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Lucro cessante appalto: la Cassazione e il criterio 10%

In una lunga controversia relativa a un contratto di logistica, la Corte di Cassazione ha confermato la decisione di merito che liquidava il danno da lucro cessante in via equitativa. A seguito dell’inadempimento della società committente, che aveva azzerato le commesse, la società appaltatrice chiedeva il risarcimento. Data la difficoltà di provare l’esatto utile netto perso, i giudici hanno ritenuto legittimo applicare per analogia il criterio del 10% del corrispettivo non percepito, mutuato dalla disciplina degli appalti pubblici, rigettando il ricorso della società di logistica.

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Lucro Cessante Appalto: la Cassazione Applica il Criterio del 10% dei Lavori Pubblici

La quantificazione del lucro cessante in un appalto privato rappresenta una delle sfide più complesse per le aule di giustizia, specialmente quando l’inadempimento del committente porta all’interruzione totale del servizio. Con l’ordinanza n. 30494 del 2024, la Corte di Cassazione ha fornito un’importante chiarificazione, confermando la legittimità del ricorso a un criterio equitativo mutuato dal settore degli appalti pubblici per stabilire il giusto risarcimento.

I Fatti di Causa

La vicenda giudiziaria, durata oltre vent’anni, trae origine da un contratto di appalto per servizi di logistica. Una società specializzata nel settore gestiva la custodia e la movimentazione delle merci per un noto gruppo commerciale. A partire dal gennaio 2000, la società committente riduceva progressivamente, fino ad azzerarle, le quantità di merci da movimentare, determinando di fatto un recesso unilaterale e illegittimo dal contratto.

La società di logistica citava in giudizio la committente, chiedendo un cospicuo risarcimento per i danni subiti, in particolare per il mancato guadagno (lucro cessante). Il percorso processuale è stato tortuoso:
1. Il Tribunale di primo grado rigettava la domanda, pur riconoscendo l’illecito, per mancata prova del danno.
2. La Corte d’Appello, in riforma della prima sentenza, condannava la committente al risarcimento, identificando il lucro cessante con i ricavi non percepiti.
3. La Corte di Cassazione, con una prima pronuncia, cassava la sentenza d’appello, criticando l’equiparazione automatica tra ricavi e utile netto e rinviando il giudizio a un’altra sezione della Corte d’Appello per una nuova valutazione.
4. Il giudice del rinvio, constatata l’oggettiva difficoltà di provare l’esatto ammontare dei costi risparmiati e quindi dell’utile netto, liquidava il danno in via equitativa, applicando per analogia il criterio del 10% del corrispettivo dei servizi non eseguiti, previsto dalla normativa sugli appalti pubblici.

È contro quest’ultima decisione che la società di logistica ha proposto un nuovo ricorso in Cassazione.

I Motivi del Ricorso e la Questione del Lucro Cessante Appalto

La società ricorrente ha articolato il proprio ricorso in nove motivi, incentrati principalmente su due argomenti:

1. Errata Valutazione della Prova

Secondo la ricorrente, la Corte d’Appello avrebbe errato nel non riconoscere la coincidenza tra ricavi mancati e danno risarcibile. Ciò in virtù del carattere ‘anelastico’ dei costi, ovvero costi fissi che la società avrebbe sostenuto comunque, anche senza la commessa. Di conseguenza, il mancato ricavo si sarebbe tradotto interamente in una perdita di utile. La società lamentava che il giudice non avesse esaminato adeguatamente le prove documentali e testimoniali fornite a sostegno di questa tesi.

2. Illegittimità del Criterio Equitativo del 10%

In subordine, la ricorrente contestava l’applicazione del criterio equitativo del 10%, ritenendolo una regula iuris inappropriata e illegittima per un appalto privato. Sosteneva che i propri documenti contabili indicassero una marginalità ben superiore, oscillante tra il 12,5% e il 13,3%, e che il giudice avrebbe dovuto basarsi su questi dati anziché ricorrere a un’analogia con il settore pubblico.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la correttezza del ragionamento seguito dalla Corte d’Appello.

I giudici hanno innanzitutto ribadito un principio fondamentale: in materia di risarcimento del danno, il lucro cessante corrisponde all’utile netto che l’appaltatore avrebbe conseguito, non al semplice ricavo lordo. Spetta all’appaltatore che chiede il risarcimento fornire la prova di tale utile, dimostrando quali costi avrebbe risparmiato grazie alla mancata esecuzione del contratto. La prova del carattere ‘anelastico’ dei costi, e quindi della coincidenza tra ricavo e utile, grava sulla parte che la allega.

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che tale prova non fosse stata raggiunta in modo congruo e decisivo. Le produzioni documentali e le testimonianze non sono state considerate sufficienti a smentire il principio generale.

Di fronte a questa carenza probatoria e all’oggettiva difficoltà nel distinguere i costi specifici della commessa dalla contabilità generale dell’azienda (che gestiva servizi analoghi per altri clienti nello stesso magazzino), la Corte ha ritenuto pienamente legittimo il ricorso alla liquidazione equitativa del danno, ai sensi dell’art. 1226 c.c.

La scelta di utilizzare come parametro il 10% del corrispettivo pattuito per le prestazioni non eseguite è stata considerata ragionevole e non arbitraria. Tale criterio, consolidato nella disciplina degli appalti pubblici in caso di recesso dell’amministrazione, rappresenta un parametro presuntivo che bilancia l’esigenza di risarcire l’appaltatore con l’impossibilità di una quantificazione esatta del danno. La Corte ha sottolineato come tale criterio fosse anche coerente con le stesse stime prodotte dalla ricorrente, che indicavano un utile netto non molto distante da quella percentuale.

Le Conclusioni

L’ordinanza in esame consolida un orientamento giurisprudenziale di grande rilevanza pratica. Stabilisce che, in un lucro cessante appalto privato, qualora sia difficile o impossibile per l’appaltatore fornire la prova rigorosa del mancato utile netto, il giudice può procedere a una liquidazione equitativa. L’applicazione analogica del criterio del 10%, mutuato dal diritto degli appalti pubblici, costituisce uno strumento valido e legittimo per questa valutazione, offrendo una soluzione equilibrata che garantisce certezza giuridica e tutela la parte adempiente.

Come viene calcolato il lucro cessante in un appalto se l’importo esatto non è dimostrabile?
Quando è impossibile o eccessivamente difficile provare l’esatto ammontare del mancato guadagno (utile netto), il giudice può procedere a una liquidazione equitativa del danno, basandosi su una valutazione ponderata e ragionevole degli elementi a disposizione.

È possibile applicare una norma prevista per gli appalti pubblici a un contratto tra privati?
Sì, la Corte di Cassazione ha confermato che, in sede di liquidazione equitativa del danno, il giudice può utilizzare per analogia un criterio presuntivo previsto dalla normativa sugli appalti pubblici, come quello del 10% del valore delle prestazioni non eseguite, se lo ritiene un parametro ragionevole per il caso concreto.

Su chi ricade l’onere di provare che i mancati ricavi corrispondono interamente a un mancato utile?
L’onere della prova grava sull’appaltatore che chiede il risarcimento. È quest’ultimo a dover dimostrare che i propri costi non sarebbero diminuiti nonostante la mancata esecuzione del contratto (cosiddetta ‘anelasticità’ dei costi), altrimenti il lucro cessante viene calcolato come differenza tra i ricavi non percepiti e i costi risparmiati.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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