Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 19124 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 19124 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 11/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 28555-2020 proposto da:
COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO nell o studio dell’avv. NOME COGNOME che la rappresenta e difende
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, e COGNOME, elettivamente domiciliate in ROMA, INDIRIZZO presso l’avv. NOME COGNOME che le rappresenta e difende
-controricorrenti –
COGNOME NOME
-intimata – avverso la sentenza n. 378/2020 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata in data 11/08/2020
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 23.9.2009 Urbani NOME evocava in giudizio RAGIONE_SOCIALE e le sue socie amministratrici COGNOME NOME e COGNOME NOME innanzi il Tribunale di Spoleto, chiedendone la condanna all’adempimento all’obbligazione derivante, a loro carico, dall’art. 2 lett. c) del contratto di compravendita avente ad oggetto l’immobile sito in Spoleto, INDIRIZZO, con il quale la venditrice RAGIONE_SOCIALE si era obbligata a tenere indenne la Urbani da qualsiasi controversia con l’impresa appaltatrice e la direzione dei lavori incaricati di ultimare le opere di consolidamento e rifinitura del cespite compravenduto. In subordine, l’attrice chiedeva la condanna delle convenute a titolo di arricchimento senza causa, per un importo corrispondente al valore delle opere che l’appaltatore avrebbe dovuto eseguire sul bene oggetto di causa.
Si costituivano RAGIONE_SOCIALE di COGNOME RAGIONE_SOCIALE e COGNOME NOME in proprio, resistendo alla domanda.
Con sentenza n. 338/2017 il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo che la clausola inserita nel contratto di compravendita oggetto di causa avrebbe avuto ad oggetto soltanto le eventuali ulteriori pretese dell’appaltatore, rispetto all’importo dei lavori già commissionati allo stesso dalla società venditrice, e che dunque la RAGIONE_SOCIALE avrebbe dovuto evocare in giudizio direttamente l’appaltatore o
nonchè contro
il progettista, per far valere eventuali vizi delle opere eseguite sul bene di cui è causa.
Con la sentenza impugnata, n. 378/2020, la Corte di Appello di Perugia rigettava il gravame interposto dalla Urbani avverso la decisione di prime cure, confermandola. La Corte distrettuale riteneva che, in base al criterio letterale, la clausola di cui all’art. 2 lett. c) del contratto di compravendita dovesse essere interpretata come avente ad oggetto soltanto le eventuali pretese economiche ulteriori dell’appaltatore o del progettista, e che la domanda proposta dalla Urbani, avente ad oggetto la mancata ultimazione delle opere, avrebbe dovuto essere proposta direttamente nei confronti dei predetti soggetti, e non invece nei riguardi della parte venditrice. Inoltre, secondo la Corte di Appello, i lavori da eseguire nel bene compravenduto non avrebbero avuto alcun effetto sulla determinazione del prezzo di acquisto dello stesso, poiché nel contratto non era previsto alcun termine per la loro esecuzione. Infine, la Corte territoriale escludeva anche l’arricchimento senza causa, perché nel corrispettivo pattuito per la compravendita non erano stati computati i lavori ancora da eseguire sul bene oggetto del trasferimento.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione NOME affidandosi a cinque motivi.
Resistono con controricorso COGNOMERAGIONE_SOCIALE e COGNOME NOME, quest’ultima anche quale figlia ed unica erede della defunta COGNOME NOME
In prossimità dell’adunanza camerale, ambo le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367 c.c., 132 c.p.c., in
relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente interpretato il contenuto della clausola di cui all’art. 2 lett. c) del contratto di compravendita intervenuto tra le parti. Ad avviso della ricorrente, poiché la clausola aveva ad oggetto anche i lavori ancora da effettuare nell’immobile compravenduto, la manleva in essa prevista avrebbe avuto ad oggetto anche le conseguenze della loro mancata esecuzione.
Con il secondo motivo, invece, la ricorrente contesta la violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. ed il vizio della motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché il giudice di seconda istanza avrebbe erroneamente interpretato il contenuto complessivo del contratto di compravendita, che aveva ad oggetto un immobile nel quale erano in corso lavori di consolidamento e di rifinitura.
Le due censure, suscettibili di trattazione congiunta, sono infondate.
La clausola di cui all’art. 2 lett. c) del contratto di compravendita stipulato tra le parti, riprodotta anche a pag. 4 della sentenza impugnata, recita ‘Con i pagamenti effettuati, di cui al precedente punto b), la società venditrice, come sopra rappresentata, manleva di fatto la parte acquirente da ogni eventuale controversia dovesse nascere con l’impresa appaltatrice o con il progettista e Direttore dei Lavori ing. NOME COGNOME al momento del saldo finale dei suddetti lavori’ . L’art. 2 lett. a) prevede che l’appartamento oggetto della compravendita è parte di un fabbricato in corso di consolidamento a seguito del sisma del 1997, mentre la lett. b) stabilisce, a sua volta, che ‘b) per tali lavori l’impresa appaltatrice degli stessi ha già presentato, limitatamente alla quota dell’appartamento in oggetto ed anticipatamente, documentazione contabile finale (fatture) per i lavori
eseguiti e per quelli ancora da effettuare, fino al raggiungimento di quanto previsto ed accordato nello stato finale da parte del Direttore dei Lavori ing. NOME COGNOME per un importo complessivo pari ad euro 166.837,49 (centosessantaseimilaottocentotrentasette viggola quarantanove), dei quali euro 150.131,90 (centocinquantamilacentotrentunomila virgola novanta) dovuti per spese dei lavori ed euro 16.705,59 (sedicimilasettecentocinque virgola cinquantanove) dovuti per spese tecniche di progettazione e direzione dei lavori, somma per la quale l’impresa appaltatrice ha rilasciato alla società venditrice quietanza liberatoria’ .
La Corte di Appello ha affermato che la previsione pattizia di cui alla sopra richiamata lettera c) dell’art. 2 del contratto di compravendita intervenuto tra le parti avesse ad oggetto ‘… eventuali controversie che dovessero nascere con l’appaltatrice o con il progettista al momento del saldo finale dei lavori; trattasi, ovviamente, di controversie riguardanti eventuali pagamenti tenuto conto del richiamo, chiaro e preciso, al saldo finale, con esclusione dei differenti momenti riguardanti la consegna dell’opera ed eventuali collaudi. D’altro canto tale manleva si inserisce perfettamente nello stesso sinallagma contrattuale, in riferimento al quale, tra gli obblighi contrattuali della parte venditrice, vi era quello del pagamento all’appaltatrice non solo dei lavori già eseguiti ma anche di quelli ancora da eseguire sulla base di una ‘documentazione contabile finale’ per un costo totale di euro 166.837,49 di cui euro 16.705,59 dovuti per spese tecniche di progettazione e direzione, come risulta dall’art. 2 lett. b) del contratto di compravendita in oggetto, somme, tra l’altro, ben quantificabili sulla base della ripartizione delle competenze per ogni singolo appartamento condominiale elaborate dalla Regione Umbria, trattandosi di ristrutturazione successiva al terremoto del 1997. Ciò,
infatti, consente di affermare che la parte venditrice si era assunta l’obbligo di pagamento integrale a favore della società appaltatrice anche se i lavori erano ancora in corso, pagamento a fronte del quale la stessa aveva ricevuto ampia quietanza con la conseguenza che null’altro la predetta appaltatrice avrebbe potuto chiedere alla parte acquirente, con la quale, in sostanza, non aveva avuto rapporti’ (cfr . pagg. 5 e 6 della sentenza impugnata).
In tal modo, il giudice di seconde cure ha ritenuto che il riferimento, operato nella clausola in esame, al saldo finale dei lavori non costituisse un semplice riferimento temporale, bensì determinasse l’ambito della garanzia rilasciata dalla parte venditrice, la quale, in sostanza, si era impegnata soltanto a tenere indenne la parte acquirente da eventuali maggiori pretese economiche dell’appaltatore, rispetto a quanto già versato allo stesso dalla medesima venditrice.
Tale interpretazione, non implausible, viene attinta dalla parte ricorrente mediante la proposizione di una lettura alternativa della pattuizione in esame, senza tener conto del consolidato principio secondo cui l’opzione ermeneutica prescelta dalla Corte di Appello ‘… non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 28319 del 28/11/2017, Rv. 646649; conf. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 16987 del 27/06/2018, Rv. 649677; in precedenza, nello stesso senso, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 24539 del 20/11/2009, Rv. 610944 e Cass. Sez. L, Sentenza n. 25728 del 15/11/2013, Rv. 628585).
Con il terzo motivo, la ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e del travisamento della prova, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente interpretato le risultanze degli atti e delle prove acquisite al giudizio di merito, senza considerare il principio secondo cui il creditore deve soltanto provare il titolo del proprio diritto, essendo invece a carico del debitore la dimostrazione del fatto estintivo dell’obbligazione.
La censura è infondata, a fronte del rigetto dei primi due motivi.
Una volta ravvisata la non implausibilità della lettura della clausola pattizia di cui all’art. 2 del contratto di compravendita proposta dalla Corte di seconda istanza, infatti, non si configura alcuna violazione del criterio di riparto dell’onere della prova, poiché il giudice di merito non ha posto a carico di una parte un onere probatorio che sarebbe spettato alla parte avversa, ma si è limitato a seguire una interpretazione del dato negoziale in forza della quale la garanzia prestata dal venditore era limitata ai soli profili economici del corrispettivo spettante all’appaltatore, escludendo quindi che detta pattuizione comprendesse anche la mancata, incompleta o difettosa esecuzione delle opere.
Con il quarto motivo, inoltre, la ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione dell’art. 1183 c.c. ed il travisamento della prova, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché il giudice di appello avrebbe erroneamente ritenuto che la mancata previsione di un termine di ultimazione dei lavori di consolidamento e rifinitura dell’immobile compravenduto costituisse un indizio per escludere la fondatezza delle domande spiegate dalla Urbani.
La censura è inammissibile, in quanto non si confronta con la ratio della decisione. Come detto, la Corte di Appello ha offerto una
interpretazione della clausola di garanzia inserita dalle parti nel contratto di compravendita di cui è causa limitata al solo profilo economico di quanto spettante all’appaltatore a fronte delle opere da esso eseguite, e sulla scorta di tale non implausibile opzione ermeneutica ha rigettato la domanda della Urbani. La mancata previsione di un termine per il completamento delle opere di consolidamento e finitura oggetto dell’appalto, pur se rilevata dal giudice di merito, non costituisce la ratio della decisione, onde la ricorrente non ha alcun interesse specifico alla coltivazione del motivo di censura in esame.
Con il quinto ed ultimo motivo, infine, la ricorrente contesta la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c. e 2041 c.c., nonché il vizio della motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché la Corte territoriale avrebbe erroneamente escluso anche il riconoscimento dell’arricchimento senza causa, nonostante il fatto che la parte venditrice avesse conseguito il corrispettivo della compravendita, maggiorato del controvalore dei lavori che avrebbe dovuto eseguire sullo stesso e che, invece, non erano mai stati completati.
Il motivo è infondato.
La Corte di Appello ha esaminato la domanda ex art. 2041 c.c., rigettandola, ma non si è avveduta che la stessa, già respinta in prime cure, non era stata oggetto di specifico motivo di impugnazione. La parte appellante, odierna ricorrente, infatti, non aveva argomentato alcunché in atto di appello in relazione a tale domanda, limitandosi a riproporla soltanto nelle conclusioni finali. Va osservato, al riguardo, che la mancata riproposizione, in seconde cure, di una domanda rigettata dal Tribunale implica la formazione del giudicato interno su di
essa, con conseguente impossibilità di un suo esame da parte del giudice dell’impugnazione. Il vizio, oltre ad essere oggetto di eccezione da parte del controricorrente, è rilevabile da questa Corte perché esso attiene alla vicenda processuale, ed implica l’inammissibilità del motivo in esame, con il quale viene riproposta una domanda formulata in prime cure, ma non coltivata in appello mediante apposito motivo di gravame. Non è ostativo, al riguardo, il fatto che la Corte distrettuale, errando, si sia pronunciata nel merito della questione, poiché la Corte di Cassazione, come giudice del cd. fatto processuale, è sempre investita del potere-dovere di rilevare vizi incidenti sul corretto svolgimento della vicenda processuale, anche a prescindere dalla presenza di specifico motivo di impugnazione, con il solo limite del giudicato (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 13514 del 08/06/2007, Rv. 597820 e Cass. Sez. 1, Sentenza n. 19416 del 28/09/2004, Rv. 578428).
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P .R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore di quella controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 8.200, di cui € 200 per
esborsi, oltre rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda