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Interesse ad impugnare: quando il liquidatore può agire

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un liquidatore che impugnava la dichiarazione di fallimento della società agendo anche in proprio. È stato ribadito che l’interesse ad impugnare deve essere concreto, attuale e personale, non un generico auspicio al ritorno in bonis della società. La Corte ha inoltre confermato che, ai fini della dichiarazione di fallimento, possono essere considerati anche debiti non accertati in via definitiva, come quelli tributari oggetto di contenzioso.

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Interesse ad impugnare: quando il liquidatore può agire in proprio?

La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, torna a pronunciarsi su un principio fondamentale del diritto processuale: l’interesse ad impugnare. Il caso specifico riguarda la legittimazione di un liquidatore di una società a responsabilità limitata a contestare la dichiarazione di fallimento non solo in qualità di rappresentante legale della società, ma anche a titolo personale. La decisione chiarisce i confini tra l’interesse della società e quello personale dell’organo amministrativo, ribadendo la necessità di un pregiudizio concreto e attuale.

Il caso: il doppio ruolo del liquidatore nel reclamo fallimentare

Una società a responsabilità limitata veniva dichiarata fallita su istanza di una società creditrice. La Corte d’Appello respingeva il reclamo proposto avverso la sentenza di fallimento. A presentare il reclamo era stato il liquidatore della società, il quale agiva in una duplice veste: come legale rappresentante della società fallita e in proprio. La Corte territoriale dichiarava inammissibile l’intervento del liquidatore a titolo personale, ritenendo che non avesse giustificato le ragioni di un suo interesse diretto e distinto da quello della società che rappresentava.

Contro questa decisione, il liquidatore proponeva ricorso per cassazione, lamentando due principali violazioni di legge:
1. Errata dichiarazione di inammissibilità del suo intervento personale: Sosteneva di avere un interesse personale, in qualità di socio, a vedere la società tornare in bonis, evitando così gli effetti pregiudizievoli, anche solo potenziali, del fallimento.
2. Errata valutazione dei presupposti del fallimento: Contestava l’ammontare dei debiti considerati dalla Corte d’Appello, in particolare un credito commerciale e un ingente debito tributario non ancora definitivo, e lamentava una motivazione carente sull’effettivo stato di insolvenza.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile in ogni sua parte, confermando la decisione della Corte d’Appello. La pronuncia si articola su due pilastri argomentativi: la nozione di interesse ad impugnare e i criteri per la valutazione dello stato di insolvenza.

Interesse ad impugnare: un requisito concreto e attuale

La Corte ha rigettato il primo motivo di ricorso, chiarendo che l’interesse ad impugnare, richiesto dall’art. 100 c.p.c., deve essere concreto e attuale. Non è sufficiente un interesse generico o potenziale. Il liquidatore, agendo in proprio, non aveva allegato alcun pregiudizio specifico e personale che avrebbe subito dalla sentenza di fallimento, distinto da quello che colpiva la società.

I giudici hanno specificato che la mera speranza di un “ritorno in bonis” della società, per poterla gestire e chiudere, non costituisce un interesse giuridicamente rilevante che legittimi un’azione personale. Tale interesse era già pienamente tutelato dall’impugnazione proposta in qualità di legale rappresentante della società. La Corte ha ricordato che, sebbene “qualunque interessato” possa impugnare la dichiarazione di fallimento, deve comunque dimostrare di poter ricevere un pregiudizio specifico, anche solo morale (come nel caso di un ex amministratore esposto ad azioni di responsabilità o a procedimenti penali), ma questo va allegato e provato. Nel caso di specie, il liquidatore si era limitato ad addurre genericamente la sua qualità di socio, senza prospettare alcun interesse concreto e attuale.

I presupposti dell’insolvenza e il valore dei debiti non definitivi

Anche il secondo motivo è stato ritenuto manifestamente infondato. La Cassazione ha ribadito un principio consolidato in materia fallimentare: ai fini del computo dell’esposizione debitoria per la dichiarazione di fallimento, non è necessario che i crediti siano accertati con sentenza passata in giudicato. Sono rilevanti anche i debiti contestati o quelli derivanti da accertamenti fiscali non ancora definitivi.

La Corte d’Appello aveva correttamente considerato sia un debito commerciale superiore alla soglia di legge, sia un ingente debito verso l’erario, accertato con sentenza non definitiva della Commissione Tributaria. Tale accertamento, sebbene non irrevocabile, è stato ritenuto sufficiente a integrare il presupposto di legge per la dichiarazione di fallimento. Le ulteriori censure del ricorrente, relative alla mancata produzione degli ultimi bilanci o a una generica richiesta di valutazione di altre prove, sono state qualificate come un tentativo di ottenere un riesame del merito, inammissibile in sede di legittimità.

Le conclusioni

L’ordinanza in esame offre due importanti lezioni pratiche. In primo luogo, consolida l’interpretazione rigorosa del requisito dell’interesse ad impugnare: chi intende agire in giudizio a titolo personale deve dimostrare di poter ottenere un’utilità giuridica concreta e attuale dalla pronuncia richiesta, non potendo basarsi su mere aspettative o interessi generici. Per un liquidatore o un amministratore, questo significa dover allegare un pregiudizio personale specifico (ad esempio, il rischio di un’azione di responsabilità), distinto dall’interesse generale della società. In secondo luogo, conferma che la valutazione dello stato di insolvenza si basa su una visione pragmatica della situazione debitoria dell’impresa, includendo anche passività non ancora accertate in via definitiva, purché supportate da elementi oggettivi come una sentenza di primo grado o un avviso di accertamento fiscale.

Un liquidatore di società può impugnare personalmente la dichiarazione di fallimento?
Sì, ma solo se dimostra di avere un interesse personale, concreto e attuale alla rimozione della sentenza. Non è sufficiente l’interesse generico a che la società torni in una condizione di normale operatività, poiché tale interesse è già tutelato dall’impugnazione proposta in qualità di legale rappresentante della società. Deve allegare un pregiudizio specifico che lo colpirebbe personalmente (es. rischio di azioni di responsabilità).

Per dichiarare il fallimento di una società, i suoi debiti devono essere accertati con una sentenza definitiva?
No. Ai fini della valutazione dello stato di insolvenza e del superamento della soglia debitoria minima, la giurisprudenza consolidata afferma che rilevano anche i debiti non ancora accertati in via definitiva, come quelli che sono oggetto di contestazione o quelli derivanti da accertamenti fiscali confermati da sentenze non ancora passate in giudicato.

Quali sono le conseguenze se un ricorso in Cassazione viene dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza?
Oltre alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso, il ricorrente può essere condannato al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende per abuso del processo. Inoltre, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello già dovuto per il ricorso.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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