Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 10805 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 10805 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 24/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 19112/2021 R.G., proposto da
COGNOME NOME e NOME , rappresentati e difesi dall’avv. NOME COGNOME domiciliati ex lege come da indirizzo pec indicato,
–
ricorrenti –
contro
COGNOME NOME e COGNOME NOME , rappresentati e difesi dall’avv. M. NOME COGNOME domiciliati ex lege come da indirizzo pec indicato,
-controricorrenti
–
per la cassazione della sentenza n. 316/2021 della CORTE d’APPELLO di Lecce pubblicata il 17.3.2021;
udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 21.1.2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME eredi di NOME COGNOME convennero dinanzi al Tribunale di Brindisi – sez. dist. di
Occupazione sine titulo
Francavilla Fontana Vittoria e NOME COGNOME per sentirli condannare al pagamento dell’indennità/corrispettivo per la disponibilità esclusiva dell’immobile sito in Ceglie Messapica, alla INDIRIZZO destinato ad uso commerciale, di cui il dante causa era comproprietario per 1/3 iure hereditatis in successione dal padre NOME, deceduto il 18.12.1996. I convenuti si costituirono eccependo l’improcedibilità del giudizio per il mancato esperimento della mediazione, la nullità dell’atto di citazione p er indeterminatezza della domanda e il difetto di legittimazione di NOME COGNOME contestando nel merito la domanda svolta.
Con sentenza pubblicata il 31.7.2017 il Tribunale di Brindisi – sez. dist. di Francavilla Fontana accolse la domanda e condannò i convenuti al pagamento di euro 270 al mese a decorrere dal 28.6.2010, compensando le spese di lite per 1/3.
La Corte d’Appello di Lecce con sentenza n. 316/2021, pubblicata il 17.3.2021, in accoglimento dell’appello proposto da NOME e NOME COGNOME assorbito l’appello incidentale svolto da NOME COGNOME NOME e NOME COGNOME riformò la sentenza impugnata, rigettando la domanda svolta dagli attori, gravandoli delle spese di lite di entrambi i gradi di giudizio.
Avendo il primo giudice sostenuto essere non contestato fra le parti «in forza di intese in sede processuale» che NOME e NOME COGNOME avevano avuto il godimento esclusivo dell’immobile, sito in INDIRIZZO di Ceglie Messapica, che la comproprietà di tale immobile spettava per 1/3 agli eredi di NOME COGNOME, e che gli attori non avevano ricevuto alcun indennizzo da parte dei convenuti, rilevò la Corte d’appello che l’indennizzo ex art. 1102 cod. civ. mira a perequare la posizione del comproprietario escluso dal godimento del bene comune, reintegrandolo per il mancato godimento. Era, tuttavia, dirimente che: a) il godimento del bene da parte di NOME e NOME COGNOME era avvenuto sin dal 1982 in base ad un contratto di comodato intervenuto con il padre; b) l’indennizzo per l’occupazione dell’immobile è dovuto dal comproprietario, che ne faccia uso esclusivo, solo quando altro comproprietario abbia manifestato l’intenzione di utilizzare il bene in maniera diretta.
In relazione al primo profilo era passata in giudicato la sentenza n. 615/2014 resa dalla Corte d’appello di Lecce relativa al giudizio di divisione ereditaria, sulla base della quale era emerso che il bene era stato concesso in uso alla figlia ed al genero dal padre della prima per lo svolgimento della loro attività commerciale. L’esistenza del predetto comodato , peraltro non contestato, era incompatibile con la pretesa del pagamento dell’indennizzo ex art. 1102 cod. civ. data la gratuità del primo. Né a ciò ostava l’interv enuto decesso di NOME COGNOME. Infatti, la morte del comodante non modifica il rapporto con la res , perché in caso di cessazione del contratto di comodato per morte del comodante e di mantenimento del potere di fatto sulla cosa da parte del comodatario, il rapporto, in assenza di una espressa richiesta di rilascio da parte degli eredi del comodante, si intende proseguito con le medesime caratteristiche e gli obblighi iniziali anche rispetto ai successori. Tanto più, osservò la corte incidentalmente, che in forza della attuata divisione il bene in questione era stato attribuito in proprietà esclusiva a NOME COGNOME a far data dall’apertura della successione , sì che non lo si sarebbe potuto ritenere come un bene comune dei coeredi.
In ogni caso, anche a voler riguardare la questione nell’ottica dell’art. 1102 cod. civ., notò la Corte d’appello che l’indennizzo non era comunque dovuto , perché nessuno dei comproprietari, e segnatamente gli appellati, quali eredi di NOME COGNOME, aveva mai manifestato l’intenzione di utilizzare il bene in maniera diretta e che questo non fosse stato concesso. Gli appellati mai avevano manifestato detta intenzione, ossia non avevano chiesto di rientrare in possesso del bene, ma avevano avanzato solamente la pretesa al pagamento dell’indennizzo.
Per la cassazione della sentenza della Corte ricorrono NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME sulla base di cinque motivi. Rispondono con controricorso NOME e NOME COGNOME.
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, ai sensi dell’art.380bis .1. cod. proc. civ..
Il Pubblico Ministero presso la Corte non ha presentato conclusioni scritte. NOME e NOME COGNOME hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. nonché degli artt. 1102, 1803 e 1021 cod. civ.
I ricorrenti lamentano che la Corte d’appello sia pervenuta alla riforma della sentenza di primo grado in base ad un preteso contratto di comodato giustificante il godimento esclusivo del bene s ulla base dell’ erronea attribuzione dell’esistenza di tale circostanza nell’illustrazione dei motivi dell’appello principale. Per converso, nell’atto di appello (pagina 5) era stato precisato che NOME COGNOME era già in possesso del bene in base ad un diritto d’uso (regolato dall’art. 1021 cod. civ.) concesso dal padre quindici anni prima, mentre nella comparsa di costituzione in primo grado i convenuti avevano dedotto di possedere l’immobile ‘in esplicazione del diritto di comproprietà sul bene comune’. Dalla qualificazione da parte della Corte d’appello , invece, discendevano conseguenze esiziali per la domanda attorea, quali la gratuità del godimento e la perduranza di esso anche dopo la morte del preteso comodante.
Con il secondo motivo viene denunciata , ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 101 e 183 cod. proc. civ.
La Corte d’appello , si dolgono i ricorrenti, nel qualificare d’ufficio il titolo del godimento sulla base di un contratto di comodato ha violato l’obbligo previsto dall’art. 101 cod. proc. civ. di leale collaborazione, dovendo il giudice, anche in sede di appello, indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio di cui ritenga opportuna la trattazione.
I due motivi, in quanto strettamente connessi possono essere esaminati congiuntamente, e sono entrambi inammissibili.
La Corte d’appello , nel riferire del tenore del secondo motivo di impugnazione, dice espressamente che in esso si dedusse che il bene era oggetto di comodato ‘ come provato sulla base della dichiarazione dei redditi del 1990 a firma di NOME NOME (che indica il bene come «a disposizione») e della relazione di C.T.U. del giudizio di divisione ereditaria, documenti che però il tribunale non
ha esaminato’ (pag ina 3 della sentenza). N e segue che l’assunto che , invece, il motivo avesse dedotto la sussistenza di un diritto di uso, come si sostiene nel motivo, contraddicendo la detta affermazione ricognitiva del tenore del motivo, deduce un errore su un fatto processuale, che avrebbe dovuto essere oggetto semmai di revoc azione ai sensi del n. 4 dell’art. 395 cod. proc. civ.
L’inammissibilità del primo motivo comporta di riflesso quella del secondo. 4. Con il terzo motivo viene denunciata, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 e n.4, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1102 cod. civ. e 115 cod. proc. civ. , nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ.
I ricorrenti si dolgono per aver escluso la Corte d’appello i presupposti per il riconoscimento dell’in dennizzo ex art. 1102 cod. civ., non avendo i comproprietari mai richiesto di utilizzare direttamente il bene comune. Intenzione non ravvisabile neppure nella missiva del 28.6.2010.
Osservano i ricorrenti che la Corte d’appello aveva trascurato che l’immobile formato da un unico vano di ridotte dimensioni (mq 26,53) non lo si sarebbe potuto utilizzare congiuntamente da più comproprietari, ma era compreso all’interno di un più ampio complesso immobiliare dove era esercitata una attività commerciale. Le ridotte dimensioni ostavano la possibilità di godere direttamente del bene, ma non di trarre la quota di frutti civili. Ad ogni modo: a) la missiva del 28.6.2010 era idonea ad esprimere la volontà di partecipare ai benefici derivanti dalla comunione, sia pure nella forma della partecipazione ai frutti civili; b) nell’ambito del giudizio di divisione i ricorrenti avevano chiesto l’assegnazione del bene.
4.1. Il motivo è inammissibile.
I ricorrenti prospettano la violazione dell’art. 1102 cod. civ. da parte della Corte d’appello – peraltro non in via diretta, ma come conseguenza della violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. e dell’omesso esame dei profili sopra indicati – nella parte in cui si è ritenuto che non avrebbero mai manifestato
l’intenzione di utilizzare il bene in via diretta ricevendone il diniego da parte di NOME COGNOME.
Ora, la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. non è nemmeno argomentata, dato che nessun riferimento a tale norma si fa nell’illustrazione del motivo. Se si volesse ravvisarsene la spiegazione nei tre profili che si imputa alla corte di non avere esaminato, sarebbe palese che la violazione del 115 cod. proc. civ. risulterebbe dedotta senza rispettare i criteri indicati a suo tempo da questa Corte nella sentenza n. 11892 del 2016. Nell’ambito di un ricorso per cassazione , infatti, per dedurre la violazione del paradigma dell’articolo 115 cod. proc. civ. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma (il principio di diritto di cui alla citata decisione venne ribadito anche da Cass., sez. un., 5 agosto 2016, n. 16598, in motivazione espressa, sebbene non massimata sul punto; adde , ex multis : Cass., VI-3, 23 ottobre 2018, n. 26769; sez. lav., 19 agosto 2020, n. 17313; ed ancora Cass., Sez. Un., n. 20867 del 2020). Ciò significa che per realizzare la violazione deve aver giudicato, o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso articolo 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’articolo 116 c.p.c., rubricato per l’appunto “valutazione delle prove” (Cass. 10 giugno 2016, n. 11892).
4.2. Il motivo si presta ad un secondo rilievo di inammissibilità ai sensi dell’art. 366, comma primo, n. 4, cod. proc. civ. per difetto di specificità.
I ricorrenti non si sono confrontati con l ‘intera ratio decidendi enunciata dalla Corte d’appello , là dove si legge: ‘Presupposto per il pagamento
dell’indennità in scrutinio è che un comproprietario abbia escluso gli altri dall’utilizzo e che il comproprietario escluso abbia richiesto di utilizzare il bene comune. Ne consegue che colui che utilizza in via esclusiva il bene comune non è tenuto, in via di principio, a corrispondere alcunché al comproprietario proindiviso , che risulti inerte’. Affermazione, quest’ultima, effettuata sulla base del richiamo di Cass., sez. II, 9 febbraio 2015, n. 2423 (cui adde , Cass., sez. II, 20 gennaio 2022, n. 1738).
I ricorrenti, pertanto, hanno prospettato la censura in termini non aderenti alla sentenza impugnata, di qui l’inammissibilità del motivo dovendosi senz’altro dare seguito ai consolidati principi di diritto, in base ai quali ‘La proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al «decisum» della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366, comma primo, n.4, cod. proc. civ., con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio» (v. Cass., sez. 6-I, 7 settembre 2017, n. 20910; in motivazione, Cass., sez. un., 20 marzo 2017, n. 7074; sez. 6-III, 3 luglio 2020, n. 13735).
4.3. Il motivo, altresì, è inammissibile nella parte in cui prospetta la violazione dell’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ.
Quand’anche si volesse ipotizzare che il fatto omesso sia la ridotta estensione del bene, il vizio in esame nella sua attuale formulazione presuppone la sussistenza di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, non considerato dal giudice del gravame. I ricorrenti non indicano un fatto, ossia un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico -naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate (e in tal senso va inteso, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, v., tra le molte, Cass., sez. VI-1, ord., 26 gennaio 2022, n. 2268, il fatto cui fa riferimento il n. 5 dell’art. 360 come novellato).
La giurisprudenza di questa Corte, con indirizzo ormai unanime, ha chiarito come non rientrino nella nozione di fatto: (a) le argomentazioni o deduzioni
difensive; (b) gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti; (c) una moltitudine di fatti e circostanze o il vario insieme dei materiali di causa (v. Cass. civ., sez. I, ord., 29 febbraio 2024, n. 5375; Cass., sez. V, ord., 23 febbraio 2024, n. 4942; Cass., sez. III, ord., 15 febbraio 2024, n. 4163; Cass., sez. lav., ord., 22 gennaio 2024, n. 2226; Cass., sez. III, ord., 14 dicembre 2023, n. 35106). Da questo punto vista, pertanto, non avendo i ricorrenti indicato il fatto decisivo pretermesso, tale intendendosi un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo), od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale, v. Cass. 24 gennaio 2020, n. 12387; 16 gennaio 2020, n. 791; 8 settembre 2016, n. 1776; 26 luglio 2017, n. 18391.), nei sensi sopra precisati, il motivo si configura come inammissibile in quanto piega verso un riesame del merito della decisione ben al di là del possibile controllo della motivazione limitato entro il «minimo costituzionale» ammesso dalle Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass. civ., sez. un., 7 aprile 2014, nn. 8053/8054 ‘ è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; tale anomalia si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza» della motivazione’ ), posto che le ridotte dimensioni del bene sono state evocate a confutazione della possibilità di chiederne l’utilizzo diretto.
4.4. Da ultimo, il motivo è inammissibile poiché verte su una questione non menzionata nella sentenza impugnata.
Secondo un indirizzo costante di questa Corte (v., indicativamente, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. 1° luglio 2024, n. 18018; Sez. Un., 29 gennaio
2024, n. 2607; 17 febbraio 2023, n. 5131; 23 settembre 2021, n. 25909; 24 gennaio 2019, n. 2038; 13 giugno 2018, n. 15430; 28 luglio 2008, n. 20518), qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorso deve, a pena di inammissibilità, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto in virtù del principio di autosufficienza del ricorso. I motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito né rilevabili d’ufficio (v. Cass. 13 dicembre 2019, n. 32804; 24 gennaio 2019, n. 2038; 9 agosto 2018, n. 20694; 18 ottobre 2013, n. 23675). In quest’ottica, la parte ricorrente ha l’onere -nella specie rimasto assolutamente inadempiuto -di riportare, a pena d’inammissibilità, dettagliatamente in ricorso gli esatti termini della questione posta in primo e secondo grado (cfr. Cass. 10 maggio 2005, n. 9765; 12 settembre 2000, n. 12025). Nel giudizio di cassazione, infatti, è preclusa alle parti la prospettazione di nuovi questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito (v. Cass. 13 settembre 2007, n. 19164; 9 luglio 2013, n. 17041; 25 ottobre 2017, n. 25319; 20 maggio 2018, n. 20712; 6 giugno 2018, n. 14477).
Nella specie, essendo la prospettazione delle ridotte dimensioni del bene basata su circostanze fattuali, è palese che si sarebbe dovuto indicare se e dove le tre circostanze evocate erano state oggetto di argomentazione, non bastando la sola indicazione del luogo di produzione documentale da cui sarebbero risultate.
Con il quarto motivo viene denunciata , ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 e n.4, cod. proc. civ., la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ.
La Corte d’appello ha affermato che in base all’assegnazione in sede di divisione ereditaria del bene a NOME COGNOME questa era divenuta proprietaria in
via esclusiva a far data dall’apertura della successione, così da escludere che il bene potesse essere considerato come bene comune dei coeredi. Così decidendo la Corte d’appello avrebbe violato il principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, poiché i convenuti non avevano mai contestata l’esistenza di una comunione ereditaria.
Con il quinto motivo viene denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 e n.4, cod. proc. civ. la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 101 e 183 cod. proc. civ.
I ricorrenti, richiamata la deduzione svolta nel quarto motivo, si dolgono per aver deciso la corte sulla base di una ‘innovativa e ribaltante’ tematica senza instaurare previamente il contraddittorio.
I due motivi, esaminati gradatamente, sono entrambi inammissibili.
7.1 Il quarto motivo è inammissibile, dato che gli stessi ricorrenti non reputano quanto oggetto di impugnazione alla stregua di una ratio decidendi (‘Sia pure incidenter tantum e fugacemente, senza porre il relativo rilievo a base del proprio decidere …’, pagina 12 del ricorso) e considerato che effettivamente l’affermazione censurata è tale: invero l’espressione ‘in disparte’ , riportata a pagina 6 della motivazione, evidenzia che la Corte d’appello non ha fatto la proclamazione di una ratio decidendi .
L’inammissibilità del quarto motivo comporta anche quella conseguente del quinto motivo.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, a carico dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13 (Cass., sez. un., 20 febbraio 2020, n. 4315).
La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, in favore dei controricorrenti, che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso forfetario del 15%, Iva e cpa come per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Terza sezione civile della Corte