Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 25836 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 25836 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 27/09/2024
Oggetto: locazione ad uso commerciale – inammissibilità del ricorso.
O R D I N A N Z A
sul ricorso n. 12175/22 proposto da:
-) NOME , domiciliata ex lege all’indirizzo PEC del proprio difensore , difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
-) RAGIONE_SOCIALE di NOME , in persona del socio accomandatario pro tempore , domiciliato ex lege all’indirizzo PEC del proprio difensore , difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino 28 ottobre 2021 n. 1137; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del l’ 11 luglio 2024 dal AVV_NOTAIO;
FATTI DI CAUSA
La società RAGIONE_SOCIALE nel 2017 chiese ed ottenne un decreto ingiuntivo nei confronti di NOME COGNOME, per l’importo di euro 27.867.
A fondamento del ricorso monitorio aveva dedotto:
-di esercitare un’azienda commerciale di ristorazione nei locali d’un immobile sito a Torino, in INDIRIZZO, da essa condotto in locazione;
-di avere affittato la suddetta azienda ad RAGIONE_SOCIALE;
–NOME COGNOME era in mora sia nel pagamento sia dei canoni dovuti per l’affitto dell’azienda, sia nel rimborso alla RAGIONE_SOCIALE dei canoni da
essa dovuti al proprietario dell’immobile; sia nel pagamento di altre spese accessorie contrattualmente dovute.
NOME COGNOME propose opposizione al decreto ingiuntivo, deducendo:
-) di avere pagato un certo numero di canoni in realtà non dovuti in base al contratto, sol perché ‘intimidita’ dalla minaccia di recesso della controparte;
-) che la RAGIONE_SOCIALE non aveva assolto gli oneri amministrativi preordinati al rilascio della licenza di esercizio dell’attività commerciale, oneri da lei assolti al fine di evitare la chiusura dell’esercizio;
-) che la RAGIONE_SOCIALE si era resa inadempiente all’obbligo, contrattualmente assunto, di affittare una azienda in regola con gli adempimenti amministrativi e fiscali.
Chiese perciò la revoca del decreto ingiuntivo e, in via riconvenzionale, la compensazione del credito vantato dalla RAGIONE_SOCIALE con i propri controcrediti scaturenti dalle circostanze di cui sopra.
Con sentenza 16.10.2020 n. 3459 il Tribunale di Torino rigettò l’opposizione.
La sentenza fu appellata da NOME COGNOME.
Con sentenza 28.10.2021 n. 1137 la Corte d’appello di Torino rigettò il gravame.
Per quanto in questa sede ancora rileva, la Corte d’appello ritenne che il contratto di affitto d’azienda ponesse a carico di NOME l’obbligo di pagamento dei canoni convenuti anche per l’anno 2017, al contrario di quanto sostenuto dall’appellante; che in tal senso deponeva la ‘grafica’ del contratto e la condotta di NOME, la quale aveva già versato una parte dei canoni relativi all’anno 2017; che non vi era prova alcuna che tale pagamento fosse stato coatto.
5 . La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da NOME COGNOME con
ricorso fondato su un motivo. RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
Con atto del 20.1.2024 è stato proposto ex art. 380bis c.p.c. il rigetto del ricorso per infondatezza dell’unico motivo nei seguenti termini:
‘ l’unico motivo di ricorso è manifestamente infondato;
nell’interpretazione del contratto l’elemento letterale assume funzione fondamentale, ma la valutazione del complessivo comportamento delle parti non costituisce un canone sussidiario bensì un parametro necessario e indefettibile, in quanto le singole espressioni letterali devono essere raccordate alle altre clausole e al complesso dell’atto e l’atto deve essere esaminato valutando il complessivo comportamento delle parti;
in questa progressiva dilatazione degli elementi dell’interpretazione può assumere rilievo anche il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto, ma deve trattarsi di un comportamento convergente (e tale può essere anche un comportamento unilaterale che sia accettato dall’altra parte contrattuale, eventualmente anche tacitamente) (Cass. 13/08/2001, n. 11089);
l’art. 1362 c.c., nel prescrivere in sede di interpretazione contrattuale che il giudice, ai fini dell’interpretazione della volontà contrattuale debba valutare il comportamento complessivo delle parti, richiede non la valutazione di ogni singolo atto posto in essere dalle medesime, ma la considerazione globale della loro condotta in relazione agli elementi di fatto che possono avere importanza per l’interpretazione del contratto (cfr. Cass. 16/07/1973, n. 2067);
inoltre, in tema di interpretazione del contratto, a norma dell’art. 1363 c.c., secondo cui le clausole si interpretano le une per mezzo delle altre attribuendo a ciascuna il senso risultante dal complesso dell’atto, il giudice non può arrestarsi ad una considerazione atomistica delle singole clausole, neppure quando la loro interpretazione possa essere compiuta, senza incertezze, sulla base del “senso letterale delle parole”, poiché anche questo va necessariamente riferito all’intero testo della dichiarazione negoziale, sicché le varie espressioni che in esso figurano vanno tra loro coordinate e ricondotte ad armonica unità e concordanza (Cass. 28/03/2006, n. 7083; 11/06/1999, n. 5747; 21/02/1995, n.1877);
ciò comporta che il dato testuale del contratto, pur rivestendo un rilievo centrale, non sia necessariamente decisivo ai fini della ricostruzione dell’accordo, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali non è un prius, ma l’esito di un processo interpretativo che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore (Cass. n. 14432 del 15/07/2016, Rv. 640528 – 01);
in particolare, a norma dell’art. 1362 c.c., il dato testuale del contratto, pur importante, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione della volontà delle parti, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare, atteso che un’espressione prima facie chiara può non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti; ne consegue che l’interpretazione del contratto, da un punto di vista logico, è un percorso circolare che impone all’interprete, dopo aver compiuto l’esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l’intenzione delle parti e quindi di verificare se quest’ultima sia coerente con le restanti disposizioni del contratto e con la condotta delle parti medesime (cfr. Cass. 23/08/2018, n. 20990; 10/05/2016, n. 9380)
nella fattispecie, contrariamente alle censure mosse dalla ricorrente, la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, avendo proceduto alla lettura e all’interpretazione delle dichiarazioni negoziali in esame nel pieno rispetto dei canoni di ermeneutica fissati dal legislatore, non ricorrendo ad alcuna attribuzione di significati estranei al comune contenuto semantico delle parole, né spingendosi a una ricostruzione del significato complessivo dell’atto negoziale in termini di palese irrazionalità o intima contraddittorietà, per tale via giungendo alla ricognizione di un contenuto negoziale sufficientemente congruo, rispetto al testo interpretato, e scevro da residue incertezze, avendo peraltro significativamente e correttamente evidenziato in premessa che, ciò che viene valorizzato
dall’appellante, non è tanto il dato letterale quanto l’impostazione grafica del contratto ‘ .
La ricorrente ha chiesto che il ricorso sia deciso.
Ambo le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 1322, 1362 e 1371 c.c..
Sostiene che la Corte d’appello ha interpretato la clausola n. 4 del contratto di affitto di azienda in modo scorretto.
Deduce che quella clausola si sarebbe dovuta interpretare nel senso che prevedesse
per l’anno 2017, l’obbligo di NOME COGNOME di pagare solo il canone previsto per l’affitto di azienda;
per l’anno 2018 e seguenti, l’obbligo di NOME COGNOME di pagare sia il canone previsto per l’affitto di azienda, sia di rimborsare alla RAGIONE_SOCIALE i canoni di locazione dell’immobile da questa dovuti al proprietario.
Deduce che la Corte d’appello non avrebbe correttamente indagato la volontà delle parti, violando l’art. 1322 c.c.; né avrebbe correttamente applicato il principio inclusio unius, exclusio alterius , violando l’art. 1362 c.c..
Il motivo è inammissibile in quanto censura l’interpretazione del contratto prescelta dal giudice di merito, di per sé non implausibile; né quella prospettata dalla ricorrente può dirsi l’unica ed obbligata interpretazione consentita dal testo della clausola.
Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile in virtù del principio ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui la violazione delle regole legali di ermeneutica non può dirsi sussistente sol perché il testo negoziale consentiva in teoria altre e diverse interpretazioni, rispetto a quella fatta propria dalla sentenza impugnata.
L’interpretazione del negozio prescelta dal giudice di merito può condurre alla cassazione della sentenza impugnata quando sia grammaticalmente, sistematicamente o logicamente scorretta, ma non quando costituisca una non implausibile interpretazione, preferita tra altre non implausibili
interpretazioni ( ex multis , in tal senso, Sez. 3 – , Sentenza n. 28319 del 28/11/2017, Rv. 646649 -01; Sez. 1 – , Ordinanza n. 27136 del 15/11/2017; Sez. 1, Sentenza n. 6125 del 17/03/2014; Sez. 3, Sentenza n. 16254 del 25/09/2012; Sez. 3, Sentenza n. 24539 del 20/11/2009, Rv. 610944 -01; Sez. 1, Sentenza n. 10131 del 02/05/2006, Rv. 589465 -01).
Le considerazioni svolte nella proposta di definizione anticipata sono dunque condivisibili ed anzi giustificano piuttosto che il rigetto l’inammissibilità dell’unico motivo.
2.1. Ritiene il Collegio di aggiungere, ad abundantiam , che l’illustrazione del motivo omette di farsi carico dell’argomento desunto dalla Corte torinese dal comportamento delle parti circa il pagamento del canone dei locali, nonché del fatto che quella Corte ha espressamente affermato che il testo letterale del contratto lasciava adito a dubbi, mentre il ragionamento della ricorrente ignora tale assunto.
Inoltre la lettura della clausola contrattuale n. ‘ 4 ‘, proprio secondo il criterio letterale, una volta considerato che essa usa due espressioni diverse – la prima relativa al canone di affitto e la seconda relativa al canone di locazione, per il quale parla di rimborso, ed una volta messo in relazione tale dato con il fatto che la clausola si compone, dopo i due punti, di due proposizioni riferibili al canone di affitto e relative ai distinti periodi e di altra senza indicazione periodale ed iniziante con un ‘oltre’, tutte e tre separate da punti e virgola – dovrebbe suggerire la conclusione che la terza proposizione è generale, cioè concernente entrambi i periodi prima indicati.
Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c., e sono liquidate nel dispositivo. Poiché la presente ordinanza è conforme alla proposta di definizione ai sensi dei dell’art. 96, commi
accelerata, la ricorrente va altresì condannata terzo e quarto, c.p.c., nella misura indicata nel dispositivo.
P.q.m.
(-) dichiara inammissibile il ricorso;
(-) condanna COGNOME alla rifusione in favore di RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOME delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di euro 1.500, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex art. 2, comma 2, d.m. 10.3.2014 n. 55;
(-) condanna RAGIONE_SOCIALE al pagamento in favore di RAGIONE_SOCIALE di NOME NOME della somma di euro 1.500, ex art. 96, terzo comma, c.p.c.;
(-) condanna NOME COGNOME al pagamento in favore della Cassa delle ammende della somma di euro 500 ex art. 96, comma quarto, c.p.c.;
(-) ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della