Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 7947 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 7947 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 25/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n.7372 R.G. anno 2020 proposto da:
NOME NOME COGNOME , rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, domiciliato presso l’av vocato NOME COGNOME;
ricorrente
contro
RAGIONE_SOCIALE , rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME e dall’avvocato NOME COGNOME ;
contro
ricorrente e ricorrente incidentale nonché contro
COGNOME NOME , rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
contro
ricorrente e ricorrente incidentale nonché contro
COGNOME NOME , rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
contro
ricorrente
avverso la sentenza n. 3/2019 depositata il 10 ottobre 2019 della Corte di appello di Cagliari.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 gennaio 2024 dal consigliere relatore NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza pubblicata il 5 aprile 2018 il Tribunale di Cagliari pronunciando sulle domande proposte da NOME COGNOME, le ha rigettate integralmente, condannando l’attore a pagare, in favore di ciascuno dei convenuti, le spese processuali.
Lo stesso COGNOME aveva convenuto in giudizio RAGIONE_SOCIALE e i soci della stessa, NOME, NOME e NOME COGNOME, affinché fossero accertati gli obblighi assunti dai soci stessi nei confronti dell’attore in virtù della previsione dell’art. 5 del contratto di transazione concluso il 10 luglio 2010, con condanna dei nominati COGNOME, in solido tra loro, a reintegrarlo e tenerlo indenne dal depauperamento della propria partecipazione azionaria -pari al 14,62% del capitale sociale -attuatosi per effetto delle perdite subite dalla società RAGIONE_SOCIALE nel biennio ricompreso tra il 10 luglio 2010 e il 10 luglio 2012, e con condanna dei medesimi soci, in solido tra loro, alla corresponsione, in favore della società, dell’importo di euro 5.240.946,00, oltre interessi e rivalutazione monetaria.
L’attore aveva esposto che nell’ambito della predetta transazione le parti, regolando i propri rapporti controversi, avevano assunto, tra l’altro, l’impegno a che, in caso di perdite, la partecipazione di esso istante conservasse inalterato il suo valore per la durata di due anni a far tempo dalla stipula e aveva dedotto che, nello specifico, si erano prodotte perdite nella misura sopraindicata tra il 2010 e il 2012.
Il Tribunale ha respinto le domande attrici.
Il gravame proposto da NOME COGNOME è stato rigettato con sentenza del 19 ottobre 2019 della Corte di appello di Cagliari.
– Ricorre per cassazione, facendo valere due motivi, NOME COGNOME. Resistono con controricorso RAGIONE_SOCIALE, NOME e NOME COGNOME. La società e NOME COGNOME hanno pure spiegato una impugnazione incidentale su due motivi. Sono state depositate memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
─ Il ricorrente principale ha svolto, con riferimento alla posizione di NOME COGNOME, un’eccezione processuale cui si deve accordare precedenza nella presente trattazione. Ha dedotto l’inammissibilità del controricorso della predetta per difetto di valida procura: dal tenore letterale della procura ad litem rilasciata in calce al ricorso, ma su foglio separato, non sarebbe infatti possibile, secondo l’istante, determinarne il prescritto carattere di specialità, stante l ‘asserita vaghezza della formula adottata, in cui è menzione della rappresentanza e della difesa «nel giudizio di cui al presente atto avanti la Corte Suprema di Cassazione».
1.1. Deve rilevarsi, in contrario, che in tema di procura alle liti, a seguito della riforma dell’art. 83 c.p.c. disposta dalla l. n. 141 del 1997, il requisito della specialità, richiesto dall’art. 365 c.p.c. come condizione per la proposizione del ricorso per cassazione (del controricorso e degli atti equiparati), è integrato, a prescindere dal contenuto, dalla sua collocazione topografica, nel senso che la firma per autentica apposta dal difensore su foglio separato, ma materialmente congiunto all’atto, è in tutto equiparata alla procura redatta a margine o in calce allo stesso; tale collocazione topografica fa sì che la procura debba considerarsi conferita per il giudizio di cassazione anche se non contiene un espresso riferimento al provvedimento da impugnare o al
giudizio da promuovere, purché da essa non risulti, in modo assolutamente evidente, la non riferibilità al giudizio di cassazione, tenendo presente, in ossequio al principio di conservazione enunciato dall’art. 1367 c.c. e dall’art. 159 c.p.c., che nei casi dubbi la procura va interpretata attribuendo alla parte conferente la volontà che consenta all’atto di produrre i suoi effetti (Cass. Sez. U. 9 dicembre 2022, n. 36057).
2. -Col primo motivo il ricorrente principale denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367, 1368, 1369, 1371 e 1322 c.c.; oppone, altresì, l’omesso esame e l’omessa valutazione, ovvero il travisamento del tenore letterale dell’art. 5 del contratto di transazione «circa un elemento decisivo per il giudizio ed oggetto di trattazione tra le parti» e la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c.. Si duole dell ‘erronea interpretazione della detta disposizione negoziale, che si risolverebbe nell’affermazione per cui «ciò che doveva rimanere inalterata, anche secondo la lettera dell’accordo, era la ‘ partecipazione’ al capitale, e cioè la quota di capitale posseduto attraverso i titoli azionari, non invece il valore reale delle azioni». L’istante lamenta, altresì, che la Corte di appello abbia omesso di considerare che nella predetta clausola era espressamente previsto che l’impegno a che la partecipazione azionaria di NOME COGNOME conservasse inalterato il suo valore era testualmente e teleologicamente ancorato al ricorrere delle perdite, e non già ad aumenti di capitale, il cui divieto era contemplato da altre clausole contrattuali.
2.1. Secondo la Corte di appello, il contenuto complessivo del cit. art. 5 «evidenzia l’intendimento delle parti di impedire che nel successivo biennio venissero deliberati dai soci o loro aventi causa aumenti di capitale, attendibilmente poiché NOME COGNOME non voleva o non poteva partecipare alla sottoscrizione di siffatti aumenti (che, evidentemente, all’epoca si profilavano come possibili) poiché con tali
operazioni si sarebbe ridotta, di conseguenza, la percentuale di capitale sociale espressa dalla sua partecipazione azionaria». Ha quindi rilevato che la disposizione contrattuale lasciava individuare «tre possibili scenari, tutti orientati a scongiurare un aumento di capitale sociale o, quantomeno, a sterilizzarne le conseguenze, salva l’ipotesi di aumento indispensabile per la vita della società, subordinato all’adozione di una serie di garanzie e verifiche»: divieto, per due anni, dell’ aumento di capitale deliberato da NOME, NOME e NOME COGNOME; divieto, per lo stesso periodo, dell’aumento di capitale deliberato da soggetti terzi, quali cessionari e creditori pignoratizi; previsione di una valutazione tecnica da parte di un arbitratore nell’ipotesi in cui l’ aumento di capitale dovesse essere disposto nell’interesse della società. La Corte di merito ha poi evidenziato che la disposizione contrattuale risultava essere, nel suo complesso, finalizzata ad evitare aumenti di capitale che avrebbero alterato la partecipazione azionaria di cui era titolare l’odierno ricorrente al momento della stipula del contratto e che l’impegno dei soci si era spinto fino ad «assumere la garanzia di mantenere integra detta proporzione nel caso in cui l’aumento fosse comunque disposto, salvo il caso in cui esso si fosse reso indispensabile «perché lo esige l’interesse della società». Ha aggiunto che questa interpretazione della pattuizione era al contempo rispondente al criterio di ragionevole affidamento e alla regola posta dall’art. 1369 c.c. e che la soluzione propugnata dall’ appellante si scontrava con l’in verosimiglianza dell’assunzione di un gravosissimo ed aleatorio impegno, da parte degli altri soci, indipendente dalle loro condotte e volontà, e privo di alcuna chiarificazione quanto al valore iniziale della partecipazione azionaria a cui rapportare l’eventuale e futuro deprezzamento.
Tale motivazione, con cui è spiegato che la richiamata norma contrattuale non implicava che il valore delle azioni dovesse restare immutato (e che, in conseguenza, la partecipazione di NOME COGNOME
COGNOME non potesse subire oscillazioni in ragione delle perdite sociali occorse), si sottrae a censura.
Occorre premettere che l ‘accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 ss. c.c. Pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. 9 aprile 2021, n. 9461; Cass. 16 gennaio 2019, n. 873; Cass. 15 novembre 2017, n. 27136; Cass. 9 ottobre 2012, n. 17168; Cass. 31 maggio 2010, n. 13242; Cass. 9 agosto 2004, n. 15381).
L’odierno istante lamenta, anzitutto, che la Corte di merito non avrebbe valorizzato il dato letterale della clausola, secondo cui «in caso di perdite» la propria partecipazione avrebbe dovuto «conservare inalterato il proprio valore». Sennonché il « senso letterale delle parole », di cui all’art. 1362 c.c., va desunto da ogni parte della dichiarazione negoziale e da ogni parola che la compone, sicché la singola clausola, prima ancora di essere posta in relazione con le altre clausole, deve essere letta e valutata nella sua interezza (Cass. 17 dicembre 2012, n. 23208). Ebbene, il Giudice distrettuale ha interpretato la clausola reputando che la stessa vietasse aumenti di capitale che modificassero l’entità della partecipazione sociale di NOME COGNOME: quindi il peso della quota azionaria di tale soggetto rispetto a quella di tutti gli
altri azionisti. Tale lettura si fonda sui plurimi riferimenti, espressi nel testo della disposizione, agli aumenti di capitale; in tal modo, la fattispecie consistente nel verificarsi di perdite è stata implicitamente correlata dalla Corte di appello all’operazione di ricostituzione del capitale sociale dopo la sua riduzione (art. 2446 c.c.): operazione appunto necessitata da una diminuzione del capitale sociale (quindi da una perdita dello stesso) in misura eccedente un terzo. Poiché in tutte le ipotesi di aumento di capitale i soci che l’ avessero deliberato sarebbero stati tenuti «a far sì che la quota di NOME COGNOME restasse integra nelle sua originaria percentuale rispetto all’intero » (sentenza impugnata, pag. 16) – sal vo che l’interesse della società avesse imposto la nomina di un arbitratore , è da credere che la Corte di appello abbia inteso ricondurre la speciale ipotesi di cui si è appena detto (quella delle «perdite») alla menzionata disciplina.
Dopodiché, occorre rammentare che il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito (Cass. 26 maggio 2016, n. 10891; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465), né le censure vertenti sull’interpretazione del negozio possono risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni: sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’ interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 27 giugno 2018, n. 16987; Cass. 28 novembre 2017, n. 28319).
Non colgono, di poi, nel segno le deduzioni di parte ricorrente fondate sulla necessità di valorizzare, sul piano interpretativo, la volontà comune delle parti (art. 1362, comma 1, c.c.) oltre che il complessivo tenore del testo contrattuale (art. 1363 c.c.). Per un verso,
la sentenza impugnata si muove proprio nella prospettiva segnata dalla «ricerca della comune volontà dei contraenti» (pag. 15); per altro verso, la pronuncia non nega che le clausole negoziali si interpretino « le une per mezzo delle altre »: semplicemente essa registra che nel restante corpo del contratto non si collocano elementi che sconfessino il significato conferito alla clausola a norma dell’art. 136 2 cc.. Questo articolo, allorché nel comma 1 prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta, poi, l’elemento letterale del contratto ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cass. 26 aprile 2023, n. 10967; Cass. 22 agosto 2019, n. 21576).
Prive di aderenza alla sentenza impugnata sono, inoltre, le censure vertenti sulla violazione e falsa applicazione degli artt. 1366 e 1369 c.c., visto che la Corte di appello, sulla base di un accertamento di fatto qui non sindacabile, ha precisato che la ricostruzione della volontà delle parti nel senso indicato risultava rispondente al criterio del ragionevole affidamento, oltre che rispettosa della regola dell’art. 1369.c.c., avuto riguardo alla natura e all’oggetto del contratto.
Con riguardo alla lamentata inosservanza degli altri canoni interpretativi, basterà ricordare che, come sopra accennato, le regole legali di ermeneutica contrattuale sono governate da un principio di gerarchia, in forza del quale i criteri degli artt. 1362 e 1363 c.c. prevalgono su quelli integrativi degli artt. 1365-1371 c.c., posto che la determinazione oggettiva del significato da attribuire alla dichiarazione non ha ragion d’essere quando la ricerca soggettiva conduca ad un utile risultato (Cass. 24 gennaio 2012, n. 925; Cass. 22 marzo 2010, n. 6852).
Per quanto attiene al vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c., esso
deve investire un «fatto storico», e tale non è, all’evidenza, «il tenore letterale dell’art. 5 della transazione» : si è visto, peraltro, che la Corte di merito ha scrutinato la disposizione di cui si controverte avendo proprio riguardo alla sua dimensione testuale.
L’ulteriore censura basata sull’art. 115 c.p.c. maschera , infine, il tentativo di sottoporre a revisione il giudizio di fatto della Corte di appello, che è insindacabile in questa sede su quel versante. Del resto, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c. occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. Sez. U. 30 settembre 2020, n. 20867; Cass. 9 giugno 2021, n. 16016).
Il primo motivo è, così, nel complesso infondato.
3 . -Il secondo motivo del ricorso principale oppone l’ error in iudicando con riguardo alla disposizione di cui all’art. 92, comma 2, c.p.c. e la violazione e falsa applicazione dell’art. 132, n. 4, c.p.c. . La censura investe la statuizione con cui sono state compensate solo per la metà le spese processuali del giudizio di merito. Si sostiene, in sintesi, che la plausibilità della tesi interpretativa dell’odierno ricorrente e la dichiarata complessità dell’articolato contrattuale avrebbero dovuto indurre la Corte in merito a una compensazione integrale delle predette spese. La motivazione impiegata sul punto del carattere solo parziale della compensazione risulterebbe, ad avviso dell’istante, apparente e basata sul contrasto tra affermazioni inconciliabili, e comunque perplessa e incomprensibile. Si aggiunge che nei confronti di NOME
RAGIONE_SOCIALE non era stata azionata alcuna pretesa e che la medesima risultava essere stata convenuta unicamente quale contraddittore necessario in ragione delle specifiche domande spiegate nei soli confronti degli altri convenuti.
Tale mezzo di censura può essere esaminato congiuntamente ai due motivi di ricorso incidentale svolti da RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME, che pure investono il tema delle spese processuali.
Col primo motivo la società testé indicata lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Contesta che ricorressero le « gravi ed eccezionali ragioni » atte a giustificare la compensazione delle spese di giudizio e lamenta, in subordine, il vizio motivazionale de ll’impugnata sentenza quanto alla relativa statuizione.
Il secondo motivo di ricorso incidentale di RAGIONE_SOCIALE è svolto condizionatamente all’accoglimento del secondo motivo del ricorso principale. Con esso si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., dell’art. 13, comma 6, l. n. 247/2012 e dell’art. 4 d.m. n. 55/2014. Il mezzo verte sulla conformità della quantificazione dei compensi alle prescrizioni tariffarie.
Il primo motivo del ricorso incidentale di NOME COGNOME oppone la violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 92, comma 2, c.p.c.. Consta dei medesimi rilievi svolti dall’ altra ricorrente per incidente e sottopone, in subordine, una censura per il mancato esame delle difese, svolte dalla parte, incentrate sulle gravi ed eccezionali ragioni che hanno motivato la decisione di parziale compensazione.
Il secondo mezzo di NOME COGNOME è condizionato all’accoglimento del secondo motivo del ricorso principale ed è integralmente sovrapponibile al secondo motivo del ricorso incidentale di RAGIONE_SOCIALE
3.1.Precede, sul piano logico-argomentativo , l’esame del primo motivo dei due ricorsi incidentali.
La Corte di appello, in accoglimento il secondo motivo del
gravame proposto da NOME COGNOME, ha ritenuto ricorressero le gravi ed eccezionali ragioni atte a giustificare la compensazione e ha ravvisato le stesse nella particolare complessità delle questioni trattate.
Ora, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., come riformulato dalla l. n. 69 del 2009 ( ratione temporis applicabile alla presente fattispecie), la compensazione delle spese legali può essere disposta, in difetto di soccombenza reciproca, per « gravi ed eccezionali ragioni », tra le quali, trattandosi di nozione elastica, rientra la situazione di obiettiva incertezza sul diritto controverso (Cass. 7 agosto 2019, n. 21157) o l’oggettiva opinabilità delle questioni affrontate (Cass. 11 marzo 2022, n. 7992; Cass. 9 gennaio 2014, n. 319). Allo stesso modo, deve credersi che le « gravi ed eccezionali ragioni » possano essere integrate dalla particolare complessità delle questioni trattate, la quale è del resto idonea a tradursi proprio in quella originaria incertezza, quanto all’esito della lite, che ricorre, secondo la giurisprudenza sopra richiamata, ove siano controvertibili il diritto in contesa o le questioni sottoposte al giudice. L’ obbligo motivazionale deve ritenersi dunque assolto, nella fattispecie in esame, attraverso il richiamo alla detta complessità, peraltro desumibile dalle stesse argomentazioni svolte dalla Corte di appello con riguardo al merito della vicenda controversa.
Per quel che concerne il ricorso principale, la motivazione adottata è idonea a escludere il vizio denunciato.
L’art. 92, nel testo applicabile, impone di indicare le gravi ed eccezionali ragioni che giustificano la compensazione da attuarsi, non anche di spiegare le ragioni per cui il giudice non abbia optato per la compensazione parziale (nel caso di pronuncia di compensazione totale) o per la compensazione parziale (nel caso di pronuncia sulla compensazione totale). L’obbligo motivazionale è cioè soddisfatto dalla enunciazione delle ragioni che consentono di superare l’applicazione del principio di soccombenza di cui all’art. 91 c.p.c.. Quando il giudice del merito dichiara di compensare le spese solo parzialmente, in presenza
di una data condizione puntualmente espressa nella motivazione del provvedimento, egli esprime il convincimento che la detta condizione sia idonea a giustificare la compensazione: e tanto basta, a mente del cit. art. 92, a ritenere soddisfatto l’obbligo motivaz ionale.
In definitiva, la scelta tra compensazione totale o parziale si colloca in un ambito che non è sindacabile in sede di legittimità, nemmeno sotto il profilo motivazionale. E’ , questa, una conclusione che risponde alla stessa logica che informa la decisione del giudice quanto alla mancata compensazione delle spese: se il giudice del merito non è tenuto a mot ivare sull’ insussistenza dei motivi atti a giustificare la compensazione delle spese, allorquando condanni alla refusione delle stesse la parte soccombente (per tutte: Cass. 26 novembre 2020, n. 26912 ) -dovendo sul punto ravvisarsi una piena discrezionalità del medesimo , deve parimenti escludersi che il detto giudice debba dar giustificazione della misura della compensazione che intenda adottare.
Sempre con riguardo al secondo motivo del ricorso principale, va disattesa la censura basata sulla mancata proposizione, da parte dell’istante, di domande nei confronti di RAGIONE_SOCIALE
E’ vero che contro detta società non sono state svolte vere e proprie domande; ma è altrettanto vero che la medesima, evocata in giudizio da NOME COGNOME, ha svolto le sue difese sostenendo le ragioni degli altri convenuti, che sono risultati vittoriosi. Ciò detto, ai fini della regolamentazione delle spese processuali, la posizione di chi, convenuto in giudizio senza essere destinatario di alcuna domanda, richieda il rigetto della pretesa attorea, non è dissimile da quella dell’interve niente adesivo: e l’interveniente adesivo, indipendentemente dal fatto di non aver proposto domanda nei confronti delle altre parti, riveste la qualità di parte, in quanto contraddittore unitamente alla parte adiuvata, nei confronti della controparte, la quale, se soccombente, può essere condannata, in tutto o in parte al pagamento delle spese giudiziali (Cass. Sez. U. 3 ottobre
1978, n. 4377).
Il secondo motivo dei due ricorsi incidentali resta assorbito, visto che lo stesso era condizionato a ll’accoglimento del secondo motivo del ricorso principale.
4 . -Il ricorso principale deve dunque respingersi, al pari dei due ricorsi incidentali.
5 . – Le spese di giudizio possono compensarsi parzialmente, in ragione di un quarto, stante la reciproca soccombenza, tra il ricorrente e i due ricorrenti incidentali, mentre seguono la soccombenza tra lo stesso istante e NOME COGNOME.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso principale e i due ricorsi incidentali; compensa per un quarto le spese processuali tra le diverse parti che hanno proposto ricorso per cassazione, liquidando le stesse , per l’intero , con riferimento a ciascuna delle parti controricorrenti che ha spiegato ricorso incidentale, in euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge; per l’effetto condanna la parte ricorrente principale al pagamento dei tre quarti del detto importo in favore sia di RAGIONE_SOCIALE che di COGNOME NOME; condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese processuali in favore di COGNOME NOME, liquidandole in euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e dei ricorrenti incidentali , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1ª Sezione