Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 9441 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 9441 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/04/2025
Oggetto: Interpretazione negozio.
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22672/2020 R.G. proposto da
COMUNE DI BARI, rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME.
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in liquidazione, rappresentata e difesa dal prof. avv. NOME COGNOME con domicilio eletto presso l’avv. NOME COGNOME, in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente – avverso la sentenza n. 710/2020, emessa dalla Corte d’Appello di Bari il 4/12/2019-15/5/2020 e non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26 marzo 2025 dalla dott.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
1. Con atto di citazione del 10/07/1987, la RAGIONE_SOCIALE premesso che aveva edificato un fabbricato su un suolo di mq. 746, rientrante nel lotto 89, comparto B del piano terra, per l’edilizia economica e popolare al quartiere San INDIRIZZO, concessole in superficie dal Comune di Bari con atto di convenzione del 04/07/1978; che, a tale fine, aveva ottenuto, in data 09/04/1979, dal Credito Fondiario della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde un mutuo fondiario di lire 200.000.000, previa garanzia ipotecaria sull’area interessata dai lavori e sui fabbricati; che il medesimo Comune, dopo avere deliberato con provvedimento del 10/09/1980, n. 992, l’acquisto di dieci unità immobiliari del predetto fabbricato, aveva contravvenuto alle sue stesse determinazioni, disponendo tardivamente sia la risoluzione della convenzione del 1977, intervenuta solo con atto del 7/4/1983, sia il pagamento dell’anticipo del prezzo, pari a lire 158.000.000, oltre Iva, avvenuto il 29/4/1983, e omettendo di corrispondere il saldo sul presupposto che dovesse essere previamente documentata l’intervenuta estinzione del mutuo e la cancellazione dell’ipoteca, senza avvedersi che, secondo le sue stesse determinazioni, ciò sarebbe dovuto avvenire proprio con una parte di quel saldo; che il medesimo ente, ottenuta la disponibilità della detenzione dei beni anticipatamente al prezzo mensile corrispondente a quella del canone di locazione determinato ex lege 392 del 1978, come da delibera del 7/11/1980, n. 1277, aveva anche provveduto al pagamento di una somma inferiore a quella pattuita, convenne in giudizio il Comune di Bari onde ottenerne la condanna al pagamento della complessiva somma di lire 2.002.521.089 (comprensivi della sorte capitale non corrisposta e degli interessi passivi medio tempore maturati), dovutale a titolo di ritardato pagamento dell’anticipo del prezzo, siccome intervenuto il 7/4/1983, in luogo del pattuito 1/10/1981, quanto a lire
121.844.436; a titolo di saldo del prezzo, quanto a lire 1.472.187.546; a titolo mancato pagamento della differenza tra quanto pattuito e quanto corrisposto per la locazione dei medesimi immobili, quanto a lire 16.277.198.
Costituitosi in giudizio, il Comune di Bari contestò la fondatezza dell’avversa domanda, sostenendo che, quanto al ritardato versamento dell’acconto, non avesse assunto alcun obbligo circa l’epoca di perfezionamento della pratica d’acquisto dell’edificio, ma soltanto specificato il periodo della sua legittima occupazione, alla cui scadenza la Cooperativa venditrice avrebbe potuto pretenderne la restituzione oppure recedere dall’offerta di cessione; quanto alla differenza dei canoni di locazione dovuti, si era attenuto al calcolo indicato dalla Consiglio d’Amministrazione della RAGIONE_SOCIALE nel verbale n. 9 dal 08/10/1980; quanto, infine, al mancato pagamento del saldo del prezzo, era la stessa clausola di cui all’art. 4 dell’atto di risoluzione a subordinare l’erogazione di tale somma all’attestazione, da parte dell’ufficiale rogante, dell’avvenuta liberazione dell’immobile ceduto da tutti i relativi gravami.
Con separato atto di citazione, il Comune di Bari convenne in giudizio la RAGIONE_SOCIALE onde sentirla condannare al risarcimento dei danni conseguenti alla mancata estinzione e cancellazione di tutti i gravami ipotecari anche fiscali, ivi compresa l’ipoteca costituita a beneficio della Banca fondiaria mutuante.
Riuniti i due procedimenti, il Tribunale di Bari, con sentenza n. 258/02, depositata il 27/03/2002, accolse la sola domanda della RAGIONE_SOCIALE, relativa alla richiesta di risarcimento dei danni conseguenti al mancato pagamento del saldo del prezzo d’acquisto, mentre rigettò tutte le altre domande delle parti, condannando il Comune al pagamento della somma di € 760.321,41 (pari a 1.472.187.546 lire), oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, nonché alle spese del giudizio.
Il giudizio di gravame, instaurato dal Comune di Bari, si concluse, nella resistenza della RAGIONE_SOCIALE che propose a sua volta appello incidentale onde far valere le sue pretese risarcitorie, con la sentenza n. 549/09, depositata il 26/05/2009, con la quale la Corte d’Appello di Bari accolse l’appello principale, condannando la Cooperativa al pagamento, in favore dell’appellante principale, della somma complessiva di € 84.430,24, oltre a spese del doppio grado.
Il giudizio di legittimità, instaurato dalla RAGIONE_SOCIALE sulla scorta di due motivi, si concluse con la sentenza n. 17759/2015, con la quale questa Corte accolse il primo motivo di impugnazione, disponendo che il giudice del rinvio si uniformasse al seguente principio di diritto: ‘ in tema d’interpretazione della volontà negoziale, il carattere prioritario dell’elemento letterale non va inteso in senso assoluto, giacché l’art. 1362 cod. civ., richiamando la comune intenzione delle parti, impone, per individuarla, di estendere l’indagine anche al criterio logicosistematico, che deve tenere conto del significato desumibile dal complessivo contenuto delle clausole contrattuali : nel prevedere che il giudice non deve limitarsi al senso letterale delle parole, la norma impone che il criterio letterale e quello logico siano coordinati e armonizzati in vista dell’individuazione dell’effettiva volontà dei contraenti ‘.
Il giudizio di riassunzione, instaurato su iniziativa della RAGIONE_SOCIALE, si concluse, nella resistenza del Comune di Bari, con la sentenza n. 710, depositata il 05/05/2020, con la quale la Corte d’Appello di Bari confermò la sentenza di primo grado, rigettando ogni altra domanda.
Contro la predetta sentenza, il Comune di Bari propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. La RAGIONE_SOCIALE, in liquidazione, si difende con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Considerato che :
Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la nullità della sentenza per error in procedendo con riferimento agli artt. 384 e 132, n. 4, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., perché i giudici di merito avevano affermato che, secondo la Suprema Corte, sussistesse un collegamento funzionale tra l’estinzione del mutuo e la cancellazione dell’ipoteca e il pagamento del saldo, allorquando aveva affermato che: ‘ evidentemente solo dopo aver incassato il suddetto importo la cooperativa avrebbe potuto – e dovuto – utilizzarlo per il fine convenuto ‘, così ritenendo che il principio di diritto recasse un risultato interpretativo e dovesse, dunque, essere seguito per la definizione della controversia, senza, invece, considerare che il sindacato di legittimità sull’interpretazione del contratto non investe il risultato interpretativo in sé, ma ha la funzione di universalizzare la decisione sulla fattispecie, sicché sarebbe stato onere del giudice di rinvio utilizzare le regole di cui all’art. 1362 cod. civ. rendendo una propria indagine ermeneutica onde individuare la comune intenzione delle parti. Con l’errore commesso, i giudici di merito avevano inoltre reso una motivazione apparente, in quanto non avevano mostrato quale percorso logicogiuridico avessero seguito.
Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta la violazione e falsa applicazione dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ. e, in particolare, di cui all’art. 1362, secondo comma, cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., perché i giudici di merito avevano violato il canone interpretativo fondato sul comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto, per un verso, utilizzando un mal
supposto risultato interpretativo dettato dalla Corte di legittimità, per altro verso, omettendo di considerare il comportamento della RAGIONE_SOCIALE in ordine al mancato pagamento di quanto dovuto all’istituto mutuante fin dal percepimento dell’acconto di lire 150 milioni, quietanzato con la sottoscrizione del contratto del 7/4/1983, che era stato evidenziato dal ricorrente, e limitandosi ad analizzare la sola portata letterale della clausola di cui all’art. 4, di cui in motivazione attesta l’ambiguità.
3.1 I primi due motivi, da trattare congiuntamente in ragione della stretta connessione, siccome afferenti alla questione della corretta applicazione dei principi di diritto contenuti nel provvedimento di questa Corte, che avevano determinato la nullità della sentenza per difetto di motivazione e la violazione delle regole ermeneutiche dettate dal codice civile, sono infondati.
Al riguardo occorre innanzitutto osservare come la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (tra le varie, Sez. U, Sentenza n. 8053 del
07/04/2014 Rv. 629830). Scendendo più nel dettaglio sull’analisi del vizio di motivazione apparente, la costante giurisprudenza di legittimità ritiene che il vizio ricorre quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. da ultimo, Cass., Sez. U, 30/1/2023, n. 2767; vedi anche, tra le tante, Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016 Rv. 641526; Sez. U, Sentenza n. 16599 del 2016; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022 Rv. 664061; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13977 del 23/05/2019 Rv. 654145).
Tale situazione non è però ravvisabile nella specie, atteso che i giudici di merito hanno ampiamente dato conto delle ragioni per le quali hanno ritenuto di accogliere la domanda risarcitoria della RAGIONE_SOCIALE, rifacendosi ai principi affermati da questa Corte col provvedimento rescindente, evidenziando l’affermata sussistenza di un collegamento funzionale tra l’estinzione del mutuo (e la cancellazione dell’ipoteca) e il pagamento del saldo, posto che solo dopo avere incassato il suddetto importo la cooperativa avrebbe potuto e dovuto utilizzarlo per il fine convenuto, e ritenendo che il Comune fosse obbligato a versare il relativo importo e che l’adempimento del contratto, che era stato già eseguito con riguardo al trasferimento del bene al Comune, non potesse essere sottoposto alla condizione meramente potestativa dell’individuazione, da parte dell’ente, di idonee cautele, non potendosi consentire che questo ne procrastinasse ad libitum l’esecuzione.
3.2 Neppure può dirsi che sia stato violato l’art. 384 cod. proc. civ., come pure preteso.
Il giudizio di rinvio costituisce, infatti, un processo chiuso tendente ad una nuova statuizione (nell’ambito fissato dalla sentenza di cassazione) in sostituzione di quella cassata, nel quale oggetto e limiti sono delimitati dalla sentenza di annullamento (ad es. da ultimo Cass. Sez. 5, 09/06/2020, n. 10953).
I limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384, primo comma, cod. proc. civ., al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo; mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua potestas iudicandi, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione ex novo dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità (Cass. Sez. L., 6/4/2004, n. 6707; Cass. Sez. 1, 7/8/2014, n. 17790; conf. Cass. n. 13719 del 2006; Cass. Sez. L., 24/10/2019, n. 27337; Cass. Sez. 2, 14/1/2010, n. 448).
Il caso di specie rientra nella terza ipotesi, atteso che questa Corte, con la sentenza n. 17759 del 8/9/2015, ha accolto il primo motivo di ricorso, col quale la RAGIONE_SOCIALE aveva lamentato la violazione, da parte della Corte di appello, dei criteri dettati dagli artt. 1362,
1363, 1366 e 1367 cod. civ. nell’interpretazione della clausola 4 dell’atto di risoluzione 7/4/1983, rilevando che -di fronte all’obiettiva ambiguità del testo contrattuale, laddove si faceva riferimento alla riserva e non era menzionato l’obbligo del Comune di pagamento della parte iniziale del saldo – i giudici avrebbero dovuto ricercare la comune intenzione delle parti alla stregua del coordinamento delle varie clausole contrattuali e del comportamento anche successivo posto in essere dalle parti, affermando che i giudici di merito avevano violato il principio di diritto secondo cui ‘ in tema d’interpretazione della volontà negoziale, il carattere prioritario dell’elemento letterale non va inteso in senso assoluto, giacché l’art. 1362 cod. civ., richiamando la comune intenzione delle parti, impone, per individuarla, di estendere l’indagine anche al criterio logico-sistematico, che deve tenere conto del significato desumibile dal complessivo contenuto delle clausole contrattuali : nel prevedere che il giudice non deve limitarsi al senso letterale delle parole, la norma impone che il criterio letterale e quello logico siano coordinati e armonizzati in vista dell’individuazione dell’effettiva volontà dei contraent i’, in quanto non avevano tenuto conto delle espressioni letterali contenute nelle pattuizioni relative alla determinazione e alle modalità di pagamento del prezzo convenuto, avevano dato rilevanza decisiva, nell’escludere l’esistenza, a carico del Comune, dell’obbligo di versare la parte iniziale del saldo di lire 200.000.000 prima che fosse estinta l’ipoteca, alla previsione – di per sé, peraltro, ambigua – in cui si stabiliva che ” il Comune si riservava di richiedere o adottare ogni cautela idonea a garantire l’Amministrazione che la stessa venisse utilizzata per l’estinzione della garanzia ipotecaria accesa sull’immobile “. In tal modo, i giudici avevano limitato l’attività interpretativa all’isolato esame del tenore letterale della predetta espressione, senza compiere alcun
coordinamento logico-sistematico con il complessivo contenuto delle pattuizioni, in cui la stessa era inserita, e senza valutare se la riserva assunta dal Comune presupponesse proprio l’avvenuto pagamento della somma a favore della Cooperativa ovvero non fosse determinata dall’esigenza di consentire al Comune di verificare, prima di procedere al saldo finale, l’estinzione del mutuo alla quale il saldo iniziale sarebbe stato destinato.
E’ allora evidente come i giudici, nell’argomentare nei termini precisati nel primo punto, non si siano affatto discostati dai principi espressi nella sentenza rescindente, con conseguente infondatezza della censura.
3.3 E’ invece inammissibile la questione relativa alla violazione dei canoni codicistici di interpretazione del contratto.
L’interpretazione negoziale è, infatti, tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 cod. civ., e segg., o di motivazione inadeguata (ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione), sicché, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26/10/2007, n. 22536). D’altra parte, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle
possibili e plausibili interpretazioni (tra le altre: Cass. 12/7/2007, n. 15604; Cass. 22/2/2007, n. 4178). Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già dallo stesso esaminati; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass., Sez. 2, 15/5/2018, n. 11823; Cass. 7500/2007; 24539/2009).
Orbene, la censura in esame si limita a proporre una diversa interpretazione delle clausole contrattuali, suggerendo soluzioni alternative, senza in realtà adeguatamente criticare la dedotta violazione di legge.
4.1 Con il terzo motivo di ricorso, si lamenta, infine, la nullità della sentenza per error in procedendo con riferimento all’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., perché i giudici di merito non avevano tenuto conto del fatto che il capo sub 1) della sentenza n. 549/2009, emessa dalla Corte d’Appello di Bari, con cui era stata rigettata la domanda risarcitoria proposta con l’atto di citazione del 16/7/1987 e accolta dalla sentenza del Tribunale di Bari n. 258/2002, che aveva condannato il Comune di Bari al pagamento della somma di euro 760.321,41 a titolo di danni conseguenti al mancato pagamento della somma di lire 378.172.177, quale saldo della somma convenuta nell’atto del 7/4/1983, non era stato impugnato in sede di legittimità ed era passato in giudicato. I giudici, in tal modo, avevano del tutto omesso di pronunciarsi, avendo confermato la sentenza di primo grado senza analizzare l’eccezione di giudicato proposta.
4.2 Il terzo motivo è infondato.
Occorre, innanzitutto, premettere che l’ambito di operatività del giudicato, in virtù del principio secondo il quale esso copre il dedotto e il deducibile, è correlato all’oggetto del processo e colpisce, perciò, tutto quanto rientri nel suo perimetro, incidendo, da un punto di vista sostanziale, non soltanto sull’esistenza del diritto azionato, ma anche sull’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi, ancorché non dedotti, senza estendersi a fatti ad esso successivi e a quelli comportanti un mutamento del petitum e della causa petendi , fermo restando il requisito dell’identità delle persone (Cass., Sez. 1, 9/11/2022, n. 33021).
La preclusione per effetto di giudicato sostanziale può scaturire, invero, solo da una statuizione che abbia attribuito o negato “il bene della vita” preteso e non anche da una pronuncia che non contenga statuizioni al riguardo, pur se essa risolva questioni giuridiche strumentali rispetto all’attribuzione del bene controverso, atteso che non sono suscettibili di passare in giudicato quei capi della pronuncia che, sebbene non impugnati, sono strettamente collegati da rapporto pregiudiziale o conseguenziale (Cass., Sez. 1, 17/1/2022, n. 1252).
Il giudicato interno si forma, infatti, solo su di un capo autonomo di sentenza che, restando del tutto indipendente, risolva una questione avente una propria individualità e autonomia, la quale non può dirsi sussistente allorché consista in una mera argomentazione, ossia nella semplice esposizione di un’astratta tesi giuridica, pur se funzionale a risolvere questioni strumentali rispetto all’attribuzione del bene controverso. In quest’ultimo caso, infatti, l’impugnazione della pronunzia di merito coinvolge necessariamente anche il ragionamento giuridico – esatto o errato che sia -che la sostiene, lasciando libero il giudice dell’impugnazione di confermare la decisione anche sulla base di una diversa motivazione in diritto (Cass., Sez. 1, 30/6/2022, n.
20951; Cass., Sez. 3, 05/09/2005, n. 17767; Cass., Sez. 1, 28/10/2005, n. 21092; Cass., Sez. 2, 03/07/2003, n. 10527; Cass., Sez. 3, 23/01/2002, n. 738; Cass., Sez. 3, 17/05/2001, n. 6757; Cass., Sez. 3, 02/10/1997, n. 9628).
In particolare, ai fini della selezione delle questioni, di fatto o di diritto, suscettibili di devoluzione e, quindi, di giudicato interno se non censurate in appello, la locuzione giurisprudenziale ” minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno ” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico, con la conseguenza che, sebbene ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di appello, nondimeno l’impugnazione motivata anche in ordine ad uno solo di essi riapre la cognizione sull’intera statuizione (fra le tante Cass., Sez. 3, 19/10/2022, n. 30728; Cass., Sez. 6-L, 12/8/2018, n. 24783, non massimata).
Ciò detto, va rilevato che, come risulta dalla parte descrittiva della sentenza impugnata, il Comune aveva proposto autonoma domanda risarcitoria nei confronti della Cooperativa avente titolo nella mancata estinzione e cancellazione di tutti i gravami ipotecari, anche fiscali, compresa l’ipoteca costituita a beneficio della banca fondiaria mutuante, che il giudizio così instaurato era stato riunito a quello incardinato dalla Cooperativa, che il Tribunale, con la sentenza n. 258/02 depositata il 27/3/2002 aveva accolto la sola domanda della RAGIONE_SOCIALE, rigettando tutte le altre domande, e che la Corte d’Appello, con la sentenza n. 549/09, depositata il 26/5/2009, aveva, invece, accolto l’appello proposto dal Comune, che aveva denunciato, con esso, l’erroneità dell’interpretazione della clausola sub art. 4 dell’atto di risoluzione del 7/4/1983, da cui era scaturito, tra l’altro, anche il rigetto della sua pretesa
risarcitoria, condannando la RAGIONE_SOCIALE al pagamento della somma di euro 84.430,24.
Orbene, la RAGIONE_SOCIALE aveva impugnato anche questa parte della pronuncia, atteso che col primo motivo, che è quello accolto, aveva denunciato la violazione, da parte della Corte di appello, dei criteri dettati dagli artt. 1362, 1363, 1366 e 1367 cod. civ. nella interpretazione giust’appunto della clausola 4 dell’atto di risoluzione 7/4/1983, posta a base della sua condanna al pagamento dei danni derivanti dalla mancata cancellazione dell’ipoteca, avendo evidenziato che ‘ di fronte all’obiettiva ambiguità del testo contrattuale laddove si faceva riferimento alla riserva e non era menzionato l’obbligo del Comune di pagamento della parte iniziale del saldo – i Giudici avrebbero dovuto ricercare la comune intenzione delle parti tenendo conto del coordinamento delle varie clausole contrattuali e del comportamento anche successivo posto in essere dalle parti, attesa la conoscenza del Comune, al momento della stipulazione dell’atto del 1983, delle difficoltà economiche della Cooperativa, che non era in grado di estinguere il mutuo se non con la corresponsione del prezzo da parte del Comune. Deduce che la sentenza aveva formulato una interpretazione dell’art. 4 del rogito del 1983 non rispondente al principio di buona fede, non avendo verificato quale fosse stata la volontà negoziale perseguita dalle parti alla luce delle circostanze del caso concreto posto che, da un canto, la Cooperativa aveva fatto ragionevole affidamento sul fatto che il Comune dovesse versare la prima parte del prezzo in modo che fosse estinto il mutuo ipotecario e, dall’altro, il Comune era consapevole che la Cooperativa non fosse in grado di estinguere il debito con mezzi propri. Del resto, la riserva da parte del Comune avrebbe avuto senso proprio considerando il complesso regolamento pattizio ‘.
Nel giudizio di rinvio, il Comune aveva espressamente chiesto al sub 2), che venisse confermato il capo sub 1) del dispositivo della sentenza n. 549/2009 nella parte in cui aveva riformato quella di primo grado e accolto la sua domanda ‘ di cui alla memoria del 31/5/1994 per i titoli innanzi evidenziati, in ragione del giudicato formatosi su di esso in virtù della sentenza della Corte di Cassazione n. 17759 e sopra eccepito ‘, come parimenti riportato nella narrativa della sentenza impugnata.
Sebbene la sentenza impugnata non contenga alcuna argomentazione in ordine a questo motivo, deve escludersi la dedotta nullità per omessa pronuncia, essendo la reiezione della censura implicita nella stessa statuizione, che, ancorché adottata con formula scorretta attraverso la conferma della sentenza di primo grado, ha inteso accogliere la sola domanda della RAGIONE_SOCIALE, relativa alla richiesta di risarcimento dei danni conseguenti al mancato pagamento del saldo del prezzo d’acquisto, con rigetto di tutte le altre domande delle parti, e condannare il Comune al pagamento della somma di € 760.321,41 (pari a 1.472.187.546 lire), oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, nonché alle spese del giudizio.
Né può dirsi che questa decisione abbia violato alcun giudicato, atteso che la questione dell’interpretazione della clausola n. 4, così come operata dai giudici di merito e, prima ancora, censurata dalla Cooperativa, non poteva che travolgere anche il risarcimento riconosciuto in favore del Comune, non potendosi contestualmente affermare l’inadempimento di quest’ultimo nel pagamento dell’ultima tranche di prezzo onde consentire alla Cooperativa di estinguere il mutuo e cancellare l’ipoteca e reputare al pari illecito e, dunque, risarcibile, il comportamento della Cooperativa che, senza quel pagamento, non aveva provveduto alla cancellazione dell’ipoteca, stante la contraddittorietà di una simile statuizione.
Se ne deduce che i giudici di merito, attraverso il rinvio alla sentenza di primo grado, abbiano operato un assorbimento improprio della questione del risarcimento chiesto dal Comune, siccome incompatibile con la sua responsabilità nel pagamento del saldo del prezzo, atteso che l’uno escludeva l’altro.
4. In conclusione, dichiarata l’infondatezza dei motivi, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico del ricorrente.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 14.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 26 marzo 2025.
La Presidente NOME COGNOME