Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 26451 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 26451 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 10/10/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5827/2022 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del liquidatore NOME COGNOME, e COGNOME NOME, in proprio, elettivamente domiciliati in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE);
-ricorrenti-
contro
RAGIONE_SOCIALE;
-intimata-
e nei confronti di
RAGIONE_SOCIALE;
-intimata-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di VENEZIA n. 2082/2021 depositata il 22/07/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14/05/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto n. 2641/13 veniva ingiunto a NOME COGNOME e a RAGIONE_SOCIALE il pagamento di euro 663.354,47, per canoni scaduti relativi ad un contratto di RAGIONE_SOCIALE avente ad oggetto un’imbarcazione.
Il giudizio di opposizione promosso dagli ingiunti si concludeva, in primo grado, con la sentenza n. 2060/2016, con la quale il Tribunale di Treviso rigettava l’opposizione, negando che la fattispecie dovesse essere regolata, come preteso dagli opponenti, dall’art. 1526 cod.civ., piuttosto che dall’art. 14 delle condizioni generali di contratto.
La Corte d’appello di Venezia, con la pronuncia 2082/2021 depositata il 22/07/202, ha rigettato l’impugnazione proposta da NOME COGNOME e da RAGIONE_SOCIALE
Segnatamente, la Corte d’appello ha ritenuto che, pur avendo ignorato il Tribunale la distinzione tra RAGIONE_SOCIALE traslativo e di godimento ed avendo erroneamente escluso l’applicazione analogica al caso di specie dell’art. 1526 cod.civ., non avendo la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE chiesto, oltre alla proprietà del bene ceduto in locazione finanziaria, l’intero importo del finanziamento, ma solo il pagamento dei canoni già scaduti, il problema da porsi era se, ai sensi dell’art. 1526 cod.civ., quanto preteso, unito alle somme già corrisposte, costituisse l’equo compenso per l’uso dell’imbarcazione e il risarcimento del danno.
Essendo stato versato da NOME COGNOME e dalla RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, divenuta cessionaria del contratto di RAGIONE_SOCIALE , l’importo complessivo di euro 1.193.444,91, la Corte d’appello ha ritenuto
l’utilizzatore tenuto secondo i termini contrattuali -oltre alla restituzione dell’imbarcazione, al pagamento dei canoni scaduti prima della risoluzione del contratto (euro 663.354,47) e del corrispettivo previsto per l’opzione di acquisto (euro 2.800,00); da detto importo ha detratto quanto ricavato dalla vendita dell’imbarcazione, cioè euro 235.000,00 più IVA, e vi ha aggiunto la somma di euro 294.701,76 dovuta al cantiere RAGIONE_SOCIALE per il rimessaggio dell’imbarcazione; sicché, ammontando il corrispettivo iniziale previsto per il contratto ad euro 3.535.382,30, non ha ravvisato alcuna sperequazione economica delle condizioni delle parti che imponesse la riduzione ad equità della clausola pattizia, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1384 e 1526, 2° comma, cod.civ.
NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE ricorrono per la cassazione di detta sentenza, formulando sei motivi.
Nessuna attività difensiva è svolta dalla RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e dalla cessionaria RAGIONE_SOCIALE, rimaste intimate.
La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis 1 cod.proc.civ.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1526, 1° comma, cod.civ, il difetto di motivazione, ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ.
Pur avendo la Corte d’appello correttamente ritenuto che dovesse trovare applicazione l’art. 1526 cod.civ., essendo quello per cui è causa un RAGIONE_SOCIALE traslativo, avrebbe errato: i) per non aver revocato il decreto ingiuntivo opposto che era stato emesso sull’assunto che la risoluzione del contratto dovesse essere regolata dall’art. 14 delle condizioni generali di contratto; ii) per non aver disposto una CTU allo scopo di determinare l’equo compenso spettante alla concedente; iii) per non aver condannato la concedente alla restituzione dei ratei riscossi; iv) per non aver
disposto eventualmente la compensazione, come richiesto in via riconvenzionale sin dal giudizio di prime cure, fra l’indennizzo dovuto alla concedente e la restituzione delle rate riscosse cui la stessa era tenuta.
Alla base di tale conclusioni vi è la convinzione dei ricorrenti che la Corte d’appello abbia implicitamente preso in considerazione l’art. 14 delle condizioni generali di contratto, nella parte in cui prevedeva il diritto della RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE di trattenere le rate già riscosse, e che senza motivazione abbia operato una valutazione positiva sulla congruità dell’indennizzo.
Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ., i ricorrenti si dolgono della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1526, 1° e 2° comma, cod.civ., con riferimento all’art. 1227 cod.civ. e dell’erronea interpretazione dell’art. 1626 cod.civ.
Premesso che il 1° ed il 2° comma dell’art. 1526 cod.civ. sono finalizzati a determinare il medesimo risultato, pur in ipotesi diverse -il 1° comma impone al giudice di determinare l’equo compenso nel caso in cui, in assenza di una previsione contrattuale, le rate debbano essere restituite all’utilizzatore inadempiente, il 2° comma impone al giudice di valutare la congruità della penale, eventualmente riducendola, se le rate pagate, trattenute dal concedente a titolo di indennità, risultino eccessive rispetto allo scopo -i ricorrenti osservano che il giudice a quo , quand’anche avesse ritenuto applicabile solo il 2° comma dell’art. 1526 cod.civ., avrebbe dovuto, al fine di valutare la congruità delle pretese della concedente, prendere a riferimento solo le rate pagate; invece, ha tenuto conto non solo delle rate già pagate (euro 1193.444,91), ma anche delle rate a scadere fino alla risoluzione del contratto (euro 663.354,47) ed ha sommato a detti importi la somma prevista per l’opzione di acquisto che ha individuato in euro 2.800,00 (peraltro, erroneamente, perché,
invece, per esercitare l’opzione di acquisto era stata pattuita la corresponsione di euro 28.000,00).
A tale risultato il giudice a quo sarebbe pervenuto, a loro avviso, combinando erroneamente l’art. 1526 cod.civ. con l’art. 14 delle condizioni generali di contratto.
Avrebbe anche violato l’art. 1526 cod.civ., il quale non impone al concedente di restituire quanto ricavato dalla vendita del bene, ma di restituire le rate riscosse sino alla intervenuta risoluzione del contratto e nemmeno prevede che il concedente debba essere indennizzato per il mancato guadagno o per il corrispettivo del riscatto. Tali effetti della risoluzione erano quelli previsti dall’art. 14 delle condizioni generali di contratto che la Corte d’appello avrebbe dovuto disattendere, allo scopo di applicare l’art. 1526 cod.civ., il quale non contiene previsioni sussidiarie rispetto alla volontà delle parti, ma una disciplina inderogabile che impone la restituzione dei canoni già corrisposti, salvo il riconoscimento di un equo compenso in ragione dell’utilizzo dei beni oltre al risarcimento dei danni.
Con il terzo motivo, ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 5, cod.proc.civ., è denunciato l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio.
La Corte d’appello, escludendo che la concedente avesse chiesto il pagamento dei ratei ancora dovuti, ma solo di quelli scaduti alla data della risoluzione, ha ritenuto che l’applicabilità dell’art. 14 costituisse un falso problema, dovendo trovare applicazione l’art. 1526 cod.civ., ma avrebbe omesso di considerare che con il ricorso monitorio aveva azionato solo il credito derivante dalle rate di RAGIONE_SOCIALE rimaste impagate al momento della risoluzione del contratto, riservandosi ogni azione per il pagamento del residuo importo di euro 1.538.828,62 anche all’esito della compensazione con quanto ricavato dall’eventuale riallocazione o vendita del bene.
Nemmeno avrebbe tenuto conto che nella comparsa di costituzione in primo grado la RAGIONE_SOCIALE aveva chiesto la
condanna degli opponenti al pagamento della somma ingiunta e con obbligo di imputarla all’intero credito vantato nei confronti dei creditori, pari ad euro 2.232.183,09 in linea capitale.
Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1526, 2° comma, e 1384 cod.civ. nonché la divergenza, in assenza di motivazione, dall’indirizzo di legittimità consolidato in materia, ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ.
Determinando l’equo compenso anche tenendo conto della somma spettante alla concedente per l’esercizio dell’opzione, la Corte d’appello si sarebbe posta in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte che esclude che l’equo compenso debba comprendere anche la quota destinata al trasferimento finale del bene (Cass. n. 1581/2020).
La Corte d’appello avrebbe anche erroneamente tenuto conto, ai fini della determinazione dell’equo compenso, del danno per la conclusione anticipata del contratto, identificato con il mancato guadagno. Anche in questo caso avrebbe deciso in contrasto con la giurisprudenza di legittimità che esclude dall’equo indennizzo il mancato guadagno (Cass. n. 29020/2020).
Con il quinto motivo i ricorrenti si dolgono della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1526, 2° comma, cod.civ. e dell’art. 1384 cod.civ., e del difetto di motivazione.
Attinta da censura è la statuizione con cui il giudice a quo ha concluso: ‘E’ evidente che a fronte di un corrispettivo iniziale individuato nel contratto di euro 3.535.382,30, non è ravvisabile la riduzione della penale ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 1384 cod.civ. e art. 1526, II comma cod.civ. nei limiti del diritto della RAGIONE_SOCIALE appellata ad una indennità che risulti ragionevolmente commisurata all’equo compenso dovuto per l’uso del bene oggetto del contratto e al danno comunque insito. nella conclusione anticipata del rapporto’.
Detta statuizione sarebbe viziata per non avere il giudice a quo spiegato per quali ragioni ha ritenuto insufficiente l’importo di euro 1193.444,91 a garantire alla concedente l’equo compenso cui aveva diritto né perché ha considerato insufficiente, al medesimo fine, anche la somma di euro 2.094.599,38.
I motivi dal primo al quinto, esaminabili congiuntamente, sono infondati.
Innanzitutto, sono in errore i ricorrenti quando sostengono che la Corte d’appello avrebbe dovuto disapplicare l’art. 14 delle condizioni generali di contratto e limitarsi ad applicare l’art. 1526 cod.civ., perché invece il giudice d’appello, accertato che l’art. 14 integrava, nel suo complesso, una clausola penale era tenuto, come ha fatto, a verificare d’ufficio se essa fosse manifestamente eccessiva, ai fini della sua eventuale riduzione ad equità, ex art. 1384 cod.civ. e art. 1526, 2° comma cod.civ., nell’esercizio, appunto, del potere correttivo della volontà contrattuale, volto a garantire il contemperamento dei contrapposti interessi delle parti che inequivocabilmente la giurisprudenza di questa Corte attribuisce al giudice (cfr., in tema di RAGIONE_SOCIALE , Cass., Sez. Un., n. 26531/2021 che ha confermato in modo netto che, nel caso di RAGIONE_SOCIALE traslativo, resta valida la soluzione adottata dal diritto vivente di individuare, per analogia legis , nella disposizione dell’art. 1526 cod.civ., la disciplina della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, alla luce della quale devono quindi essere interpretate le pattuizioni contrattuali.
Pertanto, è corretto il ragionamento seguito dalla Corte d’appello che ha disatteso l’eccezione di nullità della clausola n. 14, basata sull’asserita violazione dell’art. 1526 cod.civ. e la dedotta erronea applicazione della stessa attribuita al Tribunale, individuando la quaestio iuris nel se quanto richiesto dalla concedente costituisse, ai sensi dell’art. 1526 cod.civ., equo compenso o se detta pretesa
dovesse essere ridotta d’ufficio ex art. 1526, 2° comma cod.civ. (p. 9 della sentenza).
Fatta questa premessa, ciò che va accertato è se la Corte d’appello sia incorsa in errore nello stabilire che quanto richiesto dalla concedente non le assicurasse una indebita locupletazione ingenerata dall’autonomia privata.
È necessario, a tale scopo, considerare che, onde tener conto degli interessi delle parti che confluiscono nella causa concreto del contratto, in cui si fondono profili traslativi con quelli propri di un’operazione di finanziamento, la giurisprudenza di questa Corte adopera l’art. 1526 cod.civ. come ‘spettro filtrante’ delle clausole standardizzate dall’autonomia privata allo scopo di stabilire se siano meritevoli ‘di tutela alla luce della ratio di evitare indebite locupletazioni in capo al concedente e rispondente, quindi, ad un equilibrato assetto delle posizioni delle parti contrattuali’.
Orbene, l’art. 1526 cod.civ., consta di due livelli: sul piano restitutorio, il 1° comma contempla la restituzione dei canoni riscossi, con diritto alla decurtazione di un “equo compenso per l’uso della cosa” (cfr. Cass. 12883/2021), comprendente la remunerazione del godimento del bene, il deprezzamento conseguente alla sua incommerciabilità come nuovo e il logoramento per l’uso, ‘ma non include il risarcimento del danno spettante al concedente, che, pertanto, deve trovare specifica considerazione (Cass., 24 giugno 2002, n. 9162, Cass., 2 marzo 2007, n. 4969, Cass., 8 gennaio 2010, n. 73, Cass., 24 gennaio 2020, n. 1581) e, secondo la sua ordinaria configurazione di danno emergente e di lucro cessante (art. 1223 cod.civ., che impone che il danno patrimoniale sia integralmente ristorato, in applicazione del principio di indifferenza), tale da porre il concedente medesimo nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto (Cass. n. 888 del 2014 – che, tra l’altro, evoca al riguardo, sebbene soltanto in guisa di utile
supporto ermeneutico e non già come diritto positivo applicabile alla fattispecie, la RAGIONE_SOCIALE sul RAGIONE_SOCIALE finanziario internazionale stipulata ad Ottawa il 28 maggio 1988 e ratificata dalla L. n. 259 del 1993 – e Cass. n. 15202 del 2018, citate): Cass. n. 26531/2021, citata; sul piano risarcitorio, il 2° comma prevede il diritto al risarcimento del danno che di norma è affidato alla determinazione mediante una clausola penale che il giudice ha il potere di ridurre ad equità -anche d’ufficio -ove risulti manifestamente eccessiva, attraverso una valutazione comparativa tra il vantaggio che la penale assicura al contraente adempiente e il margine di guadagno che questi si riprometteva di trarre dalla regolare esecuzione del contratto (Cass. 14/03/2023, n. 7367).
Dalla ricca casistica giurisprudenziale si deduce che mentre è manifestamente eccessiva la penale che, mantenendo in capo al concedente la proprietà del bene, gli consente di acquisire i canoni maturati fino al momento della risoluzione, ciò comportando un indebito vantaggio derivante dal cumulo della somma dei canoni e del residuo valore del bene, non lo è la penale che prevede l’acquisizione dei canoni riscossi con detrazione, dalle somme dovute al concedente, dell’importo ricavato dalla futura vendita del bene restituito.
Orbene, nel caso di specie, alla concedente è stato permesso di ottenere soltanto quanto avrebbe ottenuto qualora il contratto fosse stato regolarmente eseguito e fosse giunto a naturale scadenza; e ciò risulta in linea con la valutazione che questa Corte ha espresso su clausole aventi il medesimo contenuto e con i parametri assunti dal legislatore a base di una disciplina dapprima solo settoriale e specifica (tra cui quella dettata dalla L. Fall., art. 72quater ) e poi, da un dato momento in avanti, generale (con la L. n. 124 del 2017) secondo cui il concedente ha diritto alla restituzione del bene e che da quanto ricavato dalla vendita o da altra utilizzazione del bene debba essere dedotta la somma
corrispondente all’ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto nonché delle spese anticipate per il recupero del bene e per la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita (Cass. 15/02/2024, n.4236; Cass. 14/02/2024, n.4143; Cass. 21/07/2023, n.21873; Cass. 12/06/2023, n.16632).
Con il sesto e ultimo motivo i ricorrenti si dolgono della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 111 cod.proc.civ. e 91 cod.proc.civ. nonché del difetto di motivazione, ex art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ.
Nel giudizio di appello era intervenuta volontariamente la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE S.p.a., acquirente in blocco dei crediti della RAGIONE_SOCIALE, alla quale in corso di causa RAGIONE_SOCIALE aveva ceduto il credito oggetto della odierna controversia, e che aveva dichiarato di essere subentrata in tutti i diritti, le azioni e le situazioni giuridiche vantati da RAGIONE_SOCIALE, senza chiedere l’estromissione dal giudizio di RAGIONE_SOCIALE la quale a sua volta non aveva chiesto di essere estromessa.
RAGIONE_SOCIALE era dunque intervenuta in giudizio allo scopo di ottenere che la sentenza producesse effetti nei suoi confronti, ciò che sarebbe avvenuto ex lege anche se non avesse partecipato al giudizio.
Nonostante la partecipazione della RAGIONE_SOCIALE fosse stata processualmente del tutto inutile -sostengono i ricorrenti – la Corte d’appello ha condannato gli appellanti soccombenti a pagare le spese del giudizio di appello non solo a favore di RAGIONE_SOCIALE , ma anche di RAGIONE_SOCIALE
Il motivo è infondato.
Va riaffermato il principio secondo cui “Il rimborso delle spese processuali sostenute da colui che sia legittimamente intervenuto ad adiuvandum è posto, senza che occorra che la sua presenza sia
stata determinante ai fini dell’esito favorevole della lite per l’adiuvato, a carico della parte la cui tesi difensiva, risultata infondata, abbia determinato l’interesse all’intervento” (Cass. 14/05/2018, n. 11670).
All’inammissibilità dei motivi consegue il rigetto del ricorso .
Non deve provvedersi alla liquidazione delle spese del presente giudizio, non avendo gli intimati svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento al competente ufficio del merito, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di Consiglio della Terza Sezione civile