Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 588 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 588 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 10698/2023 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t., la quale agisce in nome e per conto delle Società RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t., e RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t., domiciliate ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentate e difese dall’avvocato COGNOME NOMECOGNOME
-ricorrente-
contro
COGNOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di NAPOLI n. 811/2023 depositata il 23/02/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 03/10/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La presente controversia, per quel che qui rileva, trae origine dal decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Napoli nei confronti del sig. NOME COGNOME per il pagamento dell’importo di € 130.420,56, a favore della società RAGIONE_SOCIALE in relazione al pagamento del saldo di un contratto di leasing relativo ad una imbarcazione.
Proponeva opposizione il Russo denunciando la nullità della clausola penale, di cui agli articoli 22 e 23 lett. b), del contratto per contrasto con la norma imperativa ex art. 1526 c.c.
Con la sentenza n. 2654/2020, il Tribunale di Napoli, accertata la natura traslativa del leasing finanziario, affermava la liceità della clausola penale prevista all’art. 23 delle condizioni di contratto e revocava il decreto ingiuntivo opposto riducendo la somma ad € 85.858,14.
Con la sentenza n. 811 del 23 febbraio 2023, la Corte d’appello di Napoli, in accoglimento dell’appello proposto dal Rossi riformava la sentenza impugnata e rigettava la domanda proposta da Ubi RAGIONE_SOCIALE. Dichiarava la nullità, per contrasto con l’articolo 1526 c.c., dell’art. 23 del contratto inter partes in quanto oltre ad abilitare la concedente a pretendere l’intero prezzo del bene le consentiva di determinare arbitrariamente se e quando decurtare il ricavato dalla vendita a terzi. Nel caso di specie, avendo la società proceduto alla vendita dell’imbarcazione dopo due anni dalla riconsegna rendeva impossibile ancorare la decurtazione al valore di mercato stabilito con riferimento alla data di riconsegna.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito le società RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE propongono ora ricorso per cassazione, affidato a 2 motivi illustrati da memoria.
Resiste con controricorso e memoria il Russo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
5.1. Con il primo motivo le ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., della disciplina di cui agli artt. 1526, commi 1 e 2, 1382, 1384, 1418, 1419 c.c. e di quella contenuta nella clausola di cui all’art. 23 del contratto di leasing, per aver la Corte d’Appello di Napoli dichiarato la nullità della clausola, in contrasto con le norme di legge e con il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità.
Deducono che la Corte di Appello non ha fatto buon governo delle richiamate norme, ricavando dall’art. 1526 c.c. un’errata interpretazione della clausola contrattuale di cui all’art. 23 pervenendo ad una errata conclusione rispetto, invece, alla statuizione del Tribunale, che in maniera chiara e lineare aveva, con la sentenza n. 2654/2020, applicato i principi della giurisprudenza di legittimit à̀ .
5.1.1. Il motivo è infondato.
Occorre preliminarmente precisare che ai contratti di leasing traslativo risolti anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 124 del 2017, in assenza di una regolazione legislativa, si applica in via analogica la disciplina dell’art. 1526 c.c.; di conseguenza, la clausola che, in ipotesi di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, attribuisce al concedente il diritto di trattenere i canoni pagati ed impone all’utilizzatore di corrispondere quelli scaduti non è, di per sé, affetta da nullità, atteso che l’utilizzatore, una volta pagato il dovuto e restituito il bene, ha diritto di vedersi restituiti i canoni versati corrispondendo l’equo compenso, fermo restando il potere officioso del giudice di ridurre l’indennità ai sensi
del secondo comma dell’art. 1526 c.c. in caso di definitiva acquisizione al concedente delle rate corrisposte (Cass. 7367/2023).
Costituisce principio pacifico, in proposito, quello secondo cui nel leasing traslativo in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, quest’ultimo, restituita la cosa, ha diritto alla restituzione delle rate riscosse, fatto salvo il diritto del concedente di trattenere un equo compenso per l’uso della cosa, oltre al risarcimento del danno. Mentre l’equo compenso comprende la remunerazione del godimento del bene ed il deprezzamento conseguente alla sua non commerciabilità come nuovo ed al logoramento per l’uso, ma non il mancato guadagno da parte del concedente, il risarcimento del danno può derivare da un deterioramento anormale della cosa dovuto all’utilizzatore (in tal senso v. già la sentenza 24 giugno 2002, n. 9161, confermata in seguito, tra le altre, dalle sentenze 27 settembre 2011, n. 19732, 20 febbraio 2015, n. 3381, 13 novembre 2018, n. 29020, e 15 gennaio 2020, n. 519, nonché dalle ordinanze 20 settembre 2017, n. 21895, 24 gennaio 2020, n. 1581, e 22 marzo 2022, n. 9210). Nella sentenza n. 2061 del 2021, le Sezioni Unite hanno stabilito che, nell’assenza di una regolazione legislativa, l’applicazione, per via analogica, della disciplina dell’art. 1526 cod. civ. al contratto di leasing traslativo trae il suo fondamento dalla tradizionale distinzione tra quest’ultimo e il c.d. leasing di godimento, che si riflette anche sulla disciplina della risoluzione. Mentre, infatti, nel leasing di godimento la risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite, in conformità a quanto disposto dall’art. 1458, primo comma, secondo periodo, cod. civ., nel leasing traslativo la risoluzione è soggetta, come si è detto, alle regole dell’art. 1526 cit.; norma, quest’ultima, che, come hanno evidenziato le Sezioni Unite, è finalizzata «all’esigenza di porre un limite al dispiegarsi dell’autonomia privata là dove questa venga, sovente, a
determinare arricchimenti ingiustificati del concedente, il quale, seguendo lo schema da lui predisposto, si troverebbe a conseguire (la restituzione del bene e l’acquisizione delle rate riscosse, oltre, eventualmente, il risarcimento del danno, ossia) più di quanto avrebbe avuto diritto di ottenere per il caso di regolare adempimento del contratto da parte dell’utilizzatore stesso». La restituzione della cosa da parte dell’utilizzatore inadempiente, quindi, esercita, nella logica dell’art. 1526 cod. civ., un’indispensabile funzione di riequilibrio del sinallagrna negoziale, posto che essa è condizione imprescindibile per consentire la determinazione dell’equo compenso in capo al concedente. Ferma restando, peraltro, l’ulteriore possibilità, prevista dal secondo comma dell’art. 1526 cit., secondo cui -qualora sia stato convenuto tra le parti che le rate pagate restino acquisite al concedente a titolo d’indennità – il giudice può ridurre, secondo le circostanze, l’indennità convenuta (v. sul punto la citata sentenza delle Sezioni Unite, al punto 4.7.1. della motivazione). È opportuno ricordare, inoltre, che le Sezioni Unite si sono anche soffermate ad esaminare, richiamando i precedenti in argomento, la coerenza o meno di alcune clausole che frequentemente vengono inserite nei contratti di leasing traslativo.
5.1.2. Orbene dati i principi, occorre, invece, esaminare il problema relativo alla clausola contrattuale in contestazione (art. 23 delle Condizioni generali).
Le Sezioni Unite con la sentenza n. 2061 del 2021 hanno affermato essere «manifestamente eccessiva la penale che, mantenendo in capo al concedente la proprietà del bene, gli consente di acquisire i canoni maturati fino al momento della risoluzione, ciò comportando un indebito vantaggio derivante dal cumulo della somma dei canoni e del residuo valore del bene» (in tal senso già l’ordinanza 24 gennaio 2020, n. 1581).
Viceversa, è stata «reputata coerente con la previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 1526 cod. civ. la penale inserita nel contratto di leasing traslativo prevedente l’acquisizione dei canoni riscossi con detrazione, dalle somme dovute al concedente, dell’importo ricavato dalla futura vendita del bene restituito». La giurisprudenza più recente conferma detti principi (si vedano, tra le altre, le ordinanze 30 settembre 2021, n. 26531, 14 ottobre 2021, n. 28022, e 30 marzo 2022, n. 10249).
L’ordinanza n. 28022 del 2021, in particolare, richiamando i criteri enunciati dalle Sezioni Unite, afferma esplicitamente che la clausola che consente al concedente di trattenere i canoni incassati è conforme all’art. 1526, secondo comma, cod. civ.; che, viceversa, deve considerarsi contraria alla ratio legis la clausola che consente al concedente di acquisire, oltre all’intero importo del finanziamento, anche il valore del bene oggetto del contratto, perché essa determina una situazione paradossale, nella quale il concedente finirebbe col ricavare dall’inadempimento dell’utilizzatore un vantaggio maggiore di quello che gli sarebbe derivato dal regolare adempimento del contratto. Tale ordinanza, non a caso, prende le distanze anche da due decisioni che avevano affermato il contrario.
Dalla lettura dei precedenti suindicati si deduce che nella risoluzione del leasing traslativo acquista un ruolo decisivo la restituzione del bene, perché tale evento consente al meccanismo delineato dall’art. 1526 cod. civ. (primo e secondo comma) di esplicarsi nella sua pienezza.
La restituzione del bene comporta, per l’utilizzatore inadempiente, il diritto alla restituzione delle rate pagate, salvo il versamento dell’equo compenso al concedente; mentre, qualora sia convenuto che le rate pagate restino acquisite al concedente, il giudice potrà provvedere alla riduzione d’ufficio dell’indennità convenuta (v., sul punto, la citata ordinanza n. 26531 del 2021 circa il carattere
officioso di tale potere, derivante dalla previsione generale dell’art. 1384 cod. civ., nonché Sezioni Unite n. 2061 del 2021, p. 35, sulla c.d. clausola di confisca) (Cass. 7367/2023.
Ebbene nel caso in esame, la c orte d’appello ha dichiarato la clausola n. 23 delle Condizioni generali di contratto nulla per contrasto con l’articolo 1526 c.c. e riformando la sentenza del Tribunale ha rigettato la domanda avanzata dall’UBI perché oltre ad abilitare la concedente a pretendere l’intero prezzo del bene, le consentiva anche di determinare arbitrariamente se e quando decurtare il ricavato dalla vendita a terzi avendo la società proceduto alla vendita dell’imbarcazione a distanza di oltre due anni dalla riconsegna che avrebbe dovuto invece segnare il passo per ancorare la decurtazione al valore di mercato.
L ‘utilizzatore ha diritto di vedersi restituiti i canoni versati corrispondendo l’equo compenso, fermo restando il potere officioso del giudice di ridurre l’indennità ai sensi del secondo comma dell’art. 1526 c.c. in caso di definitiva acquisizione al concedente delle rate corrisposte.
Pertanto il giudice del merito ha ritenuto, se pur con una motivazione sintetica, sulla base della giurisprudenza di questa Corte che l’aver venduto il bene dopo due anni dalla riconsegna ha creato uno squilibrio tra le parti non consentito.
5.2. Con il secondo motivo parte ricorrente denuncia la nullità della sentenza d’appello ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c. per violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c., per motivazione apparente, non espressione di un autonomo processo deliberativo ma di una generica ed apodittica affermazione di principio, senza esame critico dei motivi di gravame formulati dall’appellante e delle risultanze documentali e probatorie in atti con grave pregiudizio della concedente.
Nello specifico la Società si duole della nullit à della sentenza impugnata, avendo il Giudice di Appello, al solo fine di giustificare
la declaratoria di nullit à della clausola penale di cui all’art. 23, utilizzato la motivazione resa dall’Ecc.ma Corte di Cassazione con l’Ordinanza n.10249 del 30.03.2022 pedissequamente ritrascritta -per un motivo totalmente difforme e non coerente con l’impianto motivazionale e di certo non adattabile, n é conciliabile con il contesto storico per cui è causa e con ci ò replicando sostanzialmente il primo motivo di ricorso.
5.2.1. Il motivo è infondato.
La motivazione è apparente allorché, pur esistente dal punto di vista grafico, non renda percepibile il fondamento della decisione e consista in argomentazioni oggettivamente inidonee a dar conto del ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento (Cass., S.U., 3 novembre 2016, n. 22232).
Nel caso di specie la motivazione rende ‘percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente idonee a far conoscere l’ iter logico seguito per la decisione.
All’infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo in favore della controricorrente, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna le ricorrenti al pagamento, in solido, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi euro 4.200,00, di cui euro 4.000,00 per onorari, oltre a spese generali e accessori di legge, in favore del controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle società ricorrenti , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis del citato art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza