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Liquidazione giudiziale: prova del credito e oneri

Una creditrice ha richiesto l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti di una società che aveva acquisito un ramo d’azienda dalla sua originaria debitrice. La Corte di Cassazione, dichiarando inammissibile il ricorso della società, ha confermato che per avviare la procedura non è necessario un credito definitivamente accertato e che l’onere di provare la non assoggettabilità alla liquidazione grava interamente sul debitore, il quale non può limitarsi a produrre bilanci non approvati o non depositati.

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Liquidazione giudiziale: quando la prova del credito non deve essere definitiva

L’apertura della liquidazione giudiziale rappresenta un momento cruciale per la vita di un’impresa e per i suoi creditori. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito importanti chiarimenti sui requisiti necessari per avviare tale procedura, soffermandosi in particolare sulla natura del credito e sugli oneri probatori a carico delle parti. La decisione sottolinea come non sia richiesto un credito definitivamente accertato e ribadisce il gravoso onere del debitore di dimostrare la propria non assoggettabilità alla procedura.

I Fatti di Causa

Il caso trae origine dalla richiesta di una lavoratrice di aprire la liquidazione giudiziale nei confronti di una società a responsabilità limitata semplificata. La creditrice vantava un “credito di lavoro” originariamente sorto verso un’altra azienda, il cui ramo d’azienda era stato successivamente acquisito dalla società convenuta. Il Tribunale di Roma, in prima istanza, accoglieva la richiesta e dichiarava aperta la liquidazione.

La società debitrice proponeva reclamo presso la Corte d’Appello, la quale, tuttavia, rigettava l’impugnazione. La Corte territoriale riteneva sufficientemente dimostrata la sussistenza del credito sulla base delle sentenze favorevoli ottenute dalla creditrice. Inoltre, evidenziava che la società reclamante non aveva fornito alcuna prova contraria all’insolvenza, emersa dall’inoperatività della società e da un verbale di pignoramento negativo. Infine, la Corte d’Appello sottolineava come la società non avesse prodotto bilanci regolarmente approvati e depositati, né altre scritture contabili idonee a corroborare la sua tesi. Di conseguenza, la società proponeva ricorso per cassazione.

La decisione della Corte sulla prova per la liquidazione giudiziale

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, cogliendo l’occasione per ribadire principi fondamentali in materia di liquidazione giudiziale. L’analisi della Corte si è concentrata su tre aspetti principali.

La sufficienza del credito non definitivo

Il primo motivo di ricorso si basava sull’idea che il credito vantato dalla lavoratrice, accertato con sentenze emesse nei confronti delle società cedenti il ramo d’azienda, non fosse sufficiente. La Cassazione ha respinto questa tesi, affermando che la Corte d’Appello aveva correttamente ritenuto la sussistenza del credito “sufficientemente dimostrata” allo stato degli atti. In un procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale, il giudice compie un accertamento sommario e incidentale del credito. Non è necessario che il credito sia liquido, esigibile o accertato con sentenza passata in giudicato. Anche un credito contestato può legittimare l’azione, spettando al giudice valutarne la probabile esistenza.

L’onere della prova dello stato di insolvenza

Con il secondo motivo, la società ricorrente lamentava che la Corte d’Appello avesse errato nel porre a suo carico l’onere di provare l’assenza di insolvenza. Anche su questo punto, la Cassazione ha dato torto alla società. A fronte di elementi indicativi dell’insolvenza (come l’inoperatività e un pignoramento negativo), spetta al debitore fornire la prova contraria. L’insolvenza è un’impotenza strutturale e non transitoria a soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Il debitore deve dimostrare di avere la liquidità necessaria per far fronte ai debiti scaduti, cosa che nel caso di specie non è avvenuta.

L’onere di dimostrare la non assoggettabilità alla procedura

Il terzo e ultimo motivo riguardava la prova del mancato superamento delle soglie dimensionali che escludono l’assoggettamento alla liquidazione giudiziale. La società sosteneva che i bilanci prodotti, sebbene non depositati, fossero prova sufficiente. La Cassazione ha demolito questa argomentazione, chiarendo che l’onere di provare la sussistenza dei requisiti per la “non fallibilità” (ora non assoggettabilità) grava sul debitore. Tale prova deve essere fornita con documentazione attendibile. La produzione di bilanci non approvati e non depositati presso il Registro delle Imprese equivale a una mancata produzione, risolvendosi in danno dell’imprenditore stesso, che non adempie così al proprio onere probatorio.

Le Motivazioni

La Corte ha motivato la propria decisione richiamando consolidati orientamenti giurisprudenziali. Ha riaffermato che il cessionario di un’azienda è responsabile in solido con il cedente per i crediti di lavoro, a prescindere dalla loro trascrizione nei libri contabili, come previsto dall’art. 2112 c.c. Questo principio speciale prevale sulla regola generale dell’art. 2560 c.c. e tutela maggiormente il lavoratore. Inoltre, la Corte ha sottolineato che nel procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale, il debitore ha l’onere di fornire prova rigorosa del mancato superamento dei limiti dimensionali. I bilanci degli ultimi tre esercizi, se regolarmente approvati e depositati, costituiscono lo strumento di prova privilegiato. In loro assenza, o in presenza di documentazione inattendibile, il giudice può legittimamente ritenere non assolta la prova, con la conseguenza che l’impresa sarà considerata soggetta alla procedura.

Le Conclusioni

L’ordinanza in esame consolida principi di grande rilevanza pratica. In primo luogo, conferma che i creditori possono agire per la dichiarazione di liquidazione giudiziale anche senza avere in mano un titolo esecutivo o una sentenza definitiva. In secondo luogo, pone un accento forte sugli oneri a carico dell’imprenditore debitore: è quest’ultimo che deve attivarsi per dimostrare in modo convincente sia la propria solvenza sia il possesso dei requisiti dimensionali per evitare la procedura. La negligenza nella tenuta e nel deposito della documentazione contabile si traduce in un grave svantaggio processuale che può condurre direttamente all’apertura della liquidazione.

È necessario un credito definitivamente accertato per chiedere la liquidazione giudiziale di un’azienda?
No, non è necessario. La Cassazione chiarisce che anche un credito contestato o accertato con sentenze non definitive può essere sufficiente per legittimare la richiesta, a condizione che il giudice ne accerti l’esistenza in via sommaria e incidentale.

Chi deve provare che un’azienda non è soggetta a liquidazione giudiziale per le sue ridotte dimensioni?
L’onere della prova spetta all’imprenditore debitore. Deve dimostrare di non superare i limiti dimensionali previsti dalla legge, e la semplice produzione di bilanci non approvati o non depositati presso il registro delle imprese è considerata una prova insufficiente.

L’acquirente di un ramo d’azienda risponde dei debiti di lavoro del venditore?
Sì. La Corte ribadisce che, ai sensi dell’art. 2112 c.c., il cessionario dell’azienda è responsabile in solido con il cedente per i crediti vantati dal lavoratore al momento del trasferimento, indipendentemente dal fatto che tali debiti risultino o meno dai libri contabili.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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