Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 29441 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 29441 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 06/11/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 29621/2020 r.g. proposto da:
COGNOME NOME, titolare dell’omonima RAGIONE_SOCIALE individuale, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO, giusta procura speciale in calce al ricorso, il quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni e notifiche a ll’ indirizzo di posta elettronica certificata indicato.
-Ricorrentecontro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO, la quale dichiara di voler ricevere le notifiche e le comunicazioni relative al presente procedimento all’indirizzo di posta elettronica certificata indicato.
– controricorrente-
COGNOME NOME, in proprio e quale legale rappresentante del RAGIONE_SOCIALE, in liquidazione, RAGIONE_SOCIALE.
-intimati-
avverso l’ordinanza della Corte di appello di RAGIONE_SOCIALE n. 54/2020, depositato il 3/2/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/10/2025 dal AVV_NOTAIO;
RILEVATO CHE:
Con atto di citazione notificato il 13/10/1998 l’RAGIONE_SOCIALE proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso, su richiesta di NOME COGNOME, titolare di RAGIONE_SOCIALE consorziata, per il pagamento della somma di lire 68.757.735, ossia di euro 35.514,40, a titolo di corrispettivo per l’esecuzione di nuovi lavori, non previsti nel contratto di appalto stipulato tra l’RAGIONE_SOCIALE ed il RAGIONE_SOCIALE per la realizzazione di 54 alloggi, relativi al completamento di n. 4 fabbricati di edilizia residenziale pubblica.
L’RAGIONE_SOCIALE eccepiva, in via preliminare, la carenza di legittimazione processuale del COGNOME, poiché l’appalto era stato affidato al RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, soggetto distinto dalle singole RAGIONE_SOCIALE consorziate.
Tra l’altro, deduceva che il COGNOME non aveva provveduto alla rituale apposizione delle riserve, da formulare negli atti contabili.
Si costituiva in giudizio il COGNOME, assumendo che, in realtà, i lavori erano stati concordati con la direzione, sicché non era necessaria l’apposizione delle riserve sui lavori aggiuntivi.
Chiedeva l’autorizzazione a chiamare in RAGIONE_SOCIALE la RAGIONE_SOCIALE, anche ai fini del risarcimento dei danni, proponendo domanda
riconvenzionale per il pagamento, da parte di COGNOME, della somma di lire 68.757.735 per le opere eseguite e lire 12.000.000 per le spese tecniche sostenute.
Si costituiva volontariamente in giudizio NOME COGNOME, in proprio e quale legale rappresentante del RAGIONE_SOCIALE chiedendo: a) la condanna dell’RAGIONE_SOCIALE al pagamento della somma di lire 70.875.000,00 (pari ad euro 36.603,88) a titolo di indebito arricchimento per l’istallazione di un diverso tipo di caldaie; b) in via riconvenzionale, la condanna del medesimo ente al pagamento della predetta somma a titolo, però, di risarcimento danni.
Il tribunale di Melfi, con sentenza non definitiva del 27/1/2006, dichiarava l’inammissibilità delle domande riconvenzionali proposta dal COGNOME e dall’interventore volontario.
In particolare, per quel che qui interessa, il tribunale rigettava la domanda riconvenzionale del COGNOME di pagamento dei lavori eseguiti extra contratto a titolo di indebito arricchimento, potendo l’RAGIONE_SOCIALE esercitare un’altra azione per farsi indennizzare il pregiudizio sofferto.
Con la sentenza definitiva del 13/5/2010 il tribunale accoglieva l’opposizione proposta dall’RAGIONE_SOCIALE, revocava il decreto ingiuntivo, dichiarando il difetto di legittimazione passiva del COGNOME, nonché il difetto di legittimazione processuale di NOME COGNOME quale attore in proprio.
Rigettava la domanda proposta da RAGIONE_SOCIALE nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE per il pagamento di euro 36.603,88, a titolo di indebito arricchimento.
Quanto al difetto di legittimazione attiva del COGNOME e dello COGNOME il tribunale evidenziava che l’appalto era stato affidato ad un RAGIONE_SOCIALE con attività esterna il quale, avendo assunto la veste di società cooperativa, doveva considerarsi un autonomo centro
d’imputazione di rapporti giuridici, «ma addirittura un soggetto dotato di personalità giuridica distinta dalle RAGIONE_SOCIALE consorziate (che non avevano legittimazione a stare in giudizio)».
Quanto alla domanda riconvenzionale proposta da RAGIONE_SOCIALE a titolo di indebito, il tribunale rilevava che il RAGIONE_SOCIALE era decaduto non avendo tempestivamente iscritto la riserva nel registro di contabilità ed avendo a disposizione l’azione ex art. 1664 c.c., avendo peraltro stipulato un contratto a forfait.
Avverso tale sentenza proponeva appello soltanto il COGNOME lamentando l’erronea statuizione sul difetto di legittimazione attiva oltre all’illegittimità della declaratoria di inammissibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento.
Il RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME non si costituivano in giudizio.
Si costituiva, invece, in giudizio l’RAGIONE_SOCIALE, assumendo che la legittimazione a stare in giudizio spettava al RAGIONE_SOCIALE, quale centro autonomo di imputazione, con una propria soggettività giuridica.
Aggiungeva che, in ogni caso, il prezzo dell’appalto era stato convenuto a forfait con la maggiorazione del 75% rispetto all’importo a base d’asta, per cui la richiesta di oneri aggiuntivi risultava infondata.
Peraltro, il COGNOME era decaduto dalla possibilità di ottenere quanto richiesto poiché le riserve non erano state formulate tempestivamente (operazione quest’ultima che peraltro competeva al RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE).
L’istanza di indennizzo a titolo di arricchimento senza causa era da ritenere infondata, poiché le prestazioni trovavano il loro titolo giustificativo nelle previsioni contrattuali.
La Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE, con sentenza n. 54/2020, confermava il difetto di legittimazione attiva dell’appellante, in
quanto i lavori aggiuntivi si fondavano sul contratto di appalto aggiudicato al RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE.
Il giudice di prime cure aveva dichiarato la carenza di legittimazione processuale attiva di NOME COGNOME ma nella sua qualità di attore in proprio.
In realtà, il COGNOME aveva assunto unicamente la veste di titolare di una delle RAGIONE_SOCIALE facenti parte del RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, mentre il COGNOME non aveva stipulato alcun contratto.
Per la Corte territoriale, dunque, «il COGNOME, quale titolare di una delle RAGIONE_SOCIALE consorziate, poteva far valere le proprie pretese per i lavori appaltati dall’RAGIONE_SOCIALE, solo nei confronti del RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, di cui era parte, ma non anche nei riguardi dell’ente appaltante, essendo soggetto estraneo al rapporto contrattuale».
Per la Corte d’appello il RAGIONE_SOCIALE, quando operava con i terzi, mediante la stipula del contratto di appalto, per conto dei consorziati, agiva quale loro mandatario e rispondeva, quindi, delle relative obbligazioni, laddove le RAGIONE_SOCIALE consorziate costituivano articolazioni organiche del soggetto collettivo.
L’attività compiuta dalle consorziate era imputata organicamente al RAGIONE_SOCIALE, come unico ed autonomo centro d’imputazione di riferimento di interessi, per cui la responsabilità per inadempimento degli obblighi contrattuali nei confronti della P.A. gravava esclusivamente sul RAGIONE_SOCIALE senza estendersi, in via solidale, alla cooperativa incaricata dell’esecuzione.
Il RAGIONE_SOCIALE era dunque l’unica controparte del rapporto di appalto, sia nella fase della gara che in quella successiva dell’esecuzione del contratto.
Per il giudice di secondo grado era infondata anche l’azione di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c.
Tale azione poteva essere esercitata solo se l’attore non poteva proporre altra azione per farsi indennizzare il pregiudizio subito.
In realtà, però, l’azione contrattuale, diretta al soddisfacimento del credito, poteva essere esercitata dalla RAGIONE_SOCIALE, quale titolare del rapporto contrattuale, ed il COGNOME avrebbe potuto far valere le proprie pretese creditorie per i lavori eseguiti, quale RAGIONE_SOCIALE consorziata, nel rapporto interno con la RAGIONE_SOCIALE.
Senza contare che l’appaltatore avrebbe dovuto iscrivere tempestivamente apposita riserva nel registro di contabilità.
Si sarebbe trattato comunque di un arricchimento imposto (si citava Cass., Sez. U., n.10798 del 2015), sicché l’indennizzo non era dovuto se l’arricchito aveva rifiutato l’arricchimento o non avesse potuto rifiutarlo.
Allo stesso modo, in caso di opere aggiuntive eseguite dall’appaltatore in assenza di qualsiasi autorizzazione, e quindi in violazione di uno specifico precetto normativo, l’appaltatore non poteva pretendere alcuna indennità sulla base dell’azione generale di arricchimento.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME, depositando anche memoria scritta.
Ha resistito con controricorso l’RAGIONE_SOCIALE, depositando anche memoria scritta.
Sono rimasti intimati NOME COGNOME, in proprio, e la RAGIONE_SOCIALE.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce, a pagina 7 del ricorso, la «nullità del procedimento ex art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., per omesso esame degli esiti della CTU. Error in judicando ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.».
Per il ricorrente, infatti, l’esecuzione in proprio di lavori extracapitolato, da parte della singola consorziata non consentirebbe di ascrivere tali lavori al RAGIONE_SOCIALE, «trattandosi di opere aventi titolo in rapporti, subcontratti o contratti autonomamente intervenuti tra la singola RAGIONE_SOCIALE e la Stazione Appaltante».
Il giudice d’appello avrebbe erroneamente ritenuto che le opere eseguite dalla RAGIONE_SOCIALE trovassero titolo nel contratto d’appalto stipulato con il RAGIONE_SOCIALE, al quale la COGNOME apparteneva, «piuttosto che nell’ambito di un ulteriore successivo autonomo rapporto contrattuale, finalizzato alla realizzazione di opere non previste in capitolato individuate come utili in corso d’opera e pertanto autonomamente commissionate alla RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE dagli organi della Stazione Appaltante».
Tale errore deriverebbe dalla circostanza che la Corte territoriale avrebbe «trascurato gli esiti della CTU intervenuta in corso di causa».
L’autonoma stipulazione del contratto tra il COGNOME e l’RAGIONE_SOCIALE sarebbe evincibile dall’affermazione dei CTU per cui «l’unica strada di accesso (…) è da ritenersi fuori (o esclusa) dal contratto di appalto».
Sarebbe dunque superata l’affermazione della Corte territoriale per cui nessuno dei documenti prodotti in giudizio consentirebbe di individuare, quale soggetto contrattuale, titolare del diritto di credito, il COGNOME.
La Corte d’appello avrebbe omesso la valutazione «del suddette risultanze processuali», con «omessa valutazione della CTU».
Il motivo è inammissibile.
2.1. In primo luogo, il motivo difetto di autosufficienza ex art. 366, n. 6, c.p.c., in quanto il ricorrente non trascrive in alcun modo i tratti salienti della CTU espletata, limitandosi a riportare una frase del CTU, del tutto priva di pregnanti significati, e comunque di sicuro
inidonea a dimostrare la sussistenza di un contratto d’appalto stipulato, in via autonoma, tra l’RAGIONE_SOCIALE, consorziata, e la stazione appaltante RAGIONE_SOCIALE («l’attuale strada di accesso (…) è da ritenersi fuori (o esclusa) dal contratto di appalto»).
2.2. In secondo luogo, l’erronea valutazione delle risultanze della CTU non può certo integrare il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.
L’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui ambito non è inquadrabile la consulenza tecnica d’ufficio atto processuale che svolge funzione di ausilio del giudice nella valutazione dei fatti e degli elementi acquisiti (consulenza c.d. deducente) ovvero, in determinati casi (come in ambito di responsabilità sanitaria), fonte di prova per l’accertamento dei fatti (consulenza c.d. percipiente) – in quanto essa costituisce mero elemento istruttorio da cui è possibile trarre il “fatto storico”, rilevato e/o accertato dal consulente – nella specie, la Corte ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso in quanto la ricorrente non aveva evidenziato quale “fatto storico” decisivo fosse stato omesso nell’esame condotto dai giudici di merito, limitandosi a denunciare una omessa valutazione delle risultanze della CTU – (Cass., sez. 63, 24/6/2020, n. 12387; Cass., sez. 1, 16/3/2022, n. 8584; Cass., sez. 3, 2/3/2023, n. 6322).
2.3. Inoltre, lo stesso ricorrente ha ammesso che si è in presenza di una doppia decisione di merito, tanto che la Corte d’appello «non si limita a confermare la decisione di primo grado, ma introduce nuove e differenti ragioni a sostegno della propria pronuncia di rigetto» (cfr. pagina 5 del ricorso per cassazione).
Non può dunque non trovare applicazione la giurisprudenza di questa Corte per cui nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348ter , comma 5, c.p.c., il ricorso per cassazione proposto per il motivo di cui al n. 5) dell’art. 360 c.p.c. è inammissibile se non indica le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass., sez. 3, 28/2/2023, n. 5947).
Nell’ipotesi di doppia conforme il ricorrente in cassazione, per evitare di inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass., sez. 2, 10/3/2014, n. 5528).
Inoltre, ricorre l’ipotesi di «doppia conforme», ai sensi dell’art. 348 ter, commi 4 e 5, c.p.c., con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logicoargomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (Cass., 6-29/3/2022, n. 7724).
Nella specie, invece, il ricorrente, non solo non ha indicato l’eventuale diversità delle motivazioni della sentenza di primo grado di cui all’appello, ma ha persino ammesso che la sentenza della Corte territoriale ha confermato la motivazione della sentenza d’appello, aggiungendo ulteriori circostanze argomentative.
3. Con il secondo motivo di impugnazione si deduce, a pagina 10 del ricorso per cassazione, sub 1.2., la «violazione e/o la falsa applicazione degli articoli 2600, 2602, 2315 c.c., e dell’art. 75 c.p.c. – art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
L’omessa valutazione delle risultanze della CTU avrebbe indotto i giudici dei precedenti gradi di giudizio a sostenere il difetto di legittimazione del COGNOME, sulla scorta dell’autonomia giuridica del RAGIONE_SOCIALE quale centro d’imputazione.
Sennonché, ai sensi dell’art. 2602 c.c., «la stipulazione del contratto di RAGIONE_SOCIALE non comporta l’assorbimento delle RAGIONE_SOCIALE contraenti in un organismo unitario».
Il RAGIONE_SOCIALE – ad avviso del ricorrente – determinerebbe, al contrario, «solo la costituzione di un’organizzazione comune per la disciplina per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive attività, senza che ciò faccia venir meno l’autonomia delle singole RAGIONE_SOCIALE consorziate».
Per tale ragione, per il ricorrente, ogniqualvolta una singola consorziata intrattenga autonomi rapporti con la PA, oltre l’ambito di stretta competenza del RAGIONE_SOCIALE, l’RAGIONE_SOCIALE assume, in relazione ad essi, in via esclusiva, autonome obbligazioni, «senza che possa in alcun modo farsi applicazione delle norme dettate in materia di mandato, che invece trovano applicazione unicamente tra RAGIONE_SOCIALE e consorziata allorquando ci si trovi al cospetto di rapporto insorto tra il RAGIONE_SOCIALE stesso e i terzi».
Sarebbe erronea l’affermazione della Corte d’appello per cui, quando il RAGIONE_SOCIALE opera con i terzi, mediante la stipula del contratto d’appalto, per conto dei consorziati, agisce quale loro mandatario e risponde, quindi, delle relative obbligazioni.
4. Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
4.1. Il motivo è inammissibile nella parte in cui non tiene conto della ratio decidendi della Corte d’appello, la quale ha ritenuto insussistente un autonomo rapporto contrattuale instauratosi tra la RAGIONE_SOCIALE, quale RAGIONE_SOCIALE consorziata, e la stazione appaltante RAGIONE_SOCIALE.
Per la Corte territoriale, infatti, il contratto d’appalto è stato stipulato esclusivamente tra due soggetti, il RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, quale appaltatore, e l’RAGIONE_SOCIALE, quale stazione appaltante, mentre la RAGIONE_SOCIALE è semplicemente una delle società facenti parte del RAGIONE_SOCIALE, e segnatamente proprio quella che doveva eseguire una determinata tipologia di lavori.
Il ricorrente, invece, chiede una nuova rivalutazione degli elementi istruttori, dai quali dovrebbe evincersi l’esistenza di un autonomo rapporto contrattuale tra l’RAGIONE_SOCIALE consorziata e la stazione appaltante RAGIONE_SOCIALE, esclusa in toto nella motivazione della sentenza della Corte d’appello.
4.2. Il motivo è anche infondato.
La Corte d’appello, infatti, ha fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziali in materia di RAGIONE_SOCIALE con attività esterna.
La Corte territoriale ha chiarito che il RAGIONE_SOCIALE, quando opera con i terzi, mediante la stipula del contratto d’appalto, per conto dei consorziati, agisce quale loro mandatario e risponde, quindi, delle relative obbligazioni, mentre le RAGIONE_SOCIALE consorziate costituiscono articolazioni organiche del soggetto collettivo.
Il RAGIONE_SOCIALE diventa, dunque, un unico ed autonomo centro d’imputazione di riferimento di interessi, sicché rappresenta l’unica controparte del rapporto di appalto.
4.3. Questa Corte ha chiarito che a norma dell’art. 2602 cod. civ., così come modificato dalla legge 10 maggio 1976 n. 377, la causa del contratto di RAGIONE_SOCIALE non è più limitata alla disciplina della concorrenza tra imprenditori esercenti una medesima attività
economica e attività economiche connesse, ma ha un ambito più vasto, grazie al quale tale contratto si rivela concepito quale strumento di collaborazione generale fra RAGIONE_SOCIALE diverse, volto a realizzare le più razionali ed opportune sinergie (Cass., sez. 1, 9/7/1993, n. 7567; Cass., sez. 1, 18/3/1995, n. 3163).
Si è peraltro chiarito che i consorzi, contrattando con i terzi per conto dei consorziati, operano quali loro mandatari, dovendo farsi carico delle obbligazioni assunte verso i terzi; tuttavia, in deroga al principio generale contenuto nell’art. 1705 cod. civ. (che prevede l’assunzione di obbligazioni solo a carico del mandatario), la responsabilità solidale tra RAGIONE_SOCIALE e singolo consorziato, prevista dal secondo comma dell’art. 2615 cod. civ. in ipotesi di obbligazioni contratte per conto del singolo consorziato, crea una duplice legittimazione passiva del RAGIONE_SOCIALE e del consorziato, anche senza spendita del nome di quest’ultimo, la cui obbligazione sorge, quindi, direttamente in capo a lui, per il solo fatto che sia stata assunta nel suo interesse. Trattandosi di responsabilità per debito altrui, l’obbligazione, nei rapporti interni fra RAGIONE_SOCIALE e consorziato, grava unicamente su quest’ultimo (Cass., sez. 3, 21/2/2006, n. 3664).
Si crea, dunque, una duplicità di legittimazioni passive, in via alternativa e cumulativa.
Risulta dunque chiaro che il RAGIONE_SOCIALE, nell’assunzione del contratto d’appalto, proprio per la sua ordinaria funzione (esterna) di intermediario tra i consorziati e di terzi, agisce «per conto» del consorziato, ma naturalmente «in nome proprio» (Cass., sez. 3, 4/6/2007, n. 12958, per la quale il RAGIONE_SOCIALE con attività esterna è un autonomo centro di rapporti giuridici, ben potendo stipulare contratti anche in nome proprio), ovvero «in nome proprio ma nell’interesse del consorziato» (Cass., n. 3664 del 2006).
Il RAGIONE_SOCIALE, coerentemente con i principi di cui agli articoli 2608 e 2609 c.c., nel contrattare con i terzi, ai sensi dell’art. 2615, comma 2, c.p.c., opera quale mandatario dei consorziati senza bisogno di spenderne il nome, con la conseguenza che l’obbligazione sorge in capo ad essi per il solo fatto che sia stata assunta nel loro interesse (Cass., sez. 5, 9/3/2020, n. 6569; Cass., sez. L, 20/12/2021, n. 40782; Cass., sez. 1, 16/3/2001, n. 3829; Cass., sez. 1, 26/7/1996, n. 6774; Cass., sez. 1, 27/9/1997, n. 9509).
Si ritiene, dunque, che il RAGIONE_SOCIALE agisca quale mandatario dei consorziati, sicché, in base ai principi generali (art. 1705 c.c., in relazione di articoli 2308 e 2609 c.c.), ciò dovrebbe comportare la responsabilità del solo RAGIONE_SOCIALE per le obbligazioni assunte verso i terzi e la inammissibilità di azioni del terzo contraente nei confronti del RAGIONE_SOCIALE.
Tuttavia, tali principi subiscono una deroga nella materia consortile dove, in virtù dell’art. 2615 secondo comma c.c., la responsabilità del singolo consorziato si somma con quella del RAGIONE_SOCIALE che ha agito per suo conto, creando, per effetto di questo vincolo solidale, una duplicità di legittimazioni passive, quella del RAGIONE_SOCIALE e quella del consorziato, in via alternativa o cumulativa (Cass. n. 3664 del 2006).
4.4. Del resto, per questa Corte, i consorzi con attività esterna, svolgendo attività ausiliaria «per conto delle RAGIONE_SOCIALE consorziate», costituiscono, nei confronti dei terzi, autonomi centri di imputazione di rapporti giuridici di responsabilità e, quindi, attesa la disciplina specificamente dettata dal codice civile, partecipano della stessa natura degli imprenditori commerciali consorziati e sono assoggettabili a fallimento (Cass., sez. 1, 16/12/2013, n. 28015).
4.5. Di particolare rilievo è la sentenza di questa Corte per la quale i consorzi stabili con rilevanza esterna, previsti dalla legge n.
109 del 1994, sono enti collettivi dotati di autonomia soggettiva, organizzativa e patrimoniale rispetto alle RAGIONE_SOCIALE consorziate, sicché è il RAGIONE_SOCIALE l’unico soggetto legittimato ad agire nei confronti del committente e titolare delle somme riscosse in esecuzione del contratto; ne consegue, pertanto, che non ha fondamento la pretesa della consorziata, assegnataria ed esecutrice dei lavori appaltati, al riconoscimento in prededuzione dei relativi crediti sulle somme incamerate dal RAGIONE_SOCIALE fallito (Cass., sez. 1, 18/1/2018, n. 1192).
In motivazione, si è chiarito che il RAGIONE_SOCIALE con attività esterna risulta connotato da autonomia, sul piano giuridico organizzativo, rispetto alle RAGIONE_SOCIALE consorziate, «venendo in rilievo un ente collettivo dotato di autonoma organizzazione, qualificazione e soggettività; di qui la considerazione per cui il RAGIONE_SOCIALE è «autonomo soggetto di diritto», dotato di autonoma qualificazione di un proprio patrimonio, in modo da impedirne ogni assimilazione tra consorziate del RAGIONE_SOCIALE stabile RAGIONE_SOCIALE mandanti di raggruppamenti temporanei di RAGIONE_SOCIALE, proprio per la ontologica differenza di struttura tra il primo ai secondi, per converso privi di personalità giuridica autonoma (Cass., n. 1192 del 2018).
Tant’è vero che, mentre il RAGIONE_SOCIALE con attività esterna può essere dichiarato fallito, potendo essere aperta la liquidazione giudiziale, in base al nuovo codice della crisi, l’ATI non può essere sottoposta alle procedure concorsuali.
Proprio il riconoscimento dell’autonomia patrimoniale in capo al RAGIONE_SOCIALE impedisce di reputare, da un lato, che le somme riscosse nei riguardi del committente appartengano in via esclusiva alla consorziata incaricata di eseguire i lavori, e dall’altro, che la società consorziata possa richiedere in piena autonomia somme derivanti dal contratto d’appalto stipulato tra il RAGIONE_SOCIALE e la stazione appaltante RAGIONE_SOCIALE.
Il RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE era, dunque, l’unico soggetto legittimato ad agire nei confronti del committente RAGIONE_SOCIALE per gli eventuali compensi – ove spettanti – per i lavori aggiuntivi.
5. Con il terzo motivo di impugnazione, riportato a pagina 10 del ricorso per cassazione, sub 1.3., il ricorrente deduce la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 342 della legge 2248, all.F, del 1865 e dell’art. 13 e 14 del Capitolato speciale d’appalto – art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Per il ricorrente, «l’omessa considerazione delle risultanze peritali» dovrebbe essere valutata anche in ordine all’erronea interpretazione applicazione dell’art. 342 della legge n. 2248 del 1865.
La Corte d’appello, trascurando le affermazioni del CTU, avrebbe erroneamente ritenuto arbitraria l’esecuzione delle opere aggiuntive eseguite dalla ricorrente, «benché pacificamente ordinate dalla Direzione lavori».
6. Il motivo è inammissibile.
Nuovamente il ricorrente chiede una nuova valutazione degli elementi istruttori, già compiutamente effettuata dalla Corte d’appello, non consentita in questa sede.
Tra l’altro, come detto, le conclusioni del CTU non possono in alcun modo integrare la censura di motivazione per omesso esame di fatto decisivo, poiché la CTU è un mezzo istruttorio, a meno che non si deduca che la sentenza d’appello non ha preso in considerazione un fatto naturalistico decisivo.
Inoltre, per questa Corte in tema di appalto di opere pubbliche, i lavori addizionali effettuati dall’appaltatore extra-contratto e non previamente autorizzati (per i quali egli non ha, di regola, diritto ad aumento di prezzo alcuno ex art. 342, comma 2, della l. n. 2248 del 1865, all. F) possono, eccezionalmente, dar luogo a compenso alla
quadruplice condizione che tali lavori formino oggetto di tempestiva riserva, siano qualificati come indispensabili in sede di collaudo, siano riconosciuti come tali anche dall’amministrazione committente e comportino un costo che, addizionato a quello dei lavori commissionati in contratto, rientri, comunque, entro i limiti delle spese approvate (Cass., sez. 1, 23/3/2023, n. 8275; Cass., sez. 1, 31/12/2020, n. 299 88; Cass., sez. 1, 17/7/2014, n. 16366; Cass., sez. 1, 31/5/2012, n 8786; Cass., sez. 1, 8/7/2009, n. 16046; Cass., sez. 1, 3/3/2006, n. 4725).
Inoltre, l’appaltatore che abbia eseguito variazioni introdotte per iniziativa unilaterale non ha diritto ad alcun compenso per dette variazioni, neppure a titolo di indebito arricchimento della PA committente (Cass., sez. 1, 9/7/2004, n. 12681).
Ciò, anche a prescindere dall’erronea indicazione della normativa applicabile.
Ed infatti, si è chiarito che, in tema di appalto di opere pubbliche, l’appaltatore che abbia eseguito varianti in corso d’opera non previste dal contratto non ha diritto, per ovvie necessità di protezione del pubblico interesse, ad alcun compenso o indennizzo di sorta, neppure a titolo di indebito arricchimento dell’ente committente, dovendo altresì ritenersi che il direttore dei lavori, che ne abbia disposto l’esecuzione, abbia agito al di fuori dei suoi poteri, e, perciò, quale falsus procurator dell’ente. Invero, l’art. 342, comma 2, della legge n. 2248 del 1865, Allegato F, come pure l’art. 25 della legge n. 109 del 1994, hanno sancito il divieto di introdurre varianti come regola generale assoluta, a meno che non siano approvate tramite una regolare procedura di affidamento ex art. 20 e seguenti della legge n. 109 del 1994 (Cass, sez. 1, 21/7/2016, n. 15029).
Con il quarto motivo di impugnazione, riportato a pagina 11 del ricorso per cassazione sub 2, il ricorrente lamenta la «violazione
e/o falsa applicazione degli articoli 45 e 47 del d.lgs. n. 50/2016 e dell’art. 11 delle Preleggi – Applicazione di norme non applicabili ratione temporis – Art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
La Corte d’appello avrebbe fondato la propria decisione su un presupposto erroneo «poiché del tutto disancorato dalle risultanze peritali», con l’errore di diritto consistente nell’aver citato, in relazione ai lavori eseguiti nel 1994, la normativa in vigore nel 2016, che escluderebbe la possibilità di imputare la paternità delle opere direttamente la consorziata RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE.
Il motivo è inammissibile.
8.1. Non v’è interesse ad impugnare.
La Corte d’appello, pur avendo erroneamente citato la normativa in vigore nel 2016, e segnatamente gli articoli 45 e 47 del d.lgs. n. 50 del 2016, tuttavia ha correttamente inquadrato giuridicamente la fattispecie, reputando, in punto di diritto, che il RAGIONE_SOCIALE «opera con i terzi, mediante la stipula del contratto di appalto, per conto dei consorziati» agendo «quale loro mandatario» e rispondendo delle relative obbligazioni, mentre le RAGIONE_SOCIALE consorziate costituiscono articolazioni organiche del soggetto collettivo.
Di talché, l’attività compiuta dalle consorziate risulta imputata unicamente al RAGIONE_SOCIALE.
L’argomentazione giuridica è del tutto coerente con la giurisprudenza di legittimità formatasi in tema di consorzi con attività esterna.
Con il quinto motivo di impugnazione, riportato sub 3 a pagina 12 del ricorso per cassazione, il ricorrente si duole della «violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1705, comma 2720 c.c. – art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Per il ricorrente, anche a volersi ammettere corretta la ricostruzione giuridica assunta dalla Corte d’appello, in ordine
all’imputabilità delle opere extra unicamente al RAGIONE_SOCIALE, tuttavia la Corte d’appello non avrebbe considerato che, ai sensi dell’art. 1705, secondo comma, c.c., in tema di mandato senza rappresentanza, è consentito alla consorziata, quale mandante, di sostituirsi nei diritti di credito esercitabili dal RAGIONE_SOCIALE quale mandatario.
Nella specie, l’effettiva partecipazione al giudizio del RAGIONE_SOCIALE e il mancato esercizio delle azioni creditizie ad esso spettanti, anche nell’interesse della consorziata, avrebbero dovuto condurre la Corte d’appello a ritenere sussistente la legittimazione processuale della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE.
Sarebbe erronea l’affermazione della Corte d’appello, per la quale la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE poteva far valere le proprie pretese per i lavori appaltati dall’RAGIONE_SOCIALE solo nei confronti del RAGIONE_SOCIALE.
In realtà, ad avviso del ricorrente, il mancato esercizio dell’azione ex art. 1721 c.c. nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE da parte del RAGIONE_SOCIALE, avrebbe legittimato la consorziata a far valere autonomamente i propri diritti di credito direttamente nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE.
Peraltro, il RAGIONE_SOCIALE, rimanendo contumace in appello, avrebbe rinunciato a far valere il proprio diritto di credito nei confronti della stazione appaltante.
10. Il motivo è inammissibile.
È inammissibile in quanto la prefigurazione di una legittimazione surrogatoria costituisce profilo nuovo.
Inoltre, è sufficiente osservare che, come emerge dalla sentenza d’appello, in realtà il RAGIONE_SOCIALE è intervenuto in giudizio («si costituiva volontariamente in giudizio COGNOME NOME, in proprio e quale legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, chiedendo la condanna dell’RAGIONE_SOCIALE al pagamento della somma di euro 36.603,88 titolo di indebito arricchimento, ovvero, in via riconvenzionale, a titolo di risarcimento danni»).
Pertanto, non ricorre l’ipotesi di cui all’art. 1705, secondo comma, c.c., a mente del quale, il mandante sostituendosi al mandatario, può esercitare diritti di credito derivante dall’esecuzione del mandato.
Senza contare che, pur a postulare l’esercizio dell’azione surrogatoria, essa non avrebbe alcun seguito, in assenza delle condizioni di cui a Cass. n. 8275 del 2023 (occorre la quadruplice condizione per il pagamento di lavori extra contratto effettuati dall’appaltatore).
11. Con il sesto motivo di impugnazione, riportata a pagina 13 del ricorso per cassazione sub 4, il ricorrente deduce la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.; degli articoli 99 e 346 c.p.c., nonché dell’art. 2907 c.c.; dell’art. 24 della costituzione – Art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Il ricorrente deduce di aver spiegato in primo grado la domanda nei confronti del RAGIONE_SOCIALE a RAGIONE_SOCIALE delle obbligazioni provenienti dal rapporto. Tuttavia, la Corte d’appello non avrebbe in alcun modo esaminato tale domanda che, in ogni caso, non poteva ritenersi assorbita nelle statuizioni del giudice di prime cure.
La RAGIONE_SOCIALE in RAGIONE_SOCIALE del RAGIONE_SOCIALE era avvenuta con la comparsa di costituire in primo grado, «assumendo natura di azione tipica rivolta al RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE – onde ottenere il pagamento del dovuto nella denegata ipotesi in cui il rapporto sotteso alla pretesa fosse stato inquadrato nel preesistente contratto di appalto e non quale titolo autonomo».
Il tribunale non avrebbe provveduto su tale domanda.
Il ricorrente ammette che «non ha espressamente riproposto in appello la domanda avanzata in primo grado nei confronti del RAGIONE_SOCIALE».
Tale domanda, però, non poteva ritenersi rinunciata, «avendo il Giudice di prime cure omesso ogni pronuncia sul punto».
Ed infatti, non sarebbe stato necessario riproporre la domanda in sede d’appello.
La Corte territoriale non avrebbe comunque in alcun modo pronunciato su tale domanda avanzata nei confronti del RAGIONE_SOCIALE con la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE.
Il motivo è inammissibile.
12.1. Il ricorrente, infatti, avrebbe dovuto indicare compiutamente, oltre all’atto processuale in cui ha proposto la domanda di RAGIONE_SOCIALE nei confronti del RAGIONE_SOCIALE, anche il contenuto della sentenza del tribunale che avrebbe omesso di pronunciare su tale domanda.
12.2. Peraltro, dalla sentenza della Corte d’appello emerge che «nel corso del giudizio di prime cure veniva emessa sentenza non definitiva in data 27/1/2006, con la quale veniva dichiarata l’inammissibilità delle domande riconvenzionali proposte dal COGNOME e dall’interventore volontario».
Con la sentenza definitiva, poi, il tribunale «dichiarava il difetto di legittimazione processuale di COGNOME NOME, quale attore in proprio, rigettando ogni ulteriore domanda proposta dalla RAGIONE_SOCIALE, non oggetto della suddetta pronuncia non definitiva».
A fronte del rigetto espresso, o di inammissibilità, della domanda proposta nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, il COGNOME avrebbe dovuto proporre appello.
Infatti, da un lato si rileva che l’art. 346 c.p.c., nel prevedere che le questioni le eccezioni non accolte in primo grado, e non specificamente riproposte in appello, si intendono rinunciate, fa riferimento all’appellato e non all’appellante, principale o incidentale che sia, in quanto l’onere dell’espressa riproposizione riguarda,
nonostante l’impiego della generica espressione ‘non accolte’, non le domande o le eccezioni respinte in primo grado, bensì solo quelle su cui il giudice non abbia espressamente enunciato, non essendo ipotizzabile, in relazione alle domande o eccezioni espressamente respinte, a 3ª via – riproposizione/rinuncia rappresentata dall’art. 346 c.p.c., rispetto all’unica alternativa possibile dell’impugnazioneprincipale o incidentale-o dell’acquiescenza, totale o parziale, con relativa formazione di giudicato interno (Cass., sez. 5, 6/6/2018, n. 14534).
Nella specie, la domanda del COGNOME era stata dichiarata inammissibile.
D’altro lato, deve ribadirsi che nel processo ordinario di cognizione risultante dalla novella di cui alla l. n. 353 del 1990 e dalle successive modifiche, le parti del processo di impugnazione, nel rispetto dell’autoresponsabilità e dell’affidamento processuale, sono tenute, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia (al di fuori delle ipotesi di domande e di eccezioni esaminate e rigettate, anche implicitamente, dal primo giudice, per le quali è necessario proporre appello incidentale ex art. 343 c.p.c.), a riproporre ai sensi dell’art. 346 c.p.c. le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, in quanto rimaste assorbite, con il primo atto difensivo e comunque non oltre la prima udienza, trattandosi di fatti rientranti già nel “thema probandum” e nel “thema decidendum” del giudizio di primo grado (Cass., Sez.U., 21/3/2019, n 7940).
Nella specie, però, la domanda proposta dal COGNOME nei confronti del RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE è stata dichiarata inammissibile.
13. Con il settimo motivo di impugnazione, riportato a pagina 15 del ricorso per cassazione sub 5.1., il ricorrente si duole della «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2041 c.c. in punto di difetto di legittimazione attiva e del principio di residualità ex art.
2042 c.c., dovendosi considerare esperita azione tipica nei confronti del RAGIONE_SOCIALE – art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Nullità del procedimento ex art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.».
L’azione generale di arricchimento ex art. 2041 c.c., ad avviso del ricorrente, non individua esclusivamente due soggetti, ma lascia ipotizzare l’estensione applicativa ad un terzo avvantaggiato.
Avrebbe poi errato la Corte d’appello a citare la sentenza di questa Corte, sezioni unite, n. 10798 del 2015, equiparando la vicenda in esame a quella in cui un soggetto esegue all’insaputa della PA o contro la sua volontà, e pertanto arbitrariamente, un’opera.
Con l’ottavo motivo di impugnazione il ricorrente deduceva, a pagina 16 del ricorso per cassazione, sub 5.2., la «Violazione dell’art. 2042 c.c. in punto di principio di residualità».
L’omessa pronuncia sulla domanda avanzata dalla RAGIONE_SOCIALE nei confronti del RAGIONE_SOCIALE, ed il giudicato formatosi sulla pronuncia di inammissibilità della domanda contrattuale proposta in via riconvenzionale, avrebbe dovuto indurre l’accoglimento dell’azione residuale di cui all’art. 2041 c.c.
I motivi settimo e ottavo, che vanno affrontati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono inammissibili.
15.1. Deve, anzitutto, rilevarsi che trattasi di domanda nuova, che non risulta in alcun modo presentata nel corso del giudizio di prime cure.
Tra l’altro, in violazione del principio di autosufficienza ex art. 366, n. 6, c.p.c., il ricorrente non ha neppure trascritto gli atti processuali nel quale sarebbe stata contenuta la domanda ex art. 2041 c.c. proposta nei confronti del RAGIONE_SOCIALE.
15.2. Senza contare, che, in realtà, il COGNOME ha proposto domanda riconvenzionale nei confronti del RAGIONE_SOCIALE, a titolo di RAGIONE_SOCIALE, anche ai fini del risarcimento danni.
Non sussiste allora il carattere di unicità e residualità della domanda.
16. In materia di appalto di opere pubbliche, l’art. 25 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, individuando le tassative ipotesi nelle quali sono ammesse varianti in corso d’opera, esclude l’applicabilità della disciplina ad un’opera diversa da quella prevista in contratto (nella specie, in fase di esecuzione di lavori di consolidamento di un tratto autostradale, era stato ordinato all’RAGIONE_SOCIALE di spostare l’opera dalla sede autostradale, ove era prevista dal progetto, alla sottostante scarpata); in tal caso, come nell’ipotesi in cui non vi sia stato il regolare espletamento di una procedura di approvazione di un’opera diversa da quella prevista in contratto, non si può porre a carico della stazione appaltante il prezzo di mercato delle opere realizzate e neppure il pagamento di un indennizzo per indebito arricchimento, per la necessità di protezione del pubblico interesse; ne consegue che nel caso in cui il direttore dei lavori di appalto di un’opera pubblica disponga l’esecuzione di opere extracontratto, agendo al di fuori dei suoi poteri e, perciò, quale “falsus procurator” dell’ente, l’appaltatore può farsi indennizzare dallo stesso direttore dei lavori, ex art. 1398 cod. civ., del pregiudizio subito (Cass., sez. 1, 9/1/2013, n. 343).
In caso di variazioni arbitrarie da parte dell’appaltatore, per tali variazioni, non si ha diritto né al compenso aggiuntivo né all’indennizzo, neppure a titolo di indebito arricchimento della committente (Cass., sez. 1, 23/2/1996, n. 1443; Cass., 9/7/2004, n. 12681).
17. Con il nono motivo di impugnazione, riportato a pagina 18 del ricorso per cassazione sub 6, il ricorrente deduce la «violazione o falsa applicazione dell’art. 1664 c.c. – art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
La diversità del rapporto contrattuale intervenuto tra il COGNOME e l’RAGIONE_SOCIALE, nonché tra quest’ultimo il RAGIONE_SOCIALE, non avrebbe consentito al ricorrente di apporre riserve su atti amministrativi e di cantiere afferenti a un diverso rapporto contrattuale.
La Corte d’appello erroneamente avrebbe affermato che, a supporto del rigetto della domanda di indebito arricchimento, il COGNOME avrebbe dovuto iscrivere le riserve su registri di contabilità e di cantiere, con riguardo alle opere realizzate e non previste nel contratto d’appalto.
In realtà, però, per il ricorrente, sin dall’inizio avrebbe avanzato la propria pretesa quale domanda autonoma e slegata dal contratto d’appalto stipulato tra RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE.
Pertanto, proprio l’autonomia e la diversità del rapporto contrattuale rispetto a quello intercorrente direttamente tra il COGNOME dell’RAGIONE_SOCIALE, non avrebbe consentito al COGNOME di apporre riserve.
Trattavasi di opere extra appalto, affidate autonomamente alla RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE.
18. Il motivo è inammissibile.
Attinge un rilievo della motivazione ad abundantiam («a ciò occorre aggiungere »).
Correttamente, la Corte d’appello ha ritenuto che l’appaltatore, ove reputi di richiedere somme maggiori rispetto a quelle convenute, deve necessariamente, una volta venuto a conoscenza di tali circostanze, o comunque, in caso di fatti continuativi, ove tali circostanze siano conoscibili, in base alla normale diligenza, provvedere all’iscrizione delle riserve nei registri di cantiere.
Tali riserve, non concernono soltanto pretese contrattuali, ma anche ipotesi di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., come pure indennizzo di cui all’art. 2041 c.c.
Ove l’appaltatore di opera pubblica voglia contestare la contabilizzazione dei corrispettivi effettuata dall’amministrazione oppure avanzare pretese comunque idonea ad incidere sul compenso complessivo spettantegli, è tenuto ad iscrivere tempestivamente apposita riserva registro di contabilità (Cass., sez. 1, 22/5/2007, n. 11852).
Il RAGIONE_SOCIALE avrebbe dovuto apporre le riserve.
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico del ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rimborsare in favore della controricorrente le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi euro 6.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, Iva e cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 28 ottobre 2025.
Il Presidente NOME COGNOME