Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 9314 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 9314 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/04/2025
Oggetto
Comodato di impianto di distribuzione di carburante -Recesso illegittimo del comodante -Danni da lucro cessante -Liquidazione equitativa – Presupposti
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 28167/2020 R.G. proposto da COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME (p.e.c. indicata: EMAIL, con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO presso lo studio RAGIONE_SOCIALE (p.e.c.: EMAIL;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME (p.e.c.: EMAIL) e dall’Avv. NOME COGNOME (p.e.c.: EMAIL,
con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultima in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente – avverso la sentenza n. 93/2020 della Corte d’appello di Firenze , depositata il 27 febbraio 2020;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25 febbraio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Rilevato che:
con ricorso depositato il 30 aprile 2010 NOME COGNOME adì il Tribunale di Livorno chiedendo accertarsi l’illegittimità del recesso della RAGIONE_SOCIALE dal contratto con il quale questa gli aveva concesso in comodato un impianto di distribuzione del carburante per il periodo dal 1° ottobre 2009 al 30 marzo 2016, recesso effettuato dalla SIC per pretesa chiusura dell’impianto il 31 dicembre 2009, con conseguente condanna della convenuta a risarcirgli il danno nella somma di Euro 245.000 o in subordine Euro 225.000;
la convenuta si costituì resistendo e proponendo domanda riconvenzionale di condanna di controparte a pagarle un residuo credito di Euro 8.126,24;
il Tribunale, con sentenza del 13 marzo 2013, rigettò la domanda principale e accolse quella riconvenzionale;
con sentenza n. 331 del 2015 la Corte d’appello di Firenze confermò tale decisione, seppure con diversa motivazione;
su ricorso del COGNOME la sentenza d’appello venne cassata con ordinanza n. 24532 del 05/10/2018 sul rilievo della nullità della clausola di cui all’art. 9 del contratto di comodato che conferiva al comodante il diritto di recesso, in quanto elusiva dell’art. 1, commi sesto e decimo, d.lgs. n. 32 del 1998 in punto di durata minima del contratto;
pronunciando, quindi, in sede di rinvio la Corte d’appello di
Firenze, con sentenza n. 93/2020 resa pubblica il 27 febbraio 2020 ─ pur affermando in motivazione, in applicazione del principio di diritto enunciato dalla S.C., la nullità della menzionata clausola e la conseguente illegittimità del recesso operato dalla comodante ─ ha tuttavia « respinto il ricorso in riassunzione » del COGNOME, ritenendo:
infondato il credito risarcitorio da lucro cessante per difetto di adeguata prova « del danno e della sua entità »;
insussistente il credito per « margine gestore » opposto dal COGNOME in compensazione rispetto al credito vantato in riconvenzione dalla S.I.C. per corrispettivi di forniture pregresse, essendo stato tale margine già scomputato per l’anno 2009 dagli importi rivendicati dalla società e non essendo stata svolta negli anni successivi attività di gestione dell’impianto, data la sua chiusura;
per la cassazione di tale sentenza NOME COGNOME propone ricorso affidato a tre motivi, cui resiste la RAGIONE_SOCIALE depositando controricorso;
la trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ.;
non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero; entrambe le parti hanno depositato memorie;
ritenuto che:
con il primo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., « violazione degli artt. 1223 e 1226 c.c. », per avere la Corte d’appello omesso di applicare il criterio equitativo per liquidare il danno da lucro cessante derivato dall’illegittimo recesso della comodante, nonostante il danno fosse certo e gli elementi per il calcolo del mancato guadagno fossero accertati e incontestati;
rileva che:
-il danno da lucro cessante era certo, poiché il contratto di comodato prevedeva una durata dal 1° ottobre 2009 al 30 marzo
2016 e la gestione dell’impianto di carburante era un’attività economica produttiva esercitata da tempo;
-la provvigione di Euro 0,0594 per litro di carburante venduto era documentata e riconosciuta dalla Società RAGIONE_SOCIALE;
-i ricavi dell’ultimo anno di gestione (2009) erano certi e documentati, con un margine operativo netto di Euro 29.343,36;
-i costi di gestione erano stati dichiarati e confermati dai testi escussi, ammontando a circa Euro 4.400 annui;
-la Corte d’appello disponeva di elementi sufficienti per considerare certo il danno da lucro cessante e determinarlo nel quantum con un criterio equitativo, tenendo conto delle possibili fluttuazioni dei ricavi e dei costi;
osserva che, a fronte di tali emergenze, la Corte di merito avrebbe potuto e dovuto adottare un parametro prudenziale per la valutazione del danno, eventualmente riconoscendo un mancato guadagno inferiore a quello richiesto, ma non azzerando il danno risarcibile;
il motivo è infondato;
se è certamente vero che alla liquidazione del danno il giudice può procedere anche in via equitativa, in forza del potere conferitogli dagli artt. 1226 e 2056 c.c., tuttavia, la cosiddetta equità giudiziale correttiva ed integrativa resta subordinata alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel suo preciso ammontare, non comprendendo peraltro tale potere giudiziale anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, ma presupponendo la liquidazione equitativa già assolto l’onere della parte di dimostrare sia la sussistenza sia l’entità materiale del danno subito;
in particolare, i danni derivanti dalla perdita del guadagno di un’attività commerciale per loro stessa natura evidenziano la pratica impossibilità di una precisa dimostrazione (cfr. Cass. 24/04/1997, n.
3596; Cass. 13/01/1987 n. 132); ciò non di meno, anche in tal caso spetta all’attore l’onere di fornire elementi, di natura contabile o fiscale, con riguardo, indicativamente, alla consistenza ed alla redditività dell’esercizio commerciale, al fatturato e agli utili realizzati negli anni precedenti, all’incidenza dei costi;
invero, l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., non esime la parte interessata dall’onere di dimostrare non solo l’ an debeatur del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato, ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui, nonostante la riconosciuta difficoltà, possa ragionevolmente disporre (cfr. Cass. Sez. 3 17/10/2016, n. 20889; Cass. Sez. 2 03/11/2021, n. 31251);
d’altro canto, l’esercizio concreto, in senso positivo o negativo, del potere discrezionale, conferito al giudice dall’art. 1226 c.c., di liquidare il danno in via equitativa e l’accertamento dell’esistenza del presupposto costituito dall’impossibilità o rilevante difficoltà della prova non sono suscettibili di sindacato in sede di legittimità, se la relativa decisione sia sorretta da motivazione immune da vizi logici e da errori di diritto;
nel caso di specie la Corte d’appello ha fornito congrua motivazione, coerente con i dati fattuali acquisiti esaustivamente passati in rassegna ed esente da errori di diritto, rilevando in particolare che:
─ « la simulazione di reddito effettuata dal dipendente COGNOME non è documento significativo », avendo tale teste « dichiarato espressamente di avere redatto il documento in questione, limitandosi tuttavia ad estrarre “i dati rilevanti” dal computer; pertanto, non è dato conoscere che tipologia di dati abbia considerato il testimone, da quali documenti abbia estrapolato i medesimi dati, onde tale documento non è paragonabile, sul piano probatorio, alle
scritture contabili che il COGNOME avrebbe dovuto produrre in giudizio, unitamente alle dichiarazioni dei redditi, e che non ha prodotto, non risultando peraltro specificate plausibili ragioni di una tale omessa produzione che avrebbe permesso di ricostruire con certezza il fatturato e i guadagni dell’anno in questione »;
─ « assolutamente indeterminata poi la detrazione per i costi di gestione: … il teste COGNOME unico collaboratore ha dichiarato di lavorare regolarmente per tre giorni a settimana presso il distributore: quindi, sussistevano costi afferenti all’assunzione di un dipendente che avrebbero ben potuto essere documentate, in luogo dell’indicazione di un generico importo di € 4.000, la cui quantificazione non è specificata in relazione ai criteri di riferimento »;
─ « il COGNOME indica una provvigione giornaliera dell’anno 2009 che, seppur incontestata per quell’anno, non è provato fosse la stessa per gli anni a venire: a tale proposito, la società ha dedotto come non vi fosse alcun accordo scritto in merito alla sua determinazione, sussistendo altresì elementi che potevano incidere sulla sua fluttuazione »;
─ « in sostanza, l’unico dato comprovato è quello in merito ai litri venduti nell’anno 2009; mentre non può ritenersi che vi fosse un trend di vendita in crescita (rispetto all’anno 2008), in considerazione del fatto che il dato 2008 non è supportato da documentazione analoga al dato 2009 »;
con il secondo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., « violazione dell’art. 416 c.p.c. »;
rileva che la controparte non aveva specificamente contestato: a) i quantitativi di carburante erogati negli anni 2008-2009; b) la provvigione di Euro 0,0594 per litro erogato; c) il conseguente margine operativo per il gestore; d) i dati dei costi e dei ricavi estratti dai documenti contabili obbligatori della ditta COGNOME, esposti nel
prospetto di simulazione di reddito; essendosi piuttosto essa limitata a contrapporre circostanze congetturali e indimostrate, come la presunta contrazione dei volumi venduti negli anni futuri a causa di problematiche di incompatibilità urbanistica dell’impianto ;
il motivo è inammissibile, sotto vari profili;
il rilievo della mancata contestazione dei quantitativi di carburante erogati negli anni 2008-2009, della provvigione riconosciuta nel 2009 e del conseguente margine operativo per il gestore è privo di significato censorio dal momento che, nella motivazione addotta dalla Corte di merito, il rigetto della domanda risarcitoria non discende dal misconoscimento di tali dati ma dalla ritenuta inidoneità degli stessi a fornire, per le ragioni sopra ricordate, sufficiente supporto per una valutazione equitativa del danno da lucro cessante relativo agli anni 2010-2011;
inammissibilmente è poi evocato il principio di non contestazione con riferimento ai costi e ai ricavi esposti nel prospetto di simulazione di reddito, non essendo neppure specificato quali fossero tali dati, né essendo riportato il contenuto di tale documento, in palese inosservanza dell’onere imposto dall’art. 366 n. 6 cod. proc. civ., rimanendo pertanto generica e non scrutinabile anche l’affermazione che si trattava di dati noti alla controparte, presupposto per l’operatività del principio secondo indirizzo affermatosi nella giurisprudenza di questa Corte (v. ex aliis Cass. n. 4681 del 15/02/2023, Rv. 666808; n. 87 del 04/01/2019, Rv. 652044; n. 14652 del 18/07/2016, Rv. 640518);
con il terzo motivo il ricorrente denuncia, infine, la violazione dell’art. 1223 c.c. in relazione all’art. 1 commi 6 e 10 d.lgs. 11 febbraio 1998, n. 32 e dell’art. 2727 c.c., per avere la Corte di merito negato la sussistenza del danno da mancata percezione dell’aumento del « margine gestore » per gli anni 2010 e 2011, nonostante fosse documentato e riconosciuto dalla stessa Società
RAGIONE_SOCIALE;
contesta la motivazione sul punto addotta dalla Corte di merito rilevando che il danno da lucro cessante deve essere risarcito anche in caso di mancato sorgere di una situazione di vantaggio, basandosi su una proiezione di situazioni già esistenti;
il motivo è assorbito (assorbimento improprio) dalla sorte, sopra illustrata, dei primi due, dato che il consolidamento della motivazione circa la mancata dimostrazione del credito risarcitorio da lucro cessante comunque giustifica che di tale particolare voce di credito, comunque legata a quello, non si sia tenuto conto;
se ne dovrebbe comunque rilevare l’inammissibilità ;
lungi dal far emergere la denunciata violazione di norme, esso impinge esclusivamente nella ricognizione del fatto, in astratto sindacabile solo sul piano della motivazione, nei limiti del vizio rilevante ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ. o ai sensi dell’art. 132, secondo comma, n. 4 , c.p.c.;
anche in tale diversa prospettiva censoria, peraltro, non risulta fatta segno di ammissibile censura l’ autonoma ratio decidendi sul punto spesa in sentenza rappresentata dal rilievo che « i documenti indicati in atti dal COGNOME, da 31 a 34, del fascicolo di primo grado della società, nulla provano in merito »;
vi contrappone il ricorrente, infatti, il rilievo che « l’effettività dell’aumento del margine gestore … è stato confermato nella nota di RAGIONE_SOCIALE del 13/04/2010 quanto all’anno 2009 », rilievo però palesemente eccentrico dal momento che la contestazione riguardava la pretesa spettanza di tale voce di reddito per gli anni 2010 e 2011;
l’evocazione tra le norme asseritamente violate del l’art. 2727 c.c. non è svolta secondo i criteri di deduzione del vizio di violazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ. (sia pure non evocato) indicati da Cass. Sez. U. n. 1785 del 2018, in motivazione espressa, sebbene non
massimata sul punto (vedi paragrafi 4 e ss.);
la memoria che, come detto, è stata depositata dal ricorrente, ai sensi dell’art. 380 -bis.1 , primo comma, cod. proc. civ., reitera le tesi censorie già esposte in ricorso e non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio dei motivi ;
il ricorso deve essere pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore del controricorrente, liquidate come da dispositivo;
va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13;
a tale attestazione non può ostare l’attuale condizione del ricorrente, risultante dagli atti, di parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, occorrendo al riguardo rammentare che « il giudice dell’impugnazione, ogni volta che pronunci l’integrale rigetto o l’inammissibilità o la improcedibilità dell’impugnazione, deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per versamento di un ulteriore importo del contributo unificato anche nel caso in cui quest’ultimo non sia stato inizialmente versato per una causa suscettibile di venir meno (come nel caso di ammissione della parte al patrocinio a spese dello Stato); mentre può esimersi dalla suddetta attestazione quando la debenza del contributo unificato iniziale sia esclusa dalla legge in modo assoluto e definitivo » (Cass. Sez. U. 20/02/2020, n. 4315);
spetterà dunque all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento;
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.P .R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione