Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 14352 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 14352 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18634/2021 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, NOME, COMITINI CONCETTA, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
RAGIONE_SOCIALE, NOME, COMITINI CONCETTA, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
COMITINI CONCETTA, COGNOME NOME, RAGIONE_SOCIALE
IN RAGIONE_SOCIALE, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-controricorrente-
nonchè contro RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE -intimati-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO MILANO n. 1335/2021 depositata il 29/04/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29/04/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
Fatti di causa
1.- La società RAGIONE_SOCIALE, in liquidazione, ha preso in locazione un immobile dal RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, che ha incorporato il RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, a quel tempo parte del contratto.
Nel relativo atto era previsto che la predetta banca acquistasse l’immobile, per un prezzo di 716.000 euro, per poi concederlo in locazione alla RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, che avrebbe dunque corrisposto un canone, con interessi, ed avrebbe avuto poi il diritto di riscatto, corrispondendo 7.160,00 euro.
Nel corso del rapporto, la RAGIONE_SOCIALE ha dato l’immobile, a sua volta, in locazione ad un terzo, in quanto, a causa delle caratteristiche strutturali e della mancanza della agibilità, non era risultato idoneo agli scopi commerciali che la concessionaria si era prefissa di perseguire in quel locale.
Contemporaneamente, la RAGIONE_SOCIALE ha agito in giudizio nei confronti del RAGIONE_SOCIALE perché ha scoperto che, oltre a quella difformità ed irregolarità amministrativa, non era vero che il RAGIONE_SOCIALE aveva acquistato il bene appositamente per concederlo in locazione, ed al prezzo indicato nel contratto, ma lo aveva acquistato anni prima ad un prezzo minore: la RAGIONE_SOCIALE ha dunque chiesto il ricalcolo dei canoni di leasing che non dovevano più essere determinati sulla base del prezzo indicato nel contratto, bensì su quello al quale la banca aveva acquistato a suo tempo l’immobile.
1.2.- Ciò fatto, la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE ha subìto però due decreti ingiuntivi, di cui uno del RAGIONE_SOCIALE e l’altro del RAGIONE_SOCIALE, che era il soggetto che risultava formalmente concedente il bene, poi incorporato dal RAGIONE_SOCIALE: decreti avverso i quali è stata proposta opposizione.
Ne sono derivate dunque tre cause (quella iniziata dalla RAGIONE_SOCIALE e le due seguite alla opposizione ai decreti ingiuntivi).
1.3.- Il Tribunale di Sondrio ha riunito i tre procedimenti, ed ha rigettato la domanda principale della RAGIONE_SOCIALE, ravvisando inadempimento del contratto di leasing, ha negato rilevanza alla circostanza che il bene era in realtà già di proprietà del concedente,
ed ha ritenuto sprovvista di prova la tesi della ricorrente circa l’inidoneità edilizia e commerciale dell’immobile.
Ha altresì rigettato le opposizioni a decreto ingiuntivo.
Ha dunque condannato la RAGIONE_SOCIALE a restituire il bene, corrispondere i canoni mancanti e pagare una somma per il ritardo nella esecuzione della sentenza.
RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE ha proposto appello avverso tale decisione, ma la sentenza di primo grado è stata integralmente confermata dalla Corte di Appello di Milano.
Ricorre per cassazione la RAGIONE_SOCIALE con undici motivi di ricorso. Il RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE ha notificato controricorso.
Ragioni della decisione.
2.1.- Con il primo motivo si prospetta violazione degli articoli 115,116 c.p.c.
La questione attiene al calcolo del canone di leasing
Come si è detto, il canone è stato calcolato sul prezzo del bene indicato in contratto (760 mila euro circa). La RAGIONE_SOCIALE ha agito per ottenere che quel canone venisse rimodulato, in quanto si è accorta che il prezzo del bene era nettamente inferiore: il RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, infatti, non aveva acquistato l’immobile al momento del leasing, per poi concederlo alla ricorrente, ma lo aveva acquistato molto prima pagandolo decisamente meno.
Dovendosi allora stimare il canone di leasing sul prezzo del bene, era quello iniziale, di prezzo, che contava, non quello indicato nel ricorso e non veritiero.
Uno degli argomenti addotti dalla Corte di Appello per rigettare questo motivo è stato che il prezzo del bene è stato liberamente concordato, e comunque mai la ricorrente, almeno fino a prima di introdurre la causa, lo aveva contestato.
A questo argomento la ricorrente obietta che il principio di non contestazione non può essere invocato in quanto esso riguarda i fatti dedotti in un processo e non quelli avvenuti prima (come la determinazione del prezzo fatta in un precedente contratto).
2.2.- Con il secondo motivo si prospetta violazione degli articoli 1332 e 1335 e ss. c.c.
La Corte di Appello ha evidenziato l’irrilevanza della circostanza secondo cui il bene era stato già acquistato in precedenza dalla società concedente, e non già al momento del leasing, poiché ciò che conta, ai fini della determinazione del canone, è il valore del bene in quel momento, ossia nel momento in cui il leasing è stipulato e non quello, precedente, in cui è stato acquistato.
La ricorrente obietta a tale ragione che invece il canone del leasing va corrisposto sul costo del bene, che è quello a suo tempo sopportato dal RAGIONE_SOCIALE (RAGIONE_SOCIALE, all’epoca) per l’acquisto.
2.3.- Il terzo motivo prospetta violazione dell’articolo 1362 e ss.
c.c.
La tesi della Corte di Appello è in sostanza che, ai fini della determinazione del canone, conta il valore del bene in quel momento, e non quello che il bene aveva quando il concedente lo ha acquistato. Ed il valore del bene in quel momento è stato concordato dalle parti in 760 mila euro, ossia nel prezzo indicato in contratto, con la conseguenza che, avendo la stessa RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE accettato, se non concordato quel valore, doveva dunque attenervisi poi ai fini della determinazione del canone.
Obietta la ricorrente che la corte di merito non dice come ha ricavato l’esistenza di un accordo sul valore del bene, che in realtà non era indicato in contratto, dove non era stato affatto pattuito alcun valore sulla base del quale potesse stimarsi poi il canone di leasing.
2.4.- Con il quarto motivo si prospetta violazione dell’articolo 115 c.p.c.
La ricorrente sostiene di avere posto la questione della scorrettezza della controparte, che non aveva avvisato del fatto di avere già la proprietà del bene, che invece dichiarava di acquistare e concedere in leasing.
La corte di merito ha replicato che alcun falso rilevante può ravvisarsi nella circostanza suddetta, ossia nel fatto di avere taciuto che il bene, che si andava a concedere in leasing, era stato acquistato anni prima ad un prezzo inferiore a quello stabilito al momento del leasing stesso.
Ma, osserva la ricorrente, non di falsità ci si doleva, bensì di violazione della regola di correttezza, sulla quale invece la corte di merito, fraintendendo il fatto processuale, e dunque erroneamente intendendo la domanda, ha sorvolato.
Questi quattro motivi pongono una questione comune, e comunque sono logicamente connessi.
Può farsene dunque scrutino unitario.
La questione comune è la seguente: se il canone del leasing sia stato correttamente calcolato sulla base del prezzo dichiarato in contratto, oppure se, per contro, andasse calcolato sul prezzo anni addietro pagato dalla banca, quando ha acquistato l’immobile, e se nella circostanza di avere taciuto il precedente acquisto vi sia una scorrettezza rilevante.
I motivi sono infondati.
Infatti, se si parte dalla premessa che il canone si calcola sul valore che il bene ha in quel momento, ossia al momento del leasing, premessa del tutto logica, poiché non potrebbe il canone ragionevolmente stimarsi su un valore di sette anni prima, le censure della ricorrente si rivelano infondate.
Innanzitutto, la corte di merito ha accertato, e la circostanza risulta altresì da quanto riportato in ricorso, che il valore del bene è stato
indicato nel contratto di leasing, e correttamente la corte ne ha dedotto che, essendo quel valore indicato in contratto, non poteva che essere quello concordato dalle parti, o proposto da una ed accettato dall’altra.
Né la ricorrente dice quale criterio ermeneutico avrebbe dovuto seguire la corte di merito per giungere ad una conclusone diversa, ossia la conclusione secondo cui, pur essendo chiaramente indicato un valore nel contratto, le parti non abbiano inteso riferirvisi.
Ammesso che una tale ricostruzione abbia senso logico, resta da dimostrare attraverso quale criterio di ermeneutica contrattuale possa raggiungersi.
Ed è onere di chi censura l’interpretazione del contratto specificare quale criteri sono stati violati e quali avrebbero dovuto seguirsi, secondo il principio di diritto seguente: <> (Cass. 27136/ 2017; Cass. 9461/ 2021).
Inoltre, se si premette che il canone di locazione, per forza di cose si calcola sul valore del bene al momento in cui il leasing è stipulato, è irrilevante che il bene sia stato acquistato prima ad un prezzo diverso, ed è irrilevante altresì che tale circostanza sia stata taciuta: la violazione del dovere di correttezza non comporta, in questo caso, posto che sia ravvisabile, alcuna conseguenza dannosa per la libertà contrattuale della controparte, la quale ha
accettato un valore del bene al momento del leasing, ed avrebbe potuto non farlo, e ciò a prescindere di quanto quel bene era costato anni addietro.
2.5.- Con il quinto motivo si prospetta una violazione dell’articolo 2697 c.c.
La questione riguarda l’inidoneità dell’immobile rispetto alla attività commerciale prevista.
La ricorrente ha eccepito nel giudizio di merito che l’altezza del bene era inferiore a quella indicata in contratto e tale da non consentire di poter sfruttare il bene, oltre il fatto che l’immobile era privo di agibilità.
Per dimostrare tale assunto, la ricorrente aveva richiesto una consulenza tecnica, che però la corte di merito ha rigettato, salvo poi a dire che nessuna prova era stata addotta a dimostrazione di quel vizio.
2.6.- Con il sesto motivo invece si prospetta violazione degli articoli 1362 e ss. c.c.
La questione è sempre quella di cui al motivo precedente ossia l’avere eccepito che l’immobile era più basso e dunque inservibile: eccezione a cui la corte di merito ha ulteriormente replicato che la stessa ricorrente è stata inerte nel sollecitare l’agibilità alle autorità amministrative e che, quanto alla altezza, non era stata offerta alcuna prova decisiva, che potesse cioè dimostrare l’assunto della minore dimensione dell’immobile.
La ricorrente contesta questa tesi sostenendo che altro è l’agibilità, sulla quale vi sarebbe stata inerzia, altro la non idoneità concreta del bene a servire all’uso convenuto, e che dunque non si può scambiare l’una per l’altra.
2.7.- Con il settimo motivo si prospetta violazione degli articoli 115 c.p.c. e 1218 e ss. c.c.
Anche in tal caso la questione è quella della inidoneità del bene a servire da locale commerciale. In questo caso si contesta la ratio
della decisione impugnata nella parte in cui ha escluso un diritto della ricorrente, utilizzatrice dell’immobile, di dolersi della difformità lamentata, per via del fatto di avere accettato le condizioni dell’immobile, come da relativa dichiarazione contrattuale. Osserva la ricorrente di aver accettato le condizioni di manutenzione, non già di avere accettato la difforme dimensione rispetto a quella promessa dal concedente ed indicata in contratto.
Questi motivi, che come si vede pongono una questione comune, possono valutarsi insieme e sono fondati.
Intanto, la denuncia della difformità, o meglio della non idoneità della cosa, non può essere in astratto preclusa dalla circostanza di avere accettato le condizioni materiali del bene, ossia quelle relative alla manutenzione, poiché si tratta di condizioni, quelle di manutenzione, diverse da quelle relative alle dimensioni ed oggetto del motivo di censura.
In secondo luogo, come risulta da quanto riportato dalla ricorrente, la sua doglianza non era soltanto di difformità edilizia ed amministrativa, per la mancanza del certificato di agibilità, ma era altresì di oggettiva inidoneità del bene per difetto di altezza utile: la corte di merito ha chiaramente motivato solo sulla prima, con argomento che ha ritenuto utile a contraddire anche la seconda.
Sulla questione della altezza, e dunque della conseguente inidoneità ha utilizzato un solo argomento: che non era stata data prova di tale caratteristica.
E’ motivazione viziata da insufficienza e contraddizione quella con cui il giudice di merito rigetta la domanda ritenendola sfornita di prova dopo avere rigettato però le richieste istruttorie della parte (Cass, 2980/ 2023; Cass. 2653/ 2017).
Nella fattispecie, la ricorrente aveva allegato il vizio del bene preso in leasing, ossia aveva addotto che esso era più basso di quanto indicato in planimetria. Dunque, il fatto era allegato. Per provarlo aveva chiesto una consulenza tecnica, che non può assumersi
come meramente esplorativa, ossia come una consulenza fatta senza prima aver fornito un principio di prova: l’altezza di un immobile non può provarsi che per misurazione, e dunque per consulenza, e raffronto tecnico con la planimetria; non può provarsi con altri mezzi di prova (testimoni o altro).
Ed è pacifico che la consulenza diventa mezzo oggettivo di prova quando sia l’unico mezzo per accertare il fatto (tra le tante Cass. 11190/ 1998; Cass. 10916/ 2000; Cass. 12638/ 2000; Cass. 6585/ 2001).
Di conseguenza, è illogico pensare che la ricorrente avrebbe dovuto fornire un principio di prova, per poter richiedere la consulenza tecnica, poiché ciò presuppone che un principio di prova potesse essere offerto, e non poteva esserlo, tantomeno quello documentale, posto che la domanda della ricorrente mirava proprio a smentire i documenti disponibili (la planimetria, ed altro) da cui risultava una altezza non veritiera, che non potevano di conseguenza essere addotti come prova: questione sulla quale non c’è alcuna motivazione sufficiente della corte di merito.
2.8.- Con l’ottavo motivo si prospetta violazione degli articoli 1123 e 1362 e ss. c.c.
La corte di merito ha ritenuto che la risoluzione era stata disposta per via della clausola risolutiva espressa, in quanto la parte si era avvalsa di tale clausola.
La ricorrente obietta che, quando si dispone la risoluzione sulla base della clausola risolutiva espressa, non si può semplicemente prendere atto che c’è stato un inadempimento, ma occorre invece bilanciare i due interessi e soprattutto verificare se l’inadempimento ha avuto una ragionevole causa, ossia era giustificato da una qualche circostanza che lo rendeva incolpevole.
Il motivo è fondato: andava verificato se l’interruzione nel pagamento dei canoni era arbitraria , ossia mossa dall’intento di
non adempiere, o giustificata da una eccezione di inadempimento (come la non idoneità del locale).
2.9.- Con il nono motivo si prospetta violazione dell’articolo 1526 c.c.
La corte di merito ha condannato la ricorrente a restituire il bene, ed a corrispondere i ratei ancora da scadere e scaduti, autorizzando tuttavia la concedente a trattenere le somme già versate.
Secondo la ricorrente questa statuizione viola l’articolo 1526 c.c. che invece dispone che i canoni corrisposti debbano essere restituiti.
Il motivo è infondato.
Vero è che l’articolo 1526 c.c. si applica alla fattispecie, che è quella di un leasing traslativo, ma è altresì vero che la corte di merito ha osservato come il bene non è stato restituito al concedente e come la restituzione sia condizione perché l’utilizzatore possa avere i canoni che ha versato.
E’ pacifico che il bene non è stato restituito: con l’ undicesimo motivo, la stessa ricorrente lo ammette, nel momento in cui dichiara di averlo locato a terzi e dunque di essere nella materiale impossibilità di ridarlo alla concedente.
La corte ha fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo cui <> (Cass. 9210/ 2022; Cass. 7367/ 2023).
2.10- Con il decimo motivo si prospetta violazione dell’articolo 614 bis cpc
Il giudice di merito ha previsto una somma pecuniaria per il ritardo nell’adempimento degli obblighi fissati con la sentenza.
La ricorrente lamenta l’illegittimità di tale previsione in quanto la sanzione può essere imposta solo in caso di titolo esecutivo, che nella fattispecie difetterebbe.
Il motivo è infondato.
La sentenza di primo grado non è costitutiva, ma contiene statuizioni di condanna (al pagamento dei canoni residui ed altro) che la rendono immediatamente esecutiva e dunque titolo idoneo ad applicare la misura di cui all’articolo 614 bis c.p.c
2.11.- Con l’undicesimo motivo si prospetta violazione degli articoli 1453 e ss. c.c.
Si contesta alla corte di merito di avere condannato la ricorrente a restituire il bene, senza tener conto che era pacifico che era stato nel frattempo locato a terzi, cui era dunque stata trasferita la detenzione: circostanza della quale la concedente era stata edotta ed alla quale non si era opposta.
Con la conseguenza che non si è tenuto conto del fatto che non può
restituirsi la disponibilità di un bene che è nel godimento di terzi.
Il motivo è infondato.
Invero, la circostanza che il bene sia stato dall’utilizzatore concesso in godimento ad un terzo, non far venire meno l’obbligo dell’utilizzatore di restituirlo al concedente a seguito della risoluzione: rispetto agli effetti risolutori del contratto quella circostanza è di mero fatto. Diversamente, basterebbe dare in locazione preordinatamente il bene ad un terzo, per opporsi, in astratto, anche, alla condanna restitutoria.
P.Q.M.
La Corte accoglie quinto, sesto e settimo ed ottavo motivo. Rigetta gli altri.
Cassa la decisione impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione anche per le spese.
Così deciso in Roma, il 29/04/2024.