuto versare la caparra e una quota del prezzo d ell’ immobile oggetto della causa, ma aveva anche  potuto  pagare  i  ratei  del  mutuo  (acceso  al  momento dell’acquisto ed intestato alla COGNOME) fino al novembre 2014, quando poi la COGNOME aveva chiuso il conto corrente bancario utilizzato per detto adempimento.
Sulla base di queste premesse, dunque, il COGNOME ribadiva che le  modalità  con  le  quali  l’acquisto  dell’immobile era  avvenuto trovavano  spiegazione  in  questa  sua  particolare  situazione  di persona ‘protetta’, che non poteva intestarsi  beni e che aveva, però, una grande disponibilità di denaro movimentato su vari conto correnti, sui quali operavano sia lui che la moglie.
La Corte d’Appello, ciò premesso evidenziava che il Tribunale aveva già esaminato tutti questi elementi giungendo alla conclusione che gli stessi non risultavano di per sé univocamente significativi nel senso invocato dal COGNOME. Questi li aveva riproposti nuovamente in appello, senza in realtà offrire adeguate e specifiche contro-argomentazioni alla sentenza del Tribunale. Non assumeva valenza probatoria la procura generale che non presupponeva necessariamente a seguito del cambio di identità un mandato senza rappresentanza, quando peraltro i coniugi erano già separati. Inoltre, la rinuncia al programma di protezione deponeva nel senso che il COGNOME poteva gestire personalmente i suoi affari sicché non emergeva alcun filo logico o di continuità tra la procura generale e la nuova situazione, essendo, appunto, mutate le esigenze. Peraltro, l’esistenza della procura generale contraddiceva il fatto che successivamente il COGNOME aveva rilasciato un mandato non formalizzato.
Con riguardo, poi, alle attività propedeutiche al rogito -prenotazione dell’immobile da costruire e preliminare per il medesimo immobile -il Tribunale aveva già ampiamente risposto, evidenziando che dette attività, avevano riguardato trattative poi sicuramente modificate nel rogito finale, sicché vi era stata una soluzione di continuità tra i due atti. Peraltro, oltre alla diversità di prezzo, si notavano ulteriori elementi di diversità. Uno di questi riguardava il mutuo: la parte del prezzo pari ad Euro 150.000,00 era prevista, nel preliminare, con l’ac collo del mutuo (da frazionare) già riferito alla venditrice, stipulato con la Cassa di Risparmio di Civitavecchia; in alternativa, era previsto il riferimento a Intesa San Paolo presso la sede di Roma Eur. Nel contratto definitivo, non vi era alcun accollo della quota-mutuo già ottenuto dalla società venditrice, bensì questo era estinto mediante l’utilizzo di quello acceso presso la banca UNIPOL e non vi era alcun riferimento al meccanismo di conteggio del preliminare, mirato a diversificare gli oneri del mutuatario. Il prezzo finale, inoltre, era ridotto rispetto al preliminare (di qui la discontinuità indicata dal Tribunale) e, contrariamente a quanto affermato dal COGNOME, non coincideva affatto con l’importo dell’accollo (150.000,00 euro), visto che veniva dato atto dell’importo complessivo di Euro 155.000,00 di cui Euro 5.000,00 versati con un assegno della COGNOME dal conto esistente presso Banca di Roma.
Non emergeva in alcun modo un elemento idoneo a sostenere la ‘simulazione’ parziale del prezzo: piuttosto, era da segnalare un aspetto del tutto nuovo che caratterizzava il contratto definitivo e segnatamente  l’indicazione  di  altra  ipoteca  (ENPAM)  in  via  di cancellazione (non indicata nel preliminare) e di un acquisto ‘prima
casa’ rispetto al quale la COGNOME indica va la vendita di altro immobile adibito a prima abitazione avvenuto poco tempo prima, al fine di ottenere le agevolazioni fiscali.
Il Tribunale aveva anche escluso la rilevanza della intestazione, al COGNOME, de ll’utenza ‘RAGIONE_SOCIALE e doveva, infine, aggiungersi che l’utilizzo, da parte del COGNOME, dell’ immobile era avvenuto sulla base di un contratto di comodato gratuito quadriennale (dal 2008), circostanza che, sebbene non documentata, era pacifica tra le parti. Ciò giustificava anche il perché il COGNOME si fosse interessato all’arredo e ad alcuni lavori. Del resto, era lo stesso COGNOME ad ammettere che, pur nel contenzioso tra le parti, aveva proposto l’intestazione del bene al figlio, a dimostrazione dunque che il suo interessamento (anche per i lavori di falegnameria) trovava una sua spiegazione razionale senza dover necessariamente ricondursi alla interposizione reale.
Le  parti  in  sede  di  divorzio  congiunto  avevano  anche  avuto l’occasione  di  definire  tutte  le  questioni  in  punto  di  intestazioni immobiliari  e i  rapporti  dare/avere  tra  i  medesimi:  l’assenza  di qualsivoglia regolamentazione diversa della proprietà dell’immobile di  INDIRIZZO  era  un  elemento  grave  e  concordante  con  gli  altri esposti, in assoluto contrasto con la tesi sostenuta dal COGNOME che, pertanto, aveva offerto elementi non univoci né concordanti.
Né, infine, l’avvenuto pagamento di ratei del mutuo intestato alla  RAGIONE_SOCIALE -poteva  deporre  nel  senso  richiesto:  i  versamenti  in contanti  (anche  se  con  delega  della  COGNOME  fino  al  2013)  non attestavano di certo che la proprietà del denaro fosse riconducibile al COGNOME, mentre i bonifici (per alcune mensilità e non di certo per tutto  il  periodo  decorrente  dal  2006),  pur  provenendo  dal  conto
intestato al COGNOME presso la medesima filiale RAGIONE_SOCIALE, non potevano essere di per sé soli significativi.
In sostanza, la promiscuità che aveva caratterizzato le posizioni economiche delle parti in giudizio -in assenza di prove rigorose -non consentiva in alcun modo di ricondurre esclusivamente al COGNOME dette somme, tenuto conto -appunto -dei complessi rapporti dare/avere tra i medesimi che, come risultava da un foglio di appunti allegato agli atti, dividevano in vario modo le spese di gestione familiare anche dopo la separazione avvenuta di certo non nel 2013 (quando cioè era avvenuta la revoca della delega in banca) bensì nel 1999 o, al più tardi, nel 2001.
Per gli stessi motivi doveva rigettarsi la domanda ex art. 2041 c.c. essendoci promiscuità tra i conti bancari e difficoltà di ricostruzione della provenienza delle disponibilità economiche in capo alle parti in giudizio in modo tale da non consentire, in assenza di elementi gravi, precisi e concordanti, di affermare l’esistenza di un depauperamento del patrimonio in capo al COGNOME che risultava, invero, essere stato destinatario di versamenti a cura della exmoglie e che, peraltro, neppure in occasione del divorzio congiunto aveva formulato alcuna rivendicazione nei rapporti dare/avere tra loro.
Tale condotta, unitamente  agli altri elementi già sopra esaminati  con  riguardo  al  primo  motivo  di  gravame  nonché  alla circostanza relativa all’utilizzo di versamenti in contanti presso il conto UNIPOL ( destinato al pagamento dei ratei di mutuo) da parte del COGNOME che, nella stessa filiale, aveva un proprio conto corrente dal quale poteva (come ha fatto solo in alcune singole occasioni nel
2014) effettuare direttamente il bonifico, conduceva ad escludere la  sussistenza  dei  presupposti per  l’accoglimento  d ella  domanda subordinata.
Le prove orali -come già indicato dal Tribunale -erano del tutto irrilevanti.
Infine, le spese di lite non potevano essere compensate stante la soccombenza integrale del COGNOME.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di due motivi di ricorso.
NOME COGNOME ha resistito con controricorso.
 Entrambe  le  parti  con  memoria  depositata  in  prossimità dell’udienza ha nno insistito nelle rispettive richieste.
RAGIONI DELLA DECISIONE
 Il  primo  motivo  di  ricorso  è  così  rubricato:  violazione dell’art. 2729 c.c. per aver la Corte territoriale negato, in tema di presunzioni  semplici,  la  gravità,  la  precisione,  e  la  concordanza degli  indizi dell’esistenza  di  un mandato  senza  rappresentanza intercorrente tra il COGNOME e la COGNOME.
Secondo il ricorrente nel caso di specie vi sarebbero sufficienti indizi per affermare in via presuntiva l’esistenza del mandato senza rappresentanza: in primo luogo, la procura generale conferita alla COGNOME, divenuta inutilizzabile dal momento del cambio di generalità, che costituirebbe l’antecedente storico e logico del mandato; la sottoscrizione del COGNOME della proposta irrevocabile di acquisto ad egli intestata -ed il relativo pagamento della caparra; la sottoscrizione del COGNOME del contratto preliminare di compravendita immobiliare, anch’esso ad egli intestato; i pagamenti degli acconti sul prezzo dell’immobile eseguiti dal
COGNOME; il fatto che il COGNOME sia stato destinatario del preventivo dei lavori nell’immobile da egli stesso richiesti quali varianti; il fatto che il COGNOME avesse commissionato l’acquisto e la posa in opera di cucina in muratura; le ricevute dei pagamenti eseguiti dal COGNOME rilasciate dal costruttore; il pagamento dei ratei di mutuo (in contanti presso lo sportello dell’istituto mutuante oppure a mezzo bonifico) fino alla revoca da pare della COGNOME della delega al COGNOME di operare sul c.c. bancario.
Tali indizi sarebbero concordanti perché tutti tesi ad un unico fine  e  ad  un  unico  obiettivo:  attribuire  soltanto  formalmente  la proprietà dell’immobile alla COGNOME .
Inoltre, vi sarebbe una evidente contraddizione nella motivazione  della  sentenza  nella  parte  in  cui  si  afferma  la  non continuità tra preliminare e definitivo così come sarebbe erronea l’affermazione circa la diversità del prezzo di vendita e del mutuo.
1.1 Il primo motivo di ricorso è infondato.
In primo luogo deve ribadirsi con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 2729 cod. civ., che la consolidata giurisprudenza di questa Corte, ha chiarito che spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio,
restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo, e neppure occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo criterio di normalità, visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (Sez. L, Ordinanza n. 22366 del 05/08/2021, Rv. 662103 – 01).
Nel  caso  in  esame  la  Corte  d’Appello  e  prima  ancora  il Tribunale hanno ampiamente motivato circa le ragioni per le quali non  poteva ritenersi provato il rapporto di  mandato  senza rappresentanza tra il ricorrente e la ex coniuge COGNOME.
La motivazione della sentenza impugnata riportata per esteso nella parte in fatto è ampia ed esaustiva e il ricorrente con il motivo in  esame richiede  un’inammissibile  rivalutazione  delle  risultanze istruttorie, attività che esula dai compiti di questa Corte essendo riservata  al  giudice  del  merito  e  non  censurabile  in  sede  di legittimità, se congruamente motivata.
Dunque, la censura di violazione dell’art. 2 729 c.c. è del tutto infondata  così  come  quella  di  insanabile  contraddizione  della motivazione della sentenza.
Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione degli artt.  115  e  116  stante  la  motivazione  apparente  circa  le  prove documentali emerse nel giudizio.
La censura è rivolta alla mancanza di motivazione in ordine al rigetto della domanda di arricchimento senza causa. Il ricorrente
ripercorre  la  motivazione  della  Corte  d’Appello  e  ritiene  che  la stessa sia apparente e non tenga conto delle prove documentali, senza peraltro ammettere le prove orali.
2.1 Il secondo motivo è inammissibile.
Il  ricorrente,  con  il  motivo  in  esame,  lamenta  sia  il  vizio  di motivazione apparente che la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.
La censura proposta come vizio di motivazione è inammissibile.
Questa Corte a sezioni unite ha chiarito che dopo la riforma dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., operata dalla legge 134/2012, il sindacato sulla motivazione da parte della cassazione è consentito solo quando l’anomalia motivazionale si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; in tale prospettiva detta anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. motivazionale non esiste, perché la Corte d’Appello arricchimento senza causa non essendo provato
Cass. Sez. un. 8053/2014); – nel caso di specie, la grave anomalia ha sufficientemente motivato le ragioni del rigetto della domanda di un depauperamento del patrimonio in capo al COGNOME che risultava, invero,  essere  stato  destinatario  di  versamenti  a  cura  della  exmoglie e che, peraltro, neppure in occasione del divorzio congiunto
aveva formulato alcuna rivendicazione nei rapporti dare/avere tra loro. La Corte, sulla base degli stessi motivi che escludevano la prova del mandato senza rappresentanza, ha ritenuto che doveva rigettarsi anche la domanda ex art. 2041 c.c. essendoci promiscuità tra i conti bancari e difficoltà di ricostruzione della provenienza delle disponibilità economiche in capo alle parti in giudizio in modo tale da non consentire, in assenza di elementi gravi, precisi e con cordanti, di affermare l’esistenza d ei presupposti per l’accoglimento della domanda .
Anche volendo riqualificare la censura sotto il profilo dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti la stessa non sarebbe ammessa in un caso come quello in esame in cui la sentenza della Corte d’Appello è d el tutto conforme a quella di primo grado (c.d. ‘doppia conforme’).
Deve farsi applicazione del seguente principio di diritto: Nell’ipotesi di ‘doppia conforme’ prevista dall’art. 348 ter c.p.c., comma 5, il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, deve indicare l e ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 5528/2014), adempimento nella specie non svolto. Va invero ripetuto che ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, le regole sulla pronuncia cd. doppia conforme si applicano ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del citato decreto (id est, ai giudizi di appello introdotti dal giorno 11 settembre 2012).
Quanto alla dedotta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. La censura proposta è manifestamente inammissibile risolvendosi espressamente anche in questo caso nella richiesta di rivalutazione degli elementi istruttori, mentre per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892 del 2016, Cass. S.U. n. 16598/2016). Inoltre, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa -secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria
(come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione. (Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 – 02).
Il ricorso è rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater D.P.R. n. 115/02, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle  spese  del  giudizio  di  legittimità  nei  confronti  della  parte controricorrente che liquida in euro 8500, più 200 per esborsi, oltre al rimborso forfettario al 15% IVA e CPA come per legge;
ai  sensi  dell’art.  13,  co.  1  quater,  del  d.P.R.  n.  115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, I. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato  pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto;
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione