Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 32140 Anno 2024
Oggetto
Civile Ord. Sez. L Num. 32140 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 12/12/2024
LICENZIAMENTO
DISCIPLINARE
R.G.N. 21957/2022
COGNOME
Rep.
Ud.26/11/2024
CC
ORDINANZA
sul ricorso 21957-2022 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in Roma INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentata e dife sa dall’Avv. NOME COGNOME (CODICE_FISCALE);
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma INDIRIZZO presso lo studio de ll’Avv. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME (CODICE_FISCALE;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3069/2022 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata l’11 /07/2022 -RG 2535/2021; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/11/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
Con ricorso ex art. 1, comma 48, l. 92/2012 NOME COGNOME premesso di aver lavorato a far data dal 22 febbraio 2014 alle dipendenze della RAGIONE_SOCIALE quale operatore pluriservizio presso il punto vendita autostradale Sarni di san Nicola Est, impugnava il licenziamento comminatole per motivi disciplinari, per aver omesso, in plurime occasioni, la contabilizzazione (ossia aveva omesso di ‘battere gli scontrini’) di prodotti venduti, pur incassando regolarmente il corrispettivo della merce, deducendo di non aver mai posto in essere le condotte oggetto di contestazione.
Con sentenza n. 2106/2021, pubblicata in data 28.06.2021, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere rigettava l’opposizione proposta dalla RAGIONE_SOCIALE avverso l’ordinanza del 19.04.2019, che, all’esito della fase sommaria, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento.
La Corte di appello di Napoli con sentenza n. 3069/2022, pubblicata l’11.7.2022 in accoglimento del reclamo proposto dalla società ed in riforma integrale della sentenza reclamata, rigettava la domanda della COGNOME. La Corte, in particolare, ritenuti provati, in base alle prove testimoniali ed alla relazione finale dei controlli ispettivi, valide ed attendibili, gli addebiti contestati e la loro imputabilità alla lavoratrice, affermava la legittimità e proporzionalità del licenziamento intimato alla luce delle condotte dolose di appropriazione indebita reiterate e del venir meno del vincolo fiduciario, irrimediabilmente compromesso in ragione della delicatezza delle mansioni di maneggio di danaro affidate alla cassiera.
Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione la COGNOME affidato a tre motivi.
RAGIONE_SOCIALE replica con controricorso
Entrambe le parti hanno depositate memorie
CONSIDERATO CHE
1. Con il primo motivo di ricorso NOME COGNOME lamenta, ex art. 360 n.3 c.p.c., la ‘violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 116 c.p.c. ed all’art. 5, l. n. 604/1966’ per aver considerato, in assenza di apprezzamento critico, il rapporto ispettivo, ossia le mere dichiarazioni del terzo, come facenti piena prova dei fatti addebitati alla lavoratrice così dando per fatto certo ciò che in quanto oggetto di contestazione doveva, invece, essere provato, ossia la circostanza che vi fossero stati degli acquisti (nei giorni e nelle ore di cui alla contestazione) alla cassa della ricorrente rispetto ai quali ella avrebbe omesso di battere il presunto relativo scontrino. Evidenziava che la violazione di legge nella quale era incorsa la corte territoriale emergeva palese dal passaggio della sentenza ove si sosteneva che ‘ Quindi l’attività svolta dalla società di investigazione così come la sua relazione finale e le prove testimoniali degl’ispettori sono pienamente validi e attendibili perché riscontrate da fatti precisi come il turno di servizio della reclamata nonché dall’assenza di esuberi di cassa per i giorni in cui la stessa COGNOME aveva fatto delle operazioni di vendita senza rilasciare gli scontrini ‘, posto che ‘la mera circostanza dell’assenza di esuberi di cassa, in assenza di prova sul fatto dell’avvenuto acquisto di specifici prodotti in aggiunta a quelli regolarmente battuti, sia di per sé neutra’ e che, pertanto, la Corte aveva dato per apoditticamente certo e provato l’acquisto di prodotti ‘non battuti’, fondando su tale circostanza la valutazione di attendibilità dei rapporti ispettivi e delle dichiarazioni testimoniali. Deduce, pertanto, la violazione dell’art. 116 c.p.c., avendo la Corte distrettuale ‘conferito alle dichiarazioni degli operatori della Lodge – rapporto ispettivo – piena prova, recependoli senza nessun apprezzamento critico, così deducendone, erroneamente, a cascata: che si fossero realmente verificati gli acquisti indicati nella lettera di contestazione, nei giorni e nelle ore ivi indicati; e di conseguenza, conferendo, erroneamente, all’assenza di esuberi in cassa un valore probatorio, di contro, inesistente laddove, come emerso da questo processo, non vi sia la preliminare prova dell’effettivo acquisto
del prodotto’. In particolare, lamenta che il giudice del reclamo avrebbe attribuito valore probatorio alle dichiarazioni rese dal teste COGNOMEil quale, come evidenziato dalla sentenza di primo grado, aveva risposto alle domande consultando documentazione proveniente dalla società RAGIONE_SOCIALE che aveva effettuato i controlli ispettivi, non essendo, invece, in grado di ricordare ciò che non era indicato nel documento consultato) e dal teste COGNOME prive di tale valore.
2. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta ‘Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7 legge n. 300/1970, degli artt. 112 cpc, 342, comma 2, cpc, 329, comma 2, cpc, 324 cpc in relazione all’art. 116 cpc e 5 legge n. 604/1966; error in procedendo (art. 360 cpc n. 4)’ e censura la sentenza impugnata che, ‘in aperta violazione dei principi di immutabilità del fatto contestato (art. 7 legge n. 300/1970), di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 cpc), del tanto devolutum quantum appellatum (art. 342 cpc), del fenomeno processuale dell’acquiescenza impropria (art. 329, comma 2, cpc) e del conseguente giudicato formale interno (art. 324 cpc), nell’accogliere il reclamo ha riformato quella parte della sentenza resa dal Tribunale di S. Maria C.V., non impugnata e sulla quale era ormai calato il giudicato formale interno per effetto del fenomeno processuale dell’acquiescenza impropria’. Rileva, al riguardo, che la Corte di Appello ha ritenuto legittimo il licenziamento e provata la condotta addebitata alla lavoratrice fondando la decisione sulla mancanza di esubero di cassa che, nella ricostruzione del Collegio di merito, dimostrerebbe la condotta dolosa di appropriazione indebita della lavoratrice e ciò nonostante non le fosse mai stata contestata, come correttamente accertato dal Giudice del primo grado e passato in giudicato per assenza di impugnativa della relativa parte di sentenza, l’appropriazione indebita delle eventuali somme di denaro. Inoltre, la Corte territoriale, violando il disposto degli artt. 112 cpc, 342, comma 2, cpc, 329, comma 2, cpc e 324 cpc, ha commesso, altresì, violazione dell’art. 7 della legge n. 300/1970, consentendo un illegittimo mutamento del fatto contestato, con riferimento agli elementi materiali
connessi all’azione addebitata alla lavoratrice, rispetto ai quali la stessa non si è chiaramente giustificata. Il licenziamento irrogato alla lavoratrice non potrà, in ogni caso, mai essere considerato legittimo per la supposta appropriazione indebita, ad opera della lavoratrice, delle presunte somme corrispondenti al prezzo di prodotti per i quali manca la prova della vendita, in quanto tale fatto non è oggetto di contestazione.
Con il terzo motivo lamenta, ex art. 360 comma 1 n. 5, ‘omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’effettività del controllo ispettivo e genuinità del relativo rapporto ispettivo e alla conseguenziale effettiva sussistenza degli addotti acquisti, ad opera degli operatori della RAGIONE_SOCIALE, dei prodotti per i quali è stata contestata alla lavoratrice la mancata battitura dello scontrino’. Deduce che il giudice del reclamo, contrariamente a quanto effettuato in primo grado, aveva del tutto apoditticamente ritenuto provato lo svolgimento dell’attività di controllo da parte del personale della RAGIONE_SOCIALE, nonostante tale circostanza, così come l’effettivo acquisto dei prodotti in contestazione, fosse stata contestata dalla COGNOME sulla base di una serie di anomalie emergenti dai rapporti investigativi redatti dalla società RAGIONE_SOCIALE incaricata dal datore di lavoro. La ricorrente evidenzia che ove il giudice del reclamo non avesse omesso di esaminare il fatto presupposto (l’effettiva presenza degli operatori della Lodge nei momenti di presunta consumazione dei fatti addebitati) dandolo, illegittimamente, per pacifico, avrebbe dovuto valutare negativamente l’idoneità delle dichiarazioni dei testi a conferire efficacia probatoria ai rapporti ispettivi (scritti provenienti da terzi).
I motivi di ricorso primo e terzo possono essere congiuntamente esaminati e sono inammissibili. Essi, infatti, nonostante il formale richiamo al vizio di violazione di norme di legge e di omesso esame di un fatto decisivo, si risolvono nella denuncia di una errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti.
5. Il ricorso per cassazione conferisce, infatti, al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. n. 331 del 13/01/2020, Rv. 656802-01). La valutazione delle prove raccolte costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione, sicché rimane estranea al vizio previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. qualsiasi censura volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116, commi 1 e 2, c.p.c., in esito all’esame del materiale istruttorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, atteso che la deduzione del vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. non consente di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali, contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito (cfr Cass. n. 20553 del 19/07/2021, Rv. 661734 – 01).
Occorre, inoltre, ribadire che l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito
diverso della controversia). La norma, dunque, attiene all’omesso esame di un fatto da intendersi riferito a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo. Anche l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. n. 17005 del 20/06/2024, Rv. 671706-01; Cass. Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629831-01; Cass. n. 22397 del 06/09/2019, Rv. 655413-01). La valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione, sicché rimane estranea al vizio previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. qualsiasi censura volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116, commi 1 e 2, c.p.c., in esito all’esame del materiale istruttorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, atteso che la deduzione del vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. non consente di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali, contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito (Cass. n. 20553 del 19/07/2021, Rv. 661734-01).
La doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è, poi, ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato -in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad
esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Si veda Cass. Sez. Un. n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 – 02; Cass. n. 6774 del 01/03/2022, Rv. 664106 – 02). Il ricorso per cassazione conferisce, infatti, al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. n. 331 del 13/01/2020, Rv. 656802 – 01). È, pertanto, insindacabile, in sede di legittimità, la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice (cfr Cass. n. 21187 del 08/08/2019, Rv. 655229 – 01; Cass. n. 16056 del 02/08/2016, Rv. 641328 – 01).
8. Nella specie, la Corte di merito, diversamente valutando il complessivo quadro istruttorio rispetto a quanto fatto in primo grado, ha rigettato la domanda della COGNOME, richiamando la univocità delle deposizioni testimoniali raccolte, supportate dai rapporti ispettivi e dalle allegate schede redatte dai dipendenti della ditta incaricata dei controlli.
8.2. Non vi è stata violazione della regola di ripartizione dell’onere probatorio, pacificamente gravante sulla parte datrice di lavoro ai sensi dell’art. 5, legge n. 604/1966, violazione configurabile solo ove il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma (Cass. 17/06/2013 n. 15107) ed abbia deciso la causa in applicazione di tale criterio, ma non anche quando, come nel caso di specie, la decisione risulti fondata su un accertamento fattuale tratto dalle emergenze acquisite, le quali sono state ritenute univocamente convergenti nel delineare la responsabilità della COGNOME per gli addebiti contestatigli in via disciplinare (cfr. Cass. n. 30545 del 2021).
8.3. Né d’altra parte sussiste il dedotto vizio, ex art. 360 comma 1, n. 5, di omesso esame di un fatto, nel senso sopra precisato, lamentandosi piuttosto una (asserita) non corretta valutazione da parte della Corte territoriale delle risultanze istruttorie al fine di ritenere provata ‘l’effettività del controllo ispettivo’.
Il secondo motivo di ricorso è infondato. In primo luogo, la censura di violazione del giudicato interno prospettata dalla ricorrente difetta di autosufficienza (cfr Cass. n. 7499 del 15/03/2019, Rv. 653628-01), non avendo la ricorrente riportato, neppure per stralci, il contenuto dell’atto di reclamo proposto dalla RAGIONE_SOCIALE rendendo così impossibile per questa Corte verificare la dedotta mancata impugnazione in ordine alle affermazioni contenute nella sentenza di primo grado relative alla identificazione dei fatti addebitati alla lavoratrice.
9.1. Essa è, poi, infondata dovendosi richiamare il principio, conforme all’insegnamento di questa Suprema Corte, secondo cui il giudicato interno può formarsi solo su di un capo autonomo di sentenza che risolva una questione avente una propria individualità ed autonomia, così da integrare una decisione del tutto indipendente e determinante ai fini dell’accertamento del diritto (Cass. n. 17935 del 2007; Cass. n. 23747 del 2008), non anche su quelli relativi ad affermazioni che costituiscano
mera premessa logica della statuizione in concreto adottata (Cass. n. 22863 del 2007); ove non sia stata proposta impugnazione nei confronti di un capo della sentenza e sia stato, invece, impugnato un altro capo strettamente collegato al primo, è da escludere che sul capo non impugnato si possa formare il giudicato interno (vedi, per tutte: Cass. n. 4934 del 2010); la violazione del giudicato interno si può verificare soltanto quando la sentenza di primo grado si sia pronunziata espressamente su una questione del tutto distinta dalle altre e tale specifica pronunzia non può considerarsi implicitamente impugnata allorché il gravame sia proposto in riferimento a diverse statuizioni, rispetto alle quali la questione stessa non costituisca un antecedente logico e giuridico, così da ritenersi in esse necessariamente implicata, ma sia soltanto ulteriore ed eventuale e, comunque, assolutamente distinta (Cass. n. 28739 del 2008).
9.2. Nel caso di specie la parte dell’argomentazione della decisione di primo grado, riportata in ricorso, attinente alla identificazione dei fatti posti a fondamento del recesso datoriale (omessa battitura dello scontrino in una serie di operazioni debitamente indicate) non risulta, in base ai soli stralci di sentenza riprodotti, presentare nessuna individualità o autonomia tale da integrare una decisione indipendente, suscettibile di passare in cosa giudicata.
Quanto alla dedotta violazione del principio di immutabilità della contestazione, occorre evidenziare che esso attiene al complesso degli elementi materiali connessi all’azione del dipendente e può dirsi violato solo ove venga adottato un provvedimento sanzionatorio che presupponga circostanze di fatto nuove o diverse rispetto a quelle contestate, così da determinare una concreta menomazione del diritto di difesa dell’incolpato, e non quando il datore di lavoro, o il giudice, proceda a un diverso apprezzamento o a una diversa qualificazione del medesimo fatto (cfr. Cass. n. 11540 del 15/06/2020, Rv. 657974 – 01). È stato, in particolare, affermato che, in virtù di detto principio, i fatti su cui si fonda il provvedimento sanzionatorio devono coincidere con quelli oggetto
dell’avvenuta contestazione. Ai fini del rispetto delle garanzie previste dall’articolo 7 della legge n. 300 del 1970, il contraddittorio sul contenuto dell’addebito mosso al lavoratore può, dunque, ritenersi violato (con conseguente illegittimità della sanzione, irrogata per causa diversa da quella enunciata nella contestazione) solo quando vi sia stata una sostanziale immutazione del fatto addebitato, inteso con riferimento alle modalità dell’episodio e al complesso degli elementi di fatto connessi all’azione del dipendente, ossia quando il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa (cfr. tra le altre Cass. n. 2935 del 2013). Nello stesso senso si è sancito che: “il principio della immutabilità della contestazione dell’addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell’art. 7 l. n. 300/1970 attiene alla relazione tra i fatti contestati e quelli che motivano il recesso e, pertanto, non riguarda la qualificazione giuridica dei fatti stessi, in relazione all’indicazione delle norme violate” (cfr. Cass. n. 7105 del 1994). Invero, la qualificazione del fatto è un proprium del giudice, non del datore di lavoro. E ancora questa Corte ha affermato che: “In tema di licenziamento disciplinare, il fatto contestato ben può essere ricondotto ad una diversa ipotesi disciplinare (dato che, in tal caso, non si verifica una modifica della contestazione, ma solo un diverso apprezzamento dello stesso fatto), ma l’immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di far poi valere, a sostegno della legittimità de/licenziamento stesso, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell’infrazione anche diversamente tipizzata dal codice disciplinare apprestato dalla contrattazione collettiva, dovendosi garantire l’effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare di cui all’art. 7, della legge n. 300 del 1970 assicura al lavoratore incolpato.
10.1. Nel caso di specie, non sussiste la questione della paventata disamina, da parte della Corte di merito, di un diverso e più grave addebito disciplinare rispetto a quello posto a base del licenziamento, alla luce della lettura del presente ricorso nel quale è riportato il tenore
letterale dell’espressione adoperata dalla datrice di lavoro in sede di addebito disciplinare. Orbene, in quest’ultimo atto è contenuto il chiaro riferimento alla circostanza dell’avvenuto incasso, da parte della lavoratrice, degli importi relativi alle omesse registrazioni di cassa delle vendite eseguite, vale a dire allo stesso fatto esaminato dalla Corte territoriale. Pertanto, è privo di pregio l’attuale tentativo della difesa della ricorrente di tracciare un’apparente, ma in realtà insussistente, linea di differenziazione tra l’ipotesi formalmente contestata e quella dell’appropriazione indebita di somme di denaro, dal momento che la prima corrisponde di fatto alla seconda, per cui la sentenza impugnata non merita le censure mosse col presente motivo.
Il ricorso, in conclusione, va rigettato.
La ricorrente va condannata alla rifusione delle spese processuali in favore della controricorrente liquidate come da dispositivo.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso
condanna la ricorrente NOME al pagamento, in favore di RAGIONE_SOCIALE, delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.500 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200 ed agli accessori di legge.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13
Così deciso in Roma, all’esito dell’adunanza camerale della Sezione