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Keyword advertising: quando è concorrenza sleale?

Un’ordinanza del Tribunale specializzato in materia d’impresa analizza un caso di keyword advertising illecito. Una società alberghiera utilizzava il marchio di un concorrente come parola chiave per i propri annunci sponsorizzati su Google, una pratica ritenuta atto di concorrenza sleale. Il giudice ha accolto il ricorso d’urgenza, emettendo un’inibitoria per vietare la prosecuzione della condotta e fissando una penale per ogni futura violazione, affermando che tale pratica lede la funzione distintiva del marchio e crea confusione nel consumatore.

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Keyword Advertising: Quando l’Uso del Marchio Altrui Diventa Concorrenza Sleale

Nell’era digitale, la visibilità online è fondamentale per il successo di un’impresa. Una delle strategie più diffuse è il keyword advertising, che consente di posizionare annunci sponsorizzati sui motori di ricerca. Ma cosa succede quando un’azienda utilizza il marchio di un concorrente come parola chiave per attirare clienti? Un’interessante ordinanza del Tribunale specializzato in materia di impresa ha chiarito i confini tra strategia di marketing aggressiva e concorrenza sleale, emettendo un’inibitoria contro tale pratica.

I Fatti del Caso: Una Disputa tra Hotel nell’Era Digitale

La vicenda vede contrapposte due società alberghiere operanti nella stessa località turistica. La società ricorrente, titolare di un noto hotel e del relativo marchio registrato e nome a dominio, scopriva che, cercando online il nome della propria struttura, tra i primi risultati apparivano annunci sponsorizzati di un hotel concorrente.

Questi annunci non solo erano attivati dalla ricerca del marchio altrui, ma utilizzavano esplicitamente il nome dell’hotel ricorrente nel testo del link pubblicitario (ad esempio, “nome hotel concorrente-45%”), reindirizzando poi gli utenti al sito web della società resistente. Ravvisando in questa pratica una violazione dei propri diritti di privativa industriale e un atto di concorrenza sleale, la società titolare del marchio si è rivolta al Tribunale per ottenere un provvedimento d’urgenza.

La Difesa della Società Concorrente

La società resistente si è difesa sostenendo di aver agito in buona fede. Ha affermato che la comparsa degli annunci era il risultato di una funzionalità automatica della piattaforma pubblicitaria di Google, denominata Dynamic Keyword Insertion (DKI), attivata a sua insaputa dai consulenti esterni che gestivano le campagne. A riprova della propria buona fede, la resistente ha provveduto a disattivare immediatamente gli annunci contestati non appena ricevuta la notifica legale.

Le Motivazioni del Tribunale sul Keyword Advertising

Il Giudice, pur prendendo atto della rimozione degli annunci, ha ritenuto fondate le ragioni della società ricorrente. La decisione si basa su alcuni principi giuridici consolidati, sia a livello nazionale che europeo.

Il Tribunale ha stabilito che l’utilizzo del segno distintivo di un concorrente come parola chiave per la pubblicità online integra un atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 c.c. quando è idoneo a creare confusione nel consumatore. Secondo il giudice, la questione centrale non è se l’uso della keyword sia di per sé illecito, ma se l’annuncio che ne consegue consenta a un “utente di Internet normalmente informato e ragionevolmente attento” di distinguere l’origine dei servizi offerti.

Nel caso specifico, l’annuncio era strutturato in modo tale da ingenerare dubbi sulla provenienza del servizio, inducendo l’utente a credere che potesse esserci un collegamento economico o commerciale tra le due strutture alberghiere. Questa pratica, secondo l’ordinanza, lede la funzione principale del marchio, che è quella di garantire ai consumatori l’identità di origine del prodotto o del servizio.

Il Tribunale ha inoltre sottolineato che tale condotta causa un danno difficilmente riparabile (periculum in mora), poiché lo sviamento della clientela comporta una perdita di quote di mercato la cui quantificazione e recupero sono estremamente complessi. Pertanto, la sola rimozione degli annunci non era sufficiente a escludere il pericolo di una reiterazione futura della condotta illecita, giustificando l’emissione di un provvedimento inibitorio.

Le Conclusioni: Inibitoria e Tutela del Marchio Online

Alla luce di queste motivazioni, il Tribunale ha accolto il ricorso, emettendo un’ordinanza di inibitoria. Ha vietato alla società resistente la ripetizione e la prosecuzione di qualsiasi pubblicazione di annunci contenenti il marchio o il nome a dominio della ricorrente.

Per garantire l’efficacia del provvedimento, è stata fissata una penale di 500,00 euro per ogni violazione futura. Infine, la società resistente è stata condannata al pagamento delle spese legali. La decisione, sebbene abbia tenuto conto della condotta collaborativa della resistente (che ha portato a una parziale compensazione delle spese), riafferma un principio cruciale: il keyword advertising non può diventare uno strumento per appropriarsi indebitamente della notorietà di un concorrente, confondendo i consumatori e alterando la lealtà della competizione sul mercato digitale.

È legale usare il marchio di un concorrente come keyword per i propri annunci su Google?
No, secondo questa ordinanza non è legale se l’annuncio generato non consente a un utente mediamente informato di capire facilmente che i servizi pubblicizzati provengono da un terzo e non dal titolare del marchio. Se l’annuncio crea confusione sull’origine dell’offerta, la pratica costituisce concorrenza sleale.

Cosa può fare un’azienda se scopre un concorrente che usa il suo marchio per il keyword advertising?
Può agire in giudizio, anche con un procedimento d’urgenza, per chiedere al tribunale un’inibitoria, ovvero un ordine di cessare immediatamente la condotta illecita, e la fissazione di una penale per ogni futura violazione, oltre al risarcimento dei danni.

L’aver rimosso gli annunci illeciti dopo aver ricevuto la notifica legale è sufficiente per evitare una condanna?
No. Sebbene la rimozione degli annunci sia una condotta collaborativa che il giudice può considerare (ad esempio, per ridurre parzialmente le spese legali), non esclude la responsabilità. Il tribunale può comunque emettere un’inibitoria per il futuro, per prevenire che la condotta si ripeta, e condannare la parte responsabile al pagamento delle spese processuali.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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