Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 21607 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 21607 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 28/07/2025
O R D I N A N Z A
sul ricorso n. 3854/22 proposto da:
-) Ministero dell’Interno , domiciliato ex lege all’indirizzo PEC del proprio difensore, difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato ;
-) Riomaggiore di NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE e NOME di NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE, ciascuna in persona del legale rappresentante pro tempore , domiciliati ex lege all’indirizzo PEC del proprio difensore, difesi dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
– controricorrenti – avverso la sentenza della Corte d’appello di Firenze 24 novembre 2021 n. 2282;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 9 luglio 2025 dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Nel 1996 le società RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE (d’ora innanzi, per brevità, ‘la Riomaggiore’) e NOME di NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE (d’ora innanzi, per brevità, ‘la NOME‘) convennero dinanzi al Tribunale di Roma il Ministero della G iustizia e quello dell’ Interno, esponendo che:
Oggetto:
danno
da
occupazione
abusiva
di.
immobile
–
liquidazione
equitativa
–
presupposti
criteri
–
obbligo
motivazione – contenuto.
-) erano proprietarie, rispettivamente, di 32 e 18 appartamenti ricompresi i primi in un fabbricato sito a Firenze, INDIRIZZO ed i secondi in un fabbricato sito a Sesto Fiorentino, INDIRIZZO;
-) tra il dicembre del 1993 ed il maggio del 1994 tutti i suddetti appartamenti vennero occupati abusivamente da terzi, aderenti ad un ‘Movimento per la casa’;
-) le due società proprietarie denunciarono il fatto alla competente Procura della Repubblica, la quale in data 18.1.1994 e 27.1.1994 ordinò lo sgomberò degli immobili abusivamente occupati;
-) i suddetti provvedimenti non vennero mai eseguiti dalla forze dell’ordine;
-) sia l’assessore alla casa del Comune di Firenze, sia il prefetto ed il questore della medesima città, si astennero deliberatamente dal ripristinare la legalità violata e fare eseguire i suddetti provvedimenti, ‘galvanizzando’ così gli occupanti abusivi, i quali si risolsero, indisturbati, ad occupare ulteriori appartamenti;
-) solo sei anni dopo questi fatti le due società riuscirono a tornare in possesso dei loro appartamenti.
Chiesero, pertanto, la condanna delle amministrazioni convenute al risarcimento dei danni patiti in conseguenza dei fatti sopra descritti, e segnatamente della colpevole e prolungata inerzia delle amministrazioni convenute nel dare esecuzione all’ordine di sgombero impartito dalla Procura della Repubblica.
Con sentenza 30.5.2003 n. 18112 il Tribunale di Roma accolse la domanda nei confronti della sola amministrazione dell’interno. in dichiarò
Con sentenza 16.3.2009 n. 1165 la Corte d’appello di Roma, accoglimento dell’eccezione sollevata dalla difesa erariale, l’incompetenza per territorio del giudice adìto.
La causa venne riassunta dinanzi al Tribunale di Firenze, il quale con sentenza 20.8.2013 n. 2637 tornò ad accogliere la domanda nei confronti del Ministero dell’ Interno. Liquidò il risarcimento dovuto alla Riomaggiore
nell’importo di euro 783.562 oltre accessori; quello dovuto alla Laurella in euro 427.817.
La sentenza fu appellata in via principale dal Ministero dell’Interno (il quale censurò sia la statuizione sull’ an debeatur, sia in subordine la quantificazione del danno); in via incidentale dalle società Riomaggiore e Laurella (le quali chiesero una più cospicua liquidazione).
Con sentenza 24.10.2016 la Corte d’appello di Firenze, accogliendo il gravame dell’amministrazione, riformò la decisione di primo grado e rigettò la domanda, ritenendo insussistente il fatto illecito ascritto all’Amministrazione dell’Interno.
5 . La sentenza d’appello venne cassata con rinvio da questa Corte con la sentenza 4.10.2018 n. 24198.
Il giudizio fu riassunto dalla COGNOME e dalla COGNOME.
L a Corte d’appello di Firenze con sentenza 24.11.2021 n. 2282 in sede di rinvio accolse il gravame dell’amministrazione in punto di quantum debeatur ; rigettò (per implicito) quello incidentale; rideterminò il risarcimento dovuto alla Riomaggiore nella misura di euro 400.000, e quello dovuto alla Laurella nella misura di euro 225.000.
La sentenza pronunciata in sede di rinvio è stata impugnata per cassazione dal Ministero dell’Interno con ricorso fondato su due motivi ed illustrato da memoria.
Hanno resistito la Riomaggiore e la COGNOME con controricorso illustrato da memoria.
Il Collegio ha disposto il deposito della motivazione nel termine di cui all’art. 380 bis, secondo comma, c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Questione preliminare.
Con la propria memoria il Ministero dell’Interno ha segnalato – senza proporre formale istanza di ricusazione – che il consigliere relatore del presente ricorso conobbe già della causa in occasione del precedente ricorso
per cassazione proposto dalla COGNOME e dalla COGNOME e segnala che ciò comporterebbe l’obbligo di astensione ex art. 51, n. 4, c.p.c..
1.1. Reputa il Collegio insussistente l’ipotesi di cui all’art. 51, n. 4, c.p.c., sia con riferimento al consigliere istruttore, sia con riferimento al Presidente dell’odierno collegio giudicante (che nel ricorso deciso con la sentenza 24198/18 ebbe la veste di membro di quel collegio).
Le Sezioni Unite di questa Corte, infatti, hanno stabilito che quando sia impugnata per cassazione una sentenza pronunciata in sede di rinvio, il collegio giudicante può essere composto anche da magistrati che abbiano partecipato al precedente giudizio conclusosi con la sentenza di annullamento, in quanto tale partecipazione non determina alcuna compromissione dei requisiti di imparzialità e terzietà del giudice (Cass. Sez. U., 25/10/2013, n. 24148, le quali hanno in tal modo abbandonato il precedente orientamento – di cui fu espressione Cass. Sez. U., 19/12/1991, n. 13714 il quale escludeva l’obbligo di astensione nelle sole ipotesi di cassazione per error in procedendo , ammettendole invece nell’ipotesi di cassazione per error in iudicando ; nello stesso senso, ex permultis, Sez. L, Ordinanza n. 17672 del 30/6/2025; Sez. 3, Ordinanza n. 16645 del 21/6/2025; Sez. L, Ordinanza n. 15525 del 2025; Cass. Sez. 3, 25/01/2021, n. 1542; Cass. Sez. 3, 18/07/2016, n. 14655, ed altre ventinove conformi).
2. Il primo motivo di ricorso.
Col primo motivo è denunciata la violazione degli artt. 1226, 2056, 2697, 2727 e 2729 c.c..
L’illustrazione del motivo può così riassumersi:
-) la liquidazione equitativa del danno ha due presupposti: a) che il danno sia certo nella sua esistenza; b) che il danno sia impossibile a dimostrarsi con gli ordinari mezzi di prova;
-) nel caso di specie non ricorreva alcuno dei suddetti requisiti;
-) le due società attrici, infatti, non avevano documentato l’andamento della propria attività d’impresa negli anni precedenti e
successivi all’occupazione che si assume fonte del danno ; non avevano mai documentato la propria situazione contabile, patrimoniale e finanziaria; non avevano mai dimostrato se gli immobili occupati fossero destinati alla vendita od alla locazione; non avevano mai dimostrato se ed a quali condizioni gli immobili suddetti fossero stati locati prima dell’occupazione, ovvero dopo lo sgombero;
-) la Corte d’appello, pertanto, aveva liquidato il ‘danno conseguenza’ (la perdita dell’utile) senza accertarne l’esistenza, e basandosi solo sulla accertata sussistenza d’un ‘danno evento’ (la lesione del diritto di proprietà).
2.1. Il motivo è fondato.
La liquidazione equitativa del danno causato da un fatto illecito è regolata dall’art. 2056 c.c., il quale rinvia alla regola stabilit a dall’art. 1226 c.c. per i danni da inadempimento dei contratti.
L’art. 1226 c.c. (rubricato ‘Valutazione equitativa del danno’) stabilisce che ‘ se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa ‘.
E’ opinione costante e risalente della giurisprudenza e della dottrina che questa previsione abbia natura ‘ sussidiaria ‘ e ‘ non sostitutiva ‘.
La liquidazione equitativa del danno ha natura sussidiaria, perché presuppone l’esistenza d’un danno oggettivamente accertato. Essa attribuisce al giudice di merito non già un potere arbitrario, ma una facoltà di integrazione in via equitativa della prova semipiena circa l’ammontare del danno.
La liquidazione equitativa ha, poi, natura non sostitutiva, perché ad essa non può farsi ricorso per sopperire alle carenze o decadenze istruttorie in cui le parti fossero incorse (tanto colpevoli quanto incolpevoli, sopperendo in quest’ultimo caso il rimedio della rimessione in termini, e non della liquidazione equitativa).
2.2 . Che l’art. 1226 c.c. abbia natura integrativa è conclusione che risulta dalla genesi storica della norma.
Il codice civile del 1865 non conteneva alcuna norma analoga al vigente art. 1226 c.c..
Nondimeno anche nella vigenza del primo codice postunitario la dottrina e la giurisprudenza dovettero affrontare il problema dei danni di impossibile o difficile stima.
Questo problema era stato risolto dalla prassi attraverso con la distinzione tra ‘danni comuni’ e ‘danni propri’.
Si definiva ‘ danno comune ‘ quello ordinariamente derivante da tutti i fatti illeciti (o da tutti gli inadempimenti) di un certo tipo, secondo l’ id quod plerumque accidit : ad esempio, l’indisponibilità dell’immobile nel caso di ritardata restituzione da parte del conduttore.
‘ Danno proprio ‘ era invece definito il pregiudizio non generalizzabile, patito da quel singolo danneggiato in conseguenza di quel singolo fatto illecito (od inadempimento).
Da tale distinzione si faceva discendere il corollario che il danno proprio dovesse essere sempre dimostrato in modo rigoroso sulla base di una prova piena; il danno comune invece potesse essere liquidato sulla base anche solo di un principio di prova della sua esistenza, in deroga al tradizionale principio della certezza del danno (secondo cui ‘ a posse ad esse non valet consequentia ‘).
La distinzione con l’andar del tempo si trasformò tuttavia in massima tralatizia e di applicazione automatica, finendo per produrre vari inconvenienti. Il più grave di questi era che il giudice di merito, qualificando come ‘danno comune’ un determinato pregiudizio, liquidava in assenza di prova danni la cui esistenza stessa, e non solo il cui ammontare, era eventuale, ipotetica, supposta, o addirittura immaginaria.
La dottrina dell’epoca cita sovente, al riguardo, il caso del notaio condannato a risarcire il danno (asseritamente) patito dal creditore in conseguenza della mancata iscrizione d’un atto costitutivo dell’ipoteca sull’immobile del debitore, nonostante quel bene fosse già gravato da iscrizioni ipotecarie tali da assorbirne l’intero valore.
2.3. Per rimediare a questo stato di cose il codice del 1942 introdusse l’attuale art. 1226 c.c. (corrispondente all’art. 56 del progetto del ‘Libro delle obbligazioni’, approvato con r.d. 30.1.1941 -XIX), con il quale si volle: (a) da un lato, accordare espressamente al giudice il potere di liquidazione equitativa del danno nel caso di impossibilità di una esatta stima di esso; (b) dall’altro, consentire tale potere solo nei casi in cui l’esistenza del danno fosse indiscutibile, ma discutibile ne fosse l’ammontare.
Questi princìpi sono espressi nella relazione ministeriale al libro delle obbligazioni, ove si afferma che la liquidazione equitativa è consentita dall’art. 1226 c.c. solo per il danno ‘ di cui è sicura l’esistenza ‘ ( Relazione ministeriale alla Maestà del Re Imperatore , Cap. XV, § 38, in fine).
La genesi dell’art. 1226 c.c. svela dunque che primo ed indefettibile presupposto per il ricorso alla liquidazione equitativa è la dimostrata esistenza d’un danno certo, e non soltanto eventuale od ipotetico.
2.3 . La conclusione appena esposta è confermata dalla sintassi dell’art. 1226 c.c.. La norma è infatti costruita come un periodo ipotetico dell’eventualità, nel quale la pròtasi è l’impossibilità di provare il danno, e l’apòdosi il ricorso al potere equitativo del giudice.
E’ dunque evidente che in tanto è consentito al giudice il ricorso alla liquidazione equitativa, in quanto sia stata previamente dimostrata l’esistenza certa, ovvero altamente verosimile, d’un effettivo pregiudizio.
E’ l’impossibilità di quantificare un danno certamente esistente che rende possibile il ricorso alla stima equitativa. Se, invece, è l’esistenza stessa d’un pregiudizio economico ad essere incerta, eventuale, possibile ma non probabile, spazio non v’è alcuno per l’invocabilità dell’art. 1226 c.c..
Questo principio costituisce da oltre cinquant’anni jus receptum nella giurisprudenza di legittimità (a partire da, Sez. 3, Sentenza n. 1536 del 19/06/1962, secondo cui ‘ la valutazione equitativa del danno presuppone che questo, pur non potendo essere provato nel suo preciso ammontare, sia certo nella sua esistenza ontologica ‘; nello stesso senso, ex plurimis , Sez. 2, Sentenza n. 838 del 03/04/1963; Sez. 3, Sentenza n. 1327 del 22/05/1963; Sez. 2, Sentenza n. 2125 del 16/10/1965; Sez. 3, Sentenza n.
1964 del 25/07/1967; Sez. 2, Sentenza n. 181 del 22/01/1974; Sez. 1, Sentenza n. 3418 del 23/10/1968; Sez. 3, Sentenza n. 3977 del 03/07/1982; Sez. 1, Sentenza n. 7896 del 30/05/2002; Cass. Sez. 6, 17/11/2020, n. 26051).
Ne consegue che in tanto il giudice di merito può avvalersi del potere equitativo di liquidazione del danno, in quanto abbia previamente accertato che un danno esista, indicando le ragioni del proprio convincimento. Ciò vuol dire che, nel caso di danno patrimoniale consistito nella distruzione di un bene, il ricorso alla liquidazione equitativa in tanto è ammissibile, in quanto sia certo (per essere stato debitamente provato da chi si afferma danneggiato) che la cosa distrutta avesse un concreto valore oggettivo, e non meramente ipotetico o d’affezione.
2.4 . Il secondo presupposto per l’applicazione dell’art. 1226 c.c. è che l’impossibilità (o la rilevante difficoltà) nella stima esatta del danno sia:
(a) oggettiva, cioè positivamente riscontrata e non meramente supposta;
(b) incolpevole, cioè non dipendente dall’inerzia della parte gravata dall’onere della prova.
La liquidazione equitativa del danno costituisce infatti un rimedio fondato sull’equità c.d. ‘integrativa’ o ‘suppletiva’: l’equità, cioè, intesa non quale principio che si sostituisce alla norma di diritto nel caso concreto, ma quale principio che completa la norma giuridica.
L’equità integrativa costituisce, per l’opinione unanime della dottrina, uno strumento di equo contemperamento degli interessi delle parti, nei casi dubbi.
Se dunque l’equità integrativa ha lo scopo di contemperare i contrapposti interessi, è evidente che essa fallirebbe del tutto il suo scopo, se vi si potesse ricorrere anche quando la stima del danno sia non impossibile, ma soltanto difficile; ovvero quando la stima del danno non siasi potuta compiere per la pigrizia od il mal talento delle parti o dei loro procuratori.
In simili casi, infatti, non vi sono contrapposti interessi da contemperare, tutti egualmente meritevoli di tutela: al contemperamento degli interessi si sostituisce qui l’applicazione rigorosa del principio di autoresponsabilità, in
virtù del quale ciascuno deve subire le conseguenze giuridiche delle proprie azioni od omissioni.
Qualsiasi diversa interpretazione dell’art. 1226 c.c. si porrebbe, a tacer d’altro, in contrasto col precetto costituzionale che garantisce la parità delle parti e la terzietà del giudice (art. 111 cost.; sulla impossibilità che la liquidazione equitativa possa essere utilizzata per colmare lacune istruttorie imputabili alle parti si vedano, ex permultis , Sez. 1, Sentenza n. 10850 del 10/07/2003; Sez. 3, Sentenza n. 6056 del 16/06/1990; Sez. 3, Sentenza n. 3176 del 16/12/1963).
2.5. Tutti i suddetti princìpi sono stati ribaditi dalle Sezioni Unite di questa Corte, con specifico riferimento al danno da abusiva occupazione d’un immobile (Cass. Sez. U., 15/11/2022, n. 33645).
La sentenza appena ricordata ha stabilito che:
-) il ‘danno’ in senso giuridico non consiste solo nella lesione d’un diritto (come vollero i fautori della c.d. ‘ teoria normativa del danno ‘), ma esige che da quella lesione sia derivato un concreto pregiudizio (secondo la c.d. ‘ teoria causale del danno ‘);
-) la lesione del diritto di proprietà, quando sia consistita non in una lesione diretta del bene, ma nella perduta possibilità di goderne, può costituire un danno risarcibile soltanto ove il proprietario alleghi e dimostri che la perdita del frutto del godimento sia stata ‘specifica’ e ‘concreta’ (Cass. sez. un. 33645/22, § 4.7 dei ‘Motivi della decisione’);
-) se così non fosse, ‘ il risarcimento spetterebbe sempre a fronte della denuncia della compressione del diritto di godere della cosa quale astratta posizione riconosciuta dall’ordinamento, senza che si dia possibilità della prova contraria ‘ (secondo la c.d. ‘ teoria del danno irrefutabile ‘).
2.6. La sentenza impugnata non ha rispettato questi princìpi.
Nella sentenza impugnata la Corte territoriale ha premesso:
di non potere stabilire se, qualora fosse mancato il fatto illecito della P.A., le due società attrici avrebbero destinato gli immobili abusivamente occupati alla vendita od alla locazione (p. 7);
b) di non potere stabilire se quegli immobili furono mai locati, prima o dopo l’occupazione ( ibidem , penultimo capoverso);
di non avere a disposizione le scritture contabili delle due società
danneggiate, mai prodotte in giudizio. Non sarà superfluo aggiungere che:
-) nell’atto introduttivo del giudizio la descrizione del danno sofferto dalle attrici fu formulata in modo ultragenerico, ed affidata alle seguenti parole: ‘ danni , allo stato (…), in lire 1.200.000.000 (di cui lire 800.000.000 di competenza della soc Riomaggiore e lire 400.000.000 di competenza della soc. Laurella) e fatta salva la diversa misura ritenuta di giustizia, anche in considerazione del perdurare delle occupazioni, e determinabili avuto riguardo al canone di locazione di mercato ritraibile da ciascun quartiere ‘ ;
-) le società Riomaggiore e Laurella a dimostrazione del danno subito produssero nei termini di legge null’altro che otto querele, cinque lettere raccomandate di costituzione in mora e nove provvedimenti di sequestro/dissequestro.
2.7 . La Corte d’appello dunque ha in primo luogo violato l’art. 1226 c.c., perché ha fatto ricorso alla liquidazione equitativa dopo avere rilevato essere ‘incerta’ l’esistenza del danno, per non aver la parte neppure indicato se gli immobili fossero destinati alla vendita od alla locazione.
2.8. Ha poi violato ulteriormente l’art. 1226 c.c. sotto altro profilo, per avere fatto ricorso alla liquidazione equitativa nonostante l’impossibilità di liquidare il danno nel suo esatto ammontare fosse soggettiva e non oggettiva.
Ed infatti non è ‘impossibile’, né ‘particolarmente dif f icile’, per una società commerciale, dimostrare se abbia subito perdite o cali di fatturato; qual frutto abbia ritratto dai propri beni; quale destinazione abbia loro impresso.
Aggiungasi che nel caso di specie gli immobili furono occupati a partire dal dicembre del 1993, e sgomberati nel 1999.
Dopo tredici anni di giudizio dinanzi al Tribunale ed alla Corte d’appello di Roma, il giudizio ricominciò ex novo nel 2009 dinanzi al Tribunale di Firenze, e dunque a distanza di dieci anni dallo sgombero .
In questo lasso di tempo è impensabile che le società proprietarie degli immobili non siano state in grado di procurarsi la prova della destinazione impressa a quegli immobili e dei frutti civili da essi eventualmente ricavati: elementi che avrebbero fornito al Giudice di merito indizi per la liquidazione del danno.
L’art. 1226 c.c. è stato dunque falsamente applicato dalla Corte territoriale, per non avere rilevato in facto che l’impossibilità d’una esatta stima del danno fu dovuta alle carenze assertive e probatorie delle due danneggiate, e ritenuto in iure possibile il ricorso alla liquidazione equitativa.
3. Il secondo motivo di ricorso.
Col secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione dell’articolo 132, secondo comma, n. 4, c.p.c..
L’amministrazione ricorrente deduce che la sentenza impugnata sarebbe ‘ priva di motivazione’ nella parte dedicata alla liquidazione del danno. La Corte d’appello infatti ha ritenuto di poter desumere il fatto ignorato dell’esistenza del danno, muovendo dal fatto noto rappresentato dalla qualità di imprenditore commerciale delle due società attrici. Questo iter motivazionale, sostiene il Ministero dell’Interno, presenterebbe ‘ lacune vistosissime’ : sia perché la Corte territoriale non ha indicato le ragioni per le quali la qualità di imprenditore commerciale sia di per sé sufficiente a far presumere l’esistenza del danno da lucro cessante; sia perché non ha indicato gli atti di causa dai quali ha tratto la suddetta conclusione.
3.1. Il motivo resta assorbito dall’accoglimento del primo motivo di ricorso . Nondimeno, anche allo scopo di prevenire ulteriore contenzioso tra le parti, questa Corte reputa doveroso ricordare che la liquidazione equitativa non è una liquidazione ‘a senso’ o ‘a sensazione’.
La motivazione della liquidazione equitativa deve essere ‘ chiara ed esauriente ‘ (c osì già Cass. civ., sez. II, 18.1.1969 n. 108, in seguito sempre conforme); per essere tale deve contenere tre passaggi:
spiegare perché il danno non può essere provato nel suo esatto ammontare;
indicare gli elementi di fatto presi in considerazione;
indicare il criterio seguito per la monetizzazione ( ex multis, Cass. civ., sez. I, 30-05-2002, n. 7896; Cass. civ., sez. III, 25-09-1998, n. 9588; Cass. civ., sez. I, 30-05-1995, n. 6071).
Il ‘criterio seguito per la monetizzazione’ del danno richiede a sua volta due passaggi:
c’ ) indicare il valore monetario di base da cui il ragionamento ha preso le mosse;
c” ) indicare il criterio con cui quel valore è stato elaborato per pervenire alla stima equitativa del danno.
Se mancassero tali indicazioni non sarebbe possibile alcun controllo a posteriori del ragionamento seguito dal giudice di merito per pervenire alla stima del danno, e quel l’ aequitas laqueis innodata prescritta dall’art. 1226 c.c. si ridurrebbe ad una aequitas bursalis , cioè all’arbitrio ( Cass. civ., sez. III, 11.10.2023 n. 28429).
3.2. La motivazione della sentenza impugnata non ha rispettato questi princìpi.
La Corte d’appello infatti dopo avere elencato alle pp. 7-9 tutti gli elementi di cui non disponeva (la destinazione degli immobili, i bilanci delle società, la sorte degli immobili dopo lo sgombero), ha concluso dichiarando di ‘ ritenere equo liquidare all’attualità la somma di euro 400.000 a titolo di risarcimento del danno alla società RAGIONE_SOCIALE e la somma di euro 225.000 a titolo di risarcimento del danno alla società RAGIONE_SOCIALE , somme dichiarate comprensive di ‘rivalutazione ed interessi’.
3.3. Il brano appena trascritto tuttavia è solo un simulacro di motivazione. Esso non consente di stabilire quale sia stato l’importo pecuniario di base da
cui è stato sviluppato il calcolo; non consente di stabilire quale sia stato (e se vi sia stato) un calcolo; non consente di ripercorrere il ragionamento del giudicante.
Aggiungasi che la Corte d’appello , liquidando il danno ventisei anni dopo il fatto illecito, ha conglobato capitale, rivalutazione ed interessi compensativi, senza indicare alcun criterio per risalire dal risultato finale al capitale puro: non il saggio degli interessi, non il criterio di rivalutazione, non la decorrenza.
Il terzo motivo concerne le spese e resta assorbito.
La sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio alla Corte d’appello di Firenze, in applicazione dei seguenti princìpi di diritto:
‘ la liquidazione equitativa del danno, ex art. 2056 c.c., presuppone che l’impossibilità di determinarne l’esatto ammontare non dipenda dalla renitenza del danneggiato a descrivere l’entità del danno e fornirne almeno i relativi indizi’ .
‘La liquidazione equitativa del danno non è una liquidazione ‘a senso’, ma esige che il giudice esponga nella motivazione il valore monetario di base da cui il ragionamento ha preso le mosse ed il criterio con cui quel valore è stato elaborato per pervenire alla stima equitativa del danno ‘ .
Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.
P.q.m.
(-) accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbiti il secondo ed il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, addì 9 luglio 2025.
Il Presidente (NOME COGNOME)