Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 10434 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 10434 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 22/04/2025
ORDINANZA
R.G. 15180/2021
COGNOME
Rep.
C.C. 18/2/2025
C.C. 14/4/2022
CONTRATTO STIPULATO DAL MIPAAF.
D.LGS. N. 231 DEL 2002.
sul ricorso iscritto al n. 15180/2021 R.G. proposto da : MINISTERO DELLE POLITICHE AGRICOLE, ALIMENTARI E FORESTALI, rappresentato e difeso per legge dall’ AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO
-ricorrente-
Contro
RAGIONE_SOCIALE
-intimato- avverso la SENTENZA della CORTE D ‘ APPELLO di ROMA n. 2430/2021 depositata il 02/04/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con ricorso ai sensi dell’art. 702 -bis cod. proc. civ. la s.p.a. Ippodromo dei fiori convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali
(MIPAAF), chiedendo che fosse condannato al pagamento della somma di euro 68.122,05 a titolo di interessi moratori dovuti in base al d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, per il ritardato pagamento di alcune fatture emesse sulla base della convenzione stipulata in data 22 giugno 2006.
Si costituì in giudizio il convenuto, chiedendo il rigetto della domanda in base al rilievo principale per cui gli accordi conclusi tra il Ministero e le società di gestione delle corse dei cavalli non potevano essere inquadrati nella figura delle transazioni commerciali.
Il Tribunale accolse in parte la domanda (in conseguenza di una transazione parziale intercorsa tra le parti) e condannò il convenuto al pagamento della minore somma di euro 44.111,91, con il carico delle spese di giudizio.
La pronuncia è stata impugnata in via principale dal Ministero e in via incidentale dalla società RAGIONE_SOCIALE e la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 2 aprile 2021, ha rigettato entrambi gli appelli e ha compensato le spese del secondo grado di giudizio.
Ha osservato la Corte territoriale, per quanto di interesse in questa sede, che l’art. 3, comma 6, della scrittura privata firmata tra le parti il 22 giugno 2006 riconosceva espressamente alla società creditrice la spettanza degli interessi in misura legale «con decorrenza dalla scadenza del novantesimo giorno, in deroga a quanto previsto dall’art. 5 del d.lgs. n. 231 del 2002». Proprio in virtù dell’espressa previsione della deroga rispetto alla disciplina del citato d.lgs. circa il ritardo nei pagamenti, la Corte d’appello ha dedotto che le parti avessero «convenuto il rinvio formale al regime del saggio di riferimento di cui all’art. 5 del decreto stesso».
La sentenza ha poi ritenuto irrilevante il fatto che fossero stati pattuiti gli interessi in misura legale, «nulla precludendo alle parti di prevedere in via pattizia il saggio in parola, al di là dell’ipotesi
delle transazioni commerciali». E la natura pattizia di tali interessi toglieva rilievo alla difesa del Ministero secondo cui il ritardo aveva ad oggetto, piuttosto, ratei di finanziamento estranei alla previsione di legge.
Contro la sentenza della Corte d’appello di Roma propone ricorso il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali con atto affidato a due motivi.
La società intimata non ha svolto attività difensiva in questa sede.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 4 e 5 del d.lgs. n. 231 del 2002.
Il MIPAAF censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto applicabile alla fattispecie la normativa del d.lgs. n. 231 del 2002; la convenzione esistente tra le parti, infatti, denominata ‘contratto per la gestione degli impianti per i servizi relativi all’organizzazione delle corse e per l’attività di ripresa delle immagini televisive inerenti alle medesime corse’ non sarebbe sussumibile, secondo il ricorrente, nella categoria delle transazioni commerciali. Richiamando un parere reso dal Consiglio di Stato (n. 3951 del 2014), il ricorrente osserva che l’attività di organizzazione delle corse dei cavalli è «un’attività di pubblico interesse a favore della collettività»; ciò comporta che l’erogazione di somme in favore delle società che gestiscono detto servizio non dovrebbe essere considerata come pagamento di un prezzo, non assumendo la natura di corrispettivo in senso lato. La convenzione del 2006 richiamata nella sentenza impugnata, del resto, «stabilisce espressamente la non applicabilità della normativa de qua , confermando la tesi della non riconducibilità della convenzione stessa alla categoria delle transazioni commerciali».
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., nullità della sentenza per motivazione apparente.
Il MIPAAF pone questa censura in subordine, per l’eventualità in cui venga confermata l’applicabilità della disciplina di cui al d.lgs. n. 231 del 2002, e ricorda che l’art. 3, comma 6, della suindicata convenzione richiama espressamente il tasso degli interessi nella misura legale. Ciò premesso, il ricorrente osserva che l’art. 5 del d.lgs. n. 231 del 2002 nella sua originaria formulazione faceva salvo il diverso accordo tra le parti. La modifica è stata disposta col d.lgs. 9 novembre 2012, n. 192, non applicabile però nella specie, ratione temporis , poiché la normativa successiva si applica solo alle transazioni concluse a decorrere dal 1° gennaio 2013, per cui la previsione del citato art. 3, comma 6, dovrebbe «ritenersi vincolante». Ne consegue, secondo il ricorrente, che il tasso degli interessi applicabile sarebbe sempre quello legale. Sul punto, la sentenza conterrebbe una motivazione nulla, perché il richiamo alla previsione pattizia non spiegherebbe le ragioni della decisione.
La Corte ritiene che i due motivi, dato l’evidente vincolo che li unisce, debbano essere trattati congiuntamente, pur con le specificazioni che si renderanno necessarie per le diverse censure.
3.1. Occorre innanzitutto ricordare che, nel momento in cui venne stipulato il contratto di cui si parla (22 giugno 2006), il testo degli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 231 del 2002 era quello originario, successivamente modificato. L’art. 5 di quel testo prevedeva che, salvo diverso accordo tra le parti, il saggio degli interessi fosse determinato «in misura pari al saggio d’interesse del principale strumento di rifinanziamento della Banca centrale europea applicato alla sua più recente operazione di rifinanziamento principale effettuata il primo giorno di calendario del semestre in questione, maggiorato di sette punti percentuali». L’art. 4 disponeva che gli interessi decorressero automaticamente, dal
giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento, senza necessità di costituzione in mora, alla scadenza del termine legale, di regola fissato in trenta giorni (v. la sentenza 31 maggio 2019, n. 14911, e l’ordinanza 5 novembre 2024, n. 28413).
Successivamente, gli artt. 4 e 5 hanno subito varie modifiche; in particolare, l’art. 5 dispone ora (a seguito della modifica di cui al d.lgs. 9 novembre 2012, n. 192) che gli interessi moratori sono determinati nella misura degli interessi legali di mora e che nelle transazioni commerciali tra imprese «è consentito alle parti di concordare un tasso di interesse diverso, nei limiti previsti dall’articolo 7». Tale testo, però, non è applicabile nel caso in esame, perché la modifica suindicata è entrata in vigore a decorrere dal 1° gennaio 2013.
Da questa premessa si deduce che nella vicenda oggi in esame il meccanismo di computo degli interessi previsto dall’art. 5 cit. era derogabile ad iniziativa delle parti.
3.2. Detto questo, bisogna interpretare il senso della decisione impugnata la quale, pur non costituendo certamente un modello di chiarezza, consente tuttavia di comprendere il ragionamento seguito.
La clausola in questione, che è contenuta nell’art. 3, comma 6, del contratto di cui si discute, è testualmente del seguente tenore:
« La Società rinuncia espressamente, ora per allora, alla richiesta di eventuali interessi nel caso in cui il pagamento delle fatture emesse sia effettuato entro 90 (novanta) giorni dal ricevimento. In caso di ritardo superiore a 90 (novanta) giorni dal ricevimento della fattura emessa, la Società avrà la facoltà di richiedere all’UNIRE il pagamento degli interessi in misura legale, con decorrenza dalla scadenza del novantesimo giorno, in deroga a quanto previsto dall’art. 5 del d.lgs. n. 231/2002 ».
La Corte d’appello ha interpretato questa clausola come frutto di una libera scelta, concordata tra le parti, per l’applicazione
dell’art. 5 cit., nel testo allora vigente, con modalità leggermente diverse da quelle legali; cosa possibile proprio in base alla previsione che, come si è detto, consentiva alle parti di stipulare un diverso accordo. L’interpretazione resa dalla sentenza impugnata è nel senso che le parti avevano inteso rinviare il pagamento del saggio degli interessi stabilendone la decorrenza a partire dal novantesimo giorno successivo alla scadenza, anziché dal trentesimo (come voleva la regola generale dell’art. 4), salvo poi far ‘rivivere’, come libera scelta contrattualmente pattuita, il saggio degli interessi nella misura fissata dall’art. 5 cit., a decorrere però dalla diversa data suindicata, dietro apposita domanda formulata dalla società creditrice, consentendo quindi al debitore di godere di un regime di maggiore favore. Secondo la sentenza impugnata, cioè, la deroga all’art. 5 valeva solo per la decorrenza (spostata in avanti, al novantesimo giorno) degli interessi, ma non per la loro quantificazione, che rimaneva quella del d.lgs. n. 231 del 2002 (il saggio di interessi aumentato di sette punti). È questo il senso della frase, contenuta nella sentenza qui in esame, secondo cui la deroga alla disciplina del d.lgs. n. 231 del 2022 dimostra che le parti avevano convenuto il rinvio formale all’art. 5, senza che in senso contrario potesse valere il richiamo al saggio degli interessi in misura legale , trattandosi di una decisione assunta in via pattizia «al di là delle ipotesi delle transazioni commerciali», per i cui corrispettivi «è prevista la decorrenza ex lege degli interessi in parola».
L’interpretazione della clausola contrattuale stabilita dalla Corte di merito -pur non essendo l’unica possibile e pur potendo, in astratto, essere criticabile -non può essere sovvertita nella presente sede di legittimità, perché la giurisprudenza di questa Corte è pacifica nel senso che il ricorrente non può chiedere di sostituire all’interpretazione resa dal giudice di merito una diversa interpretazione che sia a lui più favorevole.
3.3. Così correttamente impostati i termini della questione, il primo motivo di ricorso, ove non inammissibile, è comunque privo di fondamento.
Ed infatti -fermo restando che il richiamo alla sentenza del Consiglio di Stato contenuto nel primo motivo è palesemente improprio, perché nel caso in esame si è in presenza di una clausola convenzionale e di un accordo definito espressamente come contratto -la censura ivi contenuta dimostra di non cogliere la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale ha ritenuto che l’applicazione dell’art. 5 del d.lgs. n. 231 del 2002 fosse frutto di una libera determinazione delle parti, e non della riconducibilità del contratto alla figura della transazione commerciale.
Il successivo passaggio della motivazione della Corte d’appello (inizio di p. 4), d’altra parte, dimostra anche il perché non sia condivisibile la tesi del Consiglio di Stato di ricondurre gli accordi come quello qui in esame nell’ambito delle sovvenzioni che il soggetto pubblico si impegna a trasferire nel contesto di un rapporto di natura pubblicistica, atteso l’evidente richiamo, nell’atto in questione, allo strumento contrattuale nel quale il pagamento delle somme dovute assume l’evidente carattere di un corrispettivo.
3.4. Dichiarato infondato il primo motivo, il secondo motivo ne risulta conseguentemente inammissibile.
Si deve rilevare, innanzitutto, che la censura contenuta alla p. 12 del ricorso sembra, in apparenza, rivolta contro la sentenza del Tribunale, anche se la parte della motivazione ivi trascritta è quella della Corte d’appello (pare, quindi, un evidente lapsus della parte ricorrente). Ma comunque, anche volendo trascurare questa imprecisione, è evidente che le argomentazioni del secondo motivo non colgono la ratio decidendi della sentenza impugnata, il cui fondamento è stato illustrato esaminando le censure del primo motivo. Qualora, invece, la parte ricorrente intendesse, col secondo
motivo, porre una censura di omessa pronuncia, è palese che avrebbe dovuto formularla in modo più chiaro, lamentando la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e non invocando una generica e inesistente nullità per apparenza della motivazione.
4. Il ricorso, pertanto, è rigettato.
Non occorre provvedere sulle spese, atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte della società intimata.
Non sussistono le condizioni processuali per il raddoppio del contributo unificato, essendo il ricorrente una parte pubblica.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza