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Lucro cessante: prova del danno e onere del creditore

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 15609/2024, chiarisce i requisiti per il risarcimento del danno da lucro cessante a seguito di uno sfratto illegittimo. La Corte ha rigettato il ricorso di una società conduttrice, sottolineando che il creditore ha l’onere di provare l’esistenza stessa del danno (‘an debeatur’) prima che il giudice possa procedere a una sua quantificazione, anche in via equitativa. La semplice illegittimità dello sgombero non è sufficiente a fondare il diritto al risarcimento del mancato guadagno se non viene fornita una prova concreta della sua esistenza.

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Lucro cessante: la prova del danno è un onere imprescindibile per il creditore

L’ordinanza n. 15609 del 4 giugno 2024 della Corte di Cassazione offre un’importante lezione sul tema del risarcimento del danno, in particolare per quanto riguarda il lucro cessante. La vicenda, nata da uno sfratto poi dichiarato illegittimo ai danni di una concessionaria d’auto, chiarisce un principio fondamentale: per ottenere un risarcimento per mancato guadagno, non basta subire un’ingiustizia, ma è necessario provare concretamente l’esistenza del danno. Vediamo nel dettaglio la decisione della Suprema Corte.

I Fatti di Causa

Una società che gestiva una concessionaria d’auto veniva costretta a rilasciare l’immobile in affitto a seguito di un’ordinanza di sfratto. Successivamente, la Corte d’Appello riformava tale decisione, dichiarando di fatto l’illegittimità dello sgombero forzato. A quel punto, la società conduttrice avviava una nuova causa per ottenere il risarcimento dei danni subiti, chiedendo il ristoro sia per i costi sostenuti (danno emergente) sia per i mancati guadagni (lucro cessante), oltre all’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale.

Il Tribunale di primo grado accoglieva parzialmente la domanda, riconoscendo un risarcimento di 35.300 euro per il lucro cessante, liquidato in via equitativa. Tuttavia, la Corte d’Appello, accogliendo il ricorso dei proprietari dell’immobile, ribaltava completamente la sentenza, respingendo tutte le richieste della società. La motivazione principale del giudice d’appello era la mancanza di prova, da parte della concessionaria, dell’esistenza stessa dei danni lamentati.

I Motivi del Ricorso in Cassazione

La società conduttrice si è rivolta alla Corte di Cassazione, basando il proprio ricorso su tre motivi principali:

1. Violazione del principio del tantum devolutum: La ricorrente sosteneva che la Corte d’Appello avesse erroneamente riesaminato l’esistenza del danno da lucro cessante, mentre l’appello dei locatori si sarebbe limitato a contestarne solo l’eccessiva quantificazione.
2. Difetto di motivazione: Secondo la società, la Corte d’Appello non avrebbe adeguatamente spiegato le ragioni per cui riteneva inesistente il danno da lucro cessante, limitandosi a enunciare la mancanza di prova senza un’analisi approfondita.
3. Errata applicazione della legge sull’indennità di avviamento: La concessionaria lamentava il mancato riconoscimento dell’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale, un diritto che, a suo dire, le spettava per legge a seguito della cessazione del rapporto di locazione non imputabile a sua colpa.

Le Motivazioni della Corte

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, fornendo chiarimenti cruciali su ciascuno dei punti sollevati.

Sulla prova del lucro cessante

Il cuore della decisione riguarda i primi due motivi, strettamente connessi. La Suprema Corte ha innanzitutto stabilito che l’appello dei locatori aveva correttamente messo in discussione non solo il quantum (l’ammontare) del danno, ma anche l’an debeatur (l’esistenza stessa del diritto al risarcimento). Pertanto, la Corte d’Appello aveva pieno titolo per esaminare la questione nel merito.

Ancora più importante è il principio riaffermato in materia di onere della prova. La Cassazione ha ricordato che il potere del giudice di liquidare il danno in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., è uno strumento che serve a determinare l’ammontare del risarcimento quando è impossibile o molto difficile provarne il preciso importo. Tuttavia, tale potere non può mai sostituire l’onere, gravante sul danneggiato, di provare che un danno si sia effettivamente verificato.

In altre parole, il creditore deve prima dimostrare, con prove concrete, di aver subito un mancato guadagno. Solo dopo aver assolto a questo onere, se la quantificazione esatta risulta complessa, il giudice può intervenire con una valutazione equitativa. Nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva correttamente rilevato che la società non aveva fornito alcuna prova dell’esistenza del lucro cessante, rendendo quindi impossibile qualsiasi forma di risarcimento.

Sull’Indennità di Avviamento

Il terzo motivo è stato dichiarato inammissibile per una ragione prettamente procedurale. La società ricorrente, nel suo atto di ricorso, si era limitata a menzionare una serie di documenti (come il verbale di rilascio dei locali e precedenti sentenze) senza però riprodurli nel testo o indicare con precisione dove fossero reperibili all’interno del fascicolo processuale.

La Corte ha ribadito il principio di specificità dei motivi di ricorso, secondo cui è onere del ricorrente fornire alla Corte tutti gli elementi necessari per decidere, senza che i giudici debbano compiere un’attività di ricerca degli atti. La violazione di questo principio ha impedito alla Corte di valutare nel merito la richiesta relativa all’indennità.

Le Conclusioni

La decisione della Cassazione rafforza due principi cardine del diritto processuale e civile. In primo luogo, chiunque chieda un risarcimento per lucro cessante deve essere in grado di provare, prima di ogni altra cosa, che un mancato guadagno c’è stato. L’illegittimità di un’azione subita (come uno sfratto) non genera automaticamente un diritto al risarcimento, ma costituisce solo il presupposto per poterlo chiedere, a patto di dimostrarne l’effettiva esistenza. In secondo luogo, la precisione e la specificità nella redazione degli atti processuali, specialmente in sede di legittimità, sono requisiti indispensabili per vedere esaminate le proprie ragioni.

Quando un giudice può liquidare un danno in via equitativa?
Il giudice può utilizzare la valutazione equitativa (art. 1226 c.c.) solo per determinare l’ammontare di un danno (quantum) la cui esistenza (an debeatur) sia già stata provata dal danneggiato, ma che risulti impossibile o particolarmente difficile da quantificare nel suo preciso importo.

Per ottenere il risarcimento per lucro cessante è sufficiente dimostrare di aver subito un’ingiustizia, come uno sfratto illegittimo?
No. Secondo la Corte, subire un’azione illegittima è solo il presupposto per la richiesta di risarcimento. Il danneggiato ha sempre l’onere di fornire la prova concreta che, a causa di quell’azione, ha effettivamente subito un mancato guadagno.

Perché è importante essere specifici quando si presentano documenti in un ricorso per cassazione?
È fondamentale per rispettare il principio di specificità del ricorso (art. 366 c.p.c.). Il ricorrente deve mettere la Corte Suprema nelle condizioni di valutare la censura, riproducendo gli atti rilevanti o indicando con precisione la loro collocazione nel fascicolo. La Corte non ha il compito di cercare i documenti per conto delle parti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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