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Indennità di occupazione: quando non è dovuta

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 1314/2024, ha stabilito che il comproprietario che cede a terzi il proprio diritto di usufrutto su un immobile rinuncia volontariamente al godimento del bene. Di conseguenza, non può richiedere l’indennità di occupazione all’altro comproprietario che lo utilizza in via esclusiva. La Corte ha inoltre chiarito che la proposizione di una domanda riconvenzionale per la divisione dei frutti civili di altri beni comuni è sufficiente a manifestare il dissenso verso l’uso esclusivo da parte dell’altro contitolare.

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Indennità di occupazione e usufrutto: quando il comproprietario non ha diritto al risarcimento?

La gestione dei beni in comproprietà, specialmente a seguito di una separazione, è spesso fonte di complesse questioni legali. Una delle più frequenti riguarda il diritto all’indennità di occupazione, ovvero il compenso spettante al comproprietario che non gode del bene a causa dell’utilizzo esclusivo da parte dell’altro. L’ordinanza n. 1314/2024 della Corte di Cassazione offre un importante chiarimento su un caso specifico: cosa accade se il comproprietario che reclama l’indennità ha precedentemente ceduto a terzi il proprio diritto di usufrutto? Approfondiamo i contorni di questa decisione.

I Fatti di Causa: una controversia tra ex coniugi

La vicenda trae origine dalla richiesta di un ex marito nei confronti della sua ex moglie. L’uomo chiedeva la condanna della donna al pagamento di una quota del valore locativo di un immobile in comproprietà, situato a Gravina di Catania, a titolo di risarcimento per il mancato godimento del bene. La ex moglie, costituendosi in giudizio, non solo si opponeva alla richiesta, ma presentava una domanda riconvenzionale: chiedeva a sua volta il pagamento di una quota dei valori locativi di altri immobili in comune, i cui frutti civili erano stati percepiti esclusivamente dall’ex marito sin dal 2005.

Il Tribunale di primo grado rigettava entrambe le domande. La Corte d’Appello, invece, riformava la decisione: respingeva l’appello dell’uomo e accoglieva quello della donna, condannando il primo al pagamento di oltre 21.000 euro.

La questione dell’indennità di occupazione e la cessione dell’usufrutto

Il fulcro della decisione della Corte d’Appello, poi confermata in Cassazione, ruota attorno a una scrittura privata del 1987. Con tale atto, l’ex marito aveva ceduto la sua quota di usufrutto sull’immobile in questione alla propria madre. Secondo i giudici, questa cessione è stata determinante per escludere il suo diritto all’indennità di occupazione.

Al contrario, la domanda della donna è stata accolta perché era pacifico che l’ex marito avesse concesso in locazione o comodato altri beni comuni, escludendola dalla percezione dei relativi frutti. La sua domanda riconvenzionale è stata interpretata come una chiara manifestazione di dissenso, idonea a fondare il suo diritto a una quota dei proventi.

Il ricorso in Cassazione: i motivi di doglianza

L’ex marito ha impugnato la sentenza d’appello dinanzi alla Corte di Cassazione, basando il suo ricorso su quattro motivi principali.

Il primo motivo: Cessione dell’usufrutto e rinuncia al godimento

Il ricorrente sosteneva che, nonostante la cessione dell’usufrutto alla madre, egli non avesse perso il diritto all’indennizzo, poiché l’ordinamento tutela il mancato godimento anche solo potenziale del bene. La Cassazione ha ritenuto il motivo infondato. Il contenuto tipico del diritto di usufrutto (art. 981 c.c.) è proprio la facoltà di godere della cosa e di trarne ogni utilità, compresi i frutti. Cedendo tale diritto, il comproprietario si è volontariamente e spontaneamente spogliato delle facoltà dominicali di percepire i frutti e di possedere il bene. Non si tratta di una “privazione del godimento” subita, ma di una rinuncia volontaria che esclude alla radice il presupposto per l’indennità di occupazione.

Il secondo motivo: la domanda riconvenzionale come dissenso

L’uomo lamentava che la Corte d’Appello avesse accolto la domanda della ex moglie senza accertare un suo preventivo dissenso all’utilizzo esclusivo degli altri immobili. Anche questo motivo è stato giudicato infondato. Gli Ermellini hanno chiarito che la proposizione della domanda riconvenzionale in giudizio costituisce l’atto formale con cui il comproprietario escluso chiede la liquidazione della propria quota di frutti civili. Tale atto è di per sé sufficiente a superare qualsiasi presunzione di acquiescenza precedente, rendendo irrilevante la mancanza di una precedente manifestazione di dissenso.

Le Motivazioni della Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso. Sottolinea due principi fondamentali. Primo: la cessione del diritto di usufrutto equivale a una rinuncia volontaria al godimento del bene. Chi compie tale atto non può poi lamentare una “privazione” e chiedere un indennizzo, perché è stato lui stesso a disporre del proprio diritto. Secondo: la richiesta giudiziale di ottenere la propria parte dei frutti di un bene comune è la più forte e chiara manifestazione di volontà contraria all’uso esclusivo altrui. Non è necessario dimostrare un dissenso espresso in precedenza; la domanda in tribunale è sufficiente a fondare il diritto.

Infine, la Corte ha dichiarato inammissibili il terzo e il quarto motivo del ricorso, con cui si contestava la valutazione delle prove (in particolare di una perizia tecnica). La Cassazione ha ribadito che il suo ruolo non è quello di riesaminare il merito della causa o di rivalutare le prove, compito che spetta esclusivamente ai giudici dei gradi precedenti.

Conclusioni

Questa ordinanza offre spunti pratici di grande rilevanza per chi si trova a gestire immobili in comproprietà. In primo luogo, chi cede il proprio usufrutto deve essere consapevole che, con tale atto, rinuncia anche a eventuali pretese economiche future legate al mancato godimento del bene, come l’indennità di occupazione. In secondo luogo, il comproprietario escluso dal godimento di un bene comune non deve necessariamente inviare diffide formali per far valere i propri diritti: la proposizione di una domanda giudiziale è un atto pienamente idoneo a interrompere l’acquiescenza e a richiedere la propria quota di frutti.

Se un comproprietario cede l’usufrutto della sua quota a un’altra persona, può comunque chiedere l’indennità di occupazione all’altro comproprietario che usa il bene in via esclusiva?
No. Secondo la Corte di Cassazione, la cessione del diritto di usufrutto costituisce una spontanea rinuncia alla facoltà di godere del bene e di percepirne i frutti. Pertanto, viene meno il presupposto stesso della “privazione del godimento” che giustificherebbe una richiesta di indennizzo.

Come può un comproprietario, che non usa un bene comune, manifestare il proprio dissenso verso l’uso esclusivo da parte dell’altro per ottenere la propria quota di frutti civili?
È sufficiente proporre una domanda giudiziale, anche in via riconvenzionale all’interno di un altro giudizio. Tale atto è considerato una manifestazione formale e inequivocabile della volontà di non tollerare oltre l’uso esclusivo altrui e di voler ottenere la liquidazione della propria quota di frutti, superando ogni precedente presunzione di acquiescenza.

La Corte di Cassazione può riesaminare la valutazione delle prove, come una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU), fatta dal giudice di merito?
No, di regola la Corte di Cassazione non può riesaminare le prove e la valutazione dei fatti compiuta dai giudici di primo e secondo grado. Il suo compito è un controllo di legittimità sulla corretta applicazione delle norme di diritto e sulla logicità della motivazione, non una nuova valutazione del merito della controversia.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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