Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 21827 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 21827 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 29/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14117/2023 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME e dall’Avv. Prof. NOME COGNOME che hanno indicato i seguenti indirizzi di posta elettronica certificata: e
;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME che ha indicato il seguente indirizzo di posta elettronica certificata:
;
-controricorrente e ricorrente incidentale –
MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, in persona del Mini-
stro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha indicato il seguente indirizzo di posta elettronica certificata:
;
-controricorrente e ricorrente incidentale -avverso l’ordinanza della Corte d’appello di Brescia n. 326/23, depositata il 10 febbraio 2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’11 marzo 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. La RAGIONE_SOCIALE convenne in giudizio l’RAGIONE_SOCIALE e il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, per sentir determinare l’indennità dovuta per l’occupazione d’urgenza di un’area della superficie di 35.625 mq. sita nei Comuni di Poncarale e San Zeno Naviglio e riportata in Catasto al foglio 1, particelle 31, 32 e 33, per il periodo compreso tra il 2 agosto 2007 e il 10 novembre 2012, o in subordine per il periodo compreso tra il 1° ottobre 2011 e il 10 novembre 2012.
A sostegno della domanda, riferì che l’occupazione, disposta con decreto del 20 giugno 2007 per la realizzazione del raccordo autostradale tra il casello di Ospitaletto, il nuovo casello di Poncarale e l’aeroporto di Montichiari, aveva avuto luogo in virtù del provvedimento n. 24/05 del CIPE, con cui era stata dichiarata la pubblica utilità dell’opera, e del decreto del Presidente dell’ANAS del 29 ottobre 2010, con cui era stato prorogato di 730 giorni il termine fissato per il compimento delle procedure espropriative, ma non era stata seguita dall’emissione del decreto di esproprio. Con atto per notaio NOME del 23 novembre 2009, era stato infatti stipulato con l’ACP un preliminare di accordo per cessione volontaria, che prevedeva, tra l’altro, il pagamento della somma di Euro 30.000,00 a titolo d’indennità di occupazione, sulla quale era stato versato un acconto dell’80%; non essendosi provveduto alla stipulazione del definitivo ed al pagamento del saldo, l’ACP aveva formulato una proposta contrattuale, a seguito della quale era stato stipulato l’atto per notaio Ronza del 4 dicembre 2019, con cui essa ricorrente aveva ceduto bonariamente l’a-
rea occupata alla Società di progetto RAGIONE_SOCIALE (subentrata alla ACP nella concessione relativa alla gestione dell’autostrada Piacenza-Cremona-Brescia), accettando un indennizzo calcolato ai sensi dell’art. 42bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, non comprendente l’indennità di occupazione.
Si costituì l’ACP, ed eccepì di non essere tenuta al pagamento dell’indennità, non avendo più avuto alcun ruolo nella procedura espropriativa, né alla data di cessazione dell’occupazione legittima né successivamente, per effetto dell’intervenuta scadenza della concessione; aggiunse di aver agito, dal 25 gennaio 2012, soltanto in qualità di mandataria dell’ANAS, che l’aveva sollevata dall’obbligo di proseguire la realizzazione delle opere, ed oppose comunque la prescrizione del diritto all’indennità, chiedendo in subordine la condanna del Ministero al rimborso delle somme dovute all’attrice.
Si costituì inoltre il Ministero, ed eccepì a sua volta di non essere tenuto al pagamento dell’indennità, non rivestendo le qualità né di promotore né di beneficiario dell’espropriazione, spettanti all’ACP, che aveva esercitato in nome proprio il potere espropriativo; premesso che tale ruolo aveva trovato conferma sia nel preliminare del 23 novembre 2009 che nell’atto del 4 dicembre 2019, contestò la sussistenza di un vincolo di solidarietà con la concessionaria, rilevando comunque che la somma concordata a titolo d’indennità di occupazione aveva portata satisfattiva di ogni pretesa, ed opponendo comunque la tardività della domanda, ai sensi dell’art. 29, comma terzo, del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150 e la prescrizione del diritto azionato.
1.1. Con ordinanza del 10 febbraio 2023, la Corte d’appello di Brescia ha accolto parzialmente la domanda, determinando l’indennità di occupazione in Euro 306.080,83 per il periodo compreso tra il 2 agosto 2009 e il 10 novembre 2012, oltre interessi legali dalla scadenza delle singole annualità, e disponendone il deposito presso il Ministero dell’economia e delle finanze, detratto l’importo già corrisposto.
Premesso che la ricostruzione dei fatti compiuta dall’attrice era rimasta incontestata, la Corte ha ritenuto superato, per effetto del mancato perfezionamento dell’espropriazione, l’accordo intervenuto tra le parti in ordine all’indennità di occupazione, rilevando che la cessione dell’area aveva avuto luogo dopo la data fissata e comunque successivamente alla scadenza della dichia-
razione di pubblica utilità, con la conseguenza che il contratto del 4 dicembre 2019 era qualificabile come un atto privatistico che non s’inseriva nel procedimento di espropriazione, ma in quello cui all’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001. Precisato che con tale atto le parti avevano espressamente escluso di voler regolare anche l’indennità di occupazione, ha ritenuto che il preliminare del 23 novembre 2009 non fosse qualificabile come transazione, in quanto privo degli elementi richiesti dall’art. 1965 cod. civ., escludendo anche la tardività della domanda, giacché non si era verificato nessuno degli eventi cui è collegata la decorrenza del termine di cui all’art. 29, comma terzo, del d.lgs. n. 150 del 2011.
In ordine alla stima dell’area, ha richiamato la relazione del c.t.u., da cui risultavano a) la vocazione agricola del suolo, avente un valore di 12,09 al mq. per la parte destinata a seminativo e di Euro 2,00 al mq. per la parte destinata a bosco, b) un deprezzamento del residuo compreso tra il 20 e il 25%, avuto riguardo all’esistenza di aree rimaste separate dal resto dell’azienda agricola, comodamente lavorabili ma aventi un accesso più disagevole, all’avvenuto ripristino dell’irrigazione con una differente metodologia, e alla costituzione di una servitù di passo carraio, nonché c) l’inclusione nella fascia di rispetto autostradale, incidente per il 15% sul valore dei fabbricati, e d) la vicinanza fisica dell’autostrada, incidente per il 10% sul valore del complesso colonico. Ritenuto pertanto che l’indennità di espropriazione, comprensiva del deprezzamento dell’area residua, potesse essere liquidata complessivamente in Euro 1.101.891,05, ha determinato quella dovuta per l’occupazione in Euro 91.824,25 per anno ed in Euro 7.652,02 mensili.
Escluso poi che l’indennità di occupazione fosse configurabile come prestazione periodica, la Corte ha dichiarato prescritto il relativo diritto, relativamente alle annualità comprese tra il 2 agosto 2007 e il 2 agosto 2009, ritenendo applicabile l’ordinario termine di prescrizione decennale, ancorandone la decorrenza alla scadenza di ciascun anno di occupazione, rilevando l’avvenuta interruzione con lettera inviata all’ACP e al Ministero il 31 ottobre 2019, ed escludendo invece l’efficacia interruttiva del preliminare del 23 novembre 2009, in quanto superato, e di un’altra nota inviata dal Ministero il 27 marzo 2015, in quanto successiva alla scadenza della dichiarazione di pubblica uti-
lità.
Quanto all’individuazione del legittimato passivo, premesso che, ai sensi degli artt. 3, comma primo, e 54 del d.P.R. n. 327 del 2001, tenuti al pagamento dell’indennità sono sia l’ente espropriante che il promotore dell’espropriazione, in quanto delegato all’esercizio del potere ablatorio con atto avente rilevanza esterna, la Corte ha richiamato il decreto emesso il 23 marzo 2006 dal Direttore generale dell’Anas, che aveva equiparato l’ACP all’autorità espropriante, quale promotrice e beneficiaria dell’espropriazione, la convenzione stipulata il 7 novembre 2007, con cui era stata rinnovata la concessione per la realizzazione e la gestione dell’autostrada, e l’atto aggiuntivo del 1° agosto 2012, con cui era stato prorogato il rapporto fino al subingresso del nuovo concessionario; ha osservato che dagli stessi non emergevano modifiche ai poteri conferiti all’ACP fino al 30 novembre 2012, rilevando inoltre che l’atto aggiuntivo non era in alcun modo menzionato nella scrittura privata del 25 gennaio 2012, con cui erano stati regolati soltanto i rapporti inerenti alla gestione del tratto autostradale. Precisato altresì che il mero ricorso allo strumento della concessione traslativa, con l’attribuzione al concessionario della titolarità di poteri espropriativi, non comporta l’esclusione di ogni responsabilità del concedente, a tal fine occorrendo che l’attribuzione di detti poteri e l’accollo degli obblighi indennitari e risarcitori da parte del concessionario siano espressamente previsti da una legge, ha rilevato che il decreto del 23 febbraio 2006, invocato in proposito dall’Amministrazione, non era stato prodotto in giudizio, affermando che nell’ipotesi di concorso di più enti nella procedura espropriativa il soggetto tenuto al pagamento dell’indennità dev’essere di regola individuato nel beneficiario dell’espropriazione, come risultante dal decreto ablatorio, ed osservando che l’estraneità del Ministero all’espropriazione era smentita dalla nota del 27 marzo 2015, con cui lo stesso aveva fatto presente di essere divenuto responsabile della conclusione dell’espropriazione, a seguito della scadenza della concessione, ed aveva offerto il pagamento dell’indennità. Ha affermato comunque che, nonostante la delega alla concessionaria, il Ministero era il titolare dell’interesse pubblico per la cui soddisfazione era stata avviata la procedura, nonché dei poteri di vigilanza e controllo sull’attività della concessionaria.
Qualificata infine la domanda proposta dall’ACP nei confronti del Ministero come azione di regresso, la Corte ha ritenuto insussistenti i presupposti per la disamina della stessa, non essendo stato provato l’adempimento dell’obbligazione da parte della concessionaria.
Avverso la predetta sentenza l’ACP ha proposto ricorso per cassazione, articolato in sei motivi, illustrati anche con memoria. La NOME ed il Ministero hanno resistito con controricorsi, proponendo ricorsi incidentali, articolati rispettivamente in due ed un motivo, il primo dei quali illustrato anche con memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo d’impugnazione, l’ACP denuncia la violazione degli artt. 5, 6, 22bis , 49, 50 e 54 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 censurando la sentenza impugnata nella parte in cui l’ha condannata al pagamento dell’indennità di occupazione in solido con il Ministero, senza considerare che la relativa obbligazione non trae origine dalla concessione, ma deriva direttamente dalla legge, trovando giustificazione nel ruolo rivestito dall’interessato nel procedimento espropriativo, da accertarsi in riferimento alla data della liquidazione e del versamento dell’indennità. Sostiene che, essendo l’occupazione preordinata all’esproprio, la relativa indennità non è volta a compensare il mancato godimento del bene, ma l’anticipata privazione della disponibilità dello stesso in funzione della realizzazione dell’interesse pubblico, di cui è titolare non già l’occupante, ma il beneficiario finale dell’opera: ai fini della legittimazione passiva, è pertanto necessaria la permanenza della titolarità dell’interesse pubblico fino al momento dell’adempimento dell’obbligazione, anche nel caso in cui l’occupazione non sia seguita dall’espropriazione.
Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., osservando che il riconoscimento della sua legittimazione passiva trae origine da un’errata percezione del contenuto della convenzione stipulata con l’ANAS il 25 gennaio 2012, la quale, nel regolare i rapporti inerenti alla gestione del raccordo autostradale, le attribuiva la qualità di mandataria senza rappresentanza, cui spettava non già il possesso, ma la mera detenzione del fondo per conto dell’ANAS. Premesso che con tale atto e con quello
aggiuntivo del 1° agosto 2012 la concedente l’aveva liberata dall’obbligo di proseguire la realizzazione del raccordo, accollandosi l’onere dei relativi investimenti e dispensandola dalla prosecuzione delle procedure espropriative, sostiene che tenuta al pagamento dell’indennità di occupazione era esclusivamente l’ANAS, anche con riguardo alle aree già occupate ed utilizzate.
Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 6, 22bis , 49, 50 e 54 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 e dell’art. 1372 cod. civ., censurando l’ordinanza impugnata per aver ritenuto irrilevante il preliminare stipulato il 23 novembre 2009, con cui era stata concordata l’indennità di occupazione, senza tenere conto della facoltà, attribuita dalla legge alle parti, di definire consensualmente l’ammontare dell’indennità. Premesso che tale atto non subordinava la determinazione dell’indennità alla conclusione bonaria della procedura espropriativa, ma ne comportava soltanto la quantificazione consensuale, ai sensi dell’art. 50 cit., sostiene che le vicende successive non hanno comportato alcuna rinuncia da parte dell’espropriato. Precisato inoltre che il riferimento all’indennità di occupazione, contenuto nell’atto del 4 dicembre 2019, non riguardava l’importo della stessa, ma solo il relativo diritto, afferma che tale accordo non era opponibile ad essa ricorrente, rimasta estranea allo stesso.
Con il quarto motivo, la ricorrente deduce la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., osservando che, nell’escludere la vincolatività del preliminare del 23 novembre 2009, l’ordinanza impugnata è incorsa in un’errata percezione del contenuto degli atti esaminati.
Con il quinto motivo, la ricorrente deduce la violazione degli artt. 100 e 112 cod. proc. civ., degli artt. 1298, 1299 e 1372 cod. civ. e degli artt. 6, 22bis , 49, 50 e 54 del d.P.R. n. 327 del 2001, censurando l’ordinanza impugnata per aver rigettato la domanda di manleva, senza considerare che la condanna pronunciata nei confronti di un debitore solidale consente di accogliere anche l’azione di regresso proposta da quest’ultimo nei confronti di un altro debitore, subordinandone l’esecuzione alla prova dell’adempimento in favore del creditore. Aggiunge che tale domanda trovava giustificazione nella titolarità dell’interesse sostanziale connesso alla realizzazione dell’opera pubblica, ed includeva quindi la richiesta di essere tenuta indenne da ogni importo
pagato in qualsiasi caso di soccombenza nei confronti dell’espropriata.
Con il sesto motivo, la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 100 e 112 cod. proc. civ., degli artt. 1298, 1299 e 1372 cod. civ., e degli artt. 6, 22bis , 49, 50 e 54 del d.P.R. n. 327 del 2001, censurando l’ordinanza impugnata per aver rigettato la domanda di manleva, senza considerare che nei rapporti interni l’obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori o tra i diversi creditori, salvo che sia stata contratta nell’interesse esclusivo di alcuno di essi.
Con il primo motivo del suo ricorso incidentale, la Francesca denuncia la violazione dell’art. 1284, quarto comma, cod. civ., censurando l’ordinanza impugnata per aver escluso l’applicabilità di tale disposizione, senza considerare che la stessa non si riferisce esclusivamente alle obbligazioni contrattuali, ma anche a quelle derivanti da fatto illecito o da altri atti o fatti idonei a produrle.
Con il secondo motivo, la controricorrente deduce la violazione degli artt. 2944 e 2946 cod. civ., censurando l’ordinanza impugnata per aver negato efficacia interruttiva al preliminare stipulato il 23 novembre 2009 e al pagamento dell’acconto sull’indennità di occupazione, ai fini della prescrizione delle prime due annualità. Afferma infatti l’irrilevanza della sopravvenuta inefficacia del preliminare, la quale riguardava esclusivamente la misura ed il pagamento dell’indennità concordata, e non incideva sul riconoscimento del debito, non configurabile come dichiarazione di volontà, ma come dichiarazione di scienza. Aggiunge che, in quanto riguardante l’indennità dovuta fino al 30 settembre 2011, il riconoscimento si estendeva anche alle prime due annualità, scadute il 1° agosto 2008 ed il 1° agosto 2009.
Con l’unico motivo del suo ricorso incidentale, il Ministero lamenta la falsa applicazione degli artt. 1175 e 1298 cod. civ., censurando l’ordinanza impugnata nella parte in cui l’ha ritenuta obbligata al pagamento dell’indennità, senza considerare che l’ACP ha agito in nome e per conto proprio, in qualità di ente espropriante, promotrice e beneficiaria dell’espropriazione. Premesso infatti che, in qualità di concessionaria, la società ricorrente ha esercitato i poteri espropriativi e si è accollata i relativi obblighi, afferma che la realizzazione del raccordo era volta al miglioramento dell’infrastruttura,
rispondente ad uno specifico interesse della concessionaria, i cui rapporti con la concedente avevano trovato un punto di equilibrio nella convenzione. Aggiunge che, avendo l’ACP contribuito all’aggravamento del debito nei confronti dell’espropriata, con l’inadempimento del preliminare del 23 novembre 2009, l’accoglimento della domanda di manleva si porrebbe in contrasto con i principi di correttezza e buona fede.
10. I primi due motivi del ricorso principale, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi entrambi ad oggetto l’individuazione del soggetto tenuto al pagamento della indennità, sono infondati.
Non merita infatti censura l’ordinanza impugnata, nella parte in cui, dopo aver accertato l’avvenuto superamento del preliminare stipulato il 23 novembre 2009, per effetto della mancata conclusione del procedimento espropriativo, e reputato ininfluente la cessione bonaria stipulata il 4 dicembre 2019, in quanto inserita nel procedimento di acquisizione ai sensi dell’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, ha ritenuto che nei procedimenti pluripartecipati, come quello in esame, la potenziale dissociazione tra la figura dell’autorità espropriante e quella del beneficiario dell’espropriazione imponga, ai fini della predetta individuazione, l’accertamento in concreto della effettiva titolarità ed esercizio dei poteri espropriativi, tenendo conto che, ai sensi dell’art. 3, comma primo, del d.P.R. n. 327 del 2001, per «autorità espropriante» deve intendersi l’autorità amministrativa titolare del potere di espropriare e che cura il relativo procedimento, ovvero il concessionario di un’opera pubblica, al quale sia stato attribuito tale potere in base ad una norma, mentre per «beneficiario dell’espropriazione» deve intendersi il soggetto, pubblico o privato, in cui favore è emesso il decreto di esproprio.
Tale affermazione si pone perfettamente in linea con l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità in tema di espropriazione per pubblica utilità, secondo cui il soggetto tenuto al pagamento dell’indennità va generalmente individuato nell’ente beneficiario dell’espropriazione, salvo che nei procedimenti in cui l’esercizio del potere espropriativo di acquisizione delle aree e di cura delle procedure è condiviso, in relazione a fasi e momenti diversi, tra più soggetti, con la conseguenza che, ai fini dell’accertamento della titolarità passiva dell’obbligazione, il giudice è tenuto, in tali casi, ad analiz-
zare il ruolo specifico assunto e i poteri concretamente esercitati da ciascun soggetto convenuto in giudizio (cfr. Cass., Sez. Un., 24/08/2022, n. 25294). In proposito, è stato precisato che l’ente beneficiario dell’espropriazione deve essere ordinariamente individuato sulla base di quanto risulta dal decreto ablativo, salvo che dallo stesso non emerga che il compito di procedere all’acquisizione delle aree e di curare le procedure espropriative sia stato affidato ad altri soggetti, i quali abbiano agito in nome proprio, accollandosi i relativi oneri, non risultando tuttavia sufficiente, a tal fine, un mero accordo interno, ma occorrendo una norma di legge o un provvedimento amministrativo a rilevanza esterna (cfr. Cass., Sez. I, 26/05/2022, n. 17058). Si è quindi affermato che l’assunzione degli obblighi indennitari da parte dell’affidatario dell’opera è configurabile, nei rapporti con gli espropriati, soltanto ove sia stato conferito al concessionario o all’appaltatore l’esercizio dei poteri espropriativi, e tale conferimento non sia rimasto limitato ai rapporti interni con l’espropriante, essendosi l’affidatario manifestato, nei rapporti con l’espropriato, come titolare degli obblighi indennitari, oltre che investito dell’esercizio del potere espropriativo, e risultando invece irrilevante la sistemazione dei rapporti economici interni con il concedente (cfr. Cass., Sez. I, 12/09/2022, n. 26803; 20/03/2017, n. 7104; 3/07/2013, n. 16623).
In applicazione di tali principi, la sentenza impugnata ha proceduto ad un’approfondita disamina dei rapporti intercorsi tra le parti, rilevando innanzitutto che, con decreto del Direttore generale dell’ANAS del 23 marzo 2006, all’ACP era stata attribuita la posizione di beneficiaria e promotrice dell’espropriazione, espressamente menzionata nei decreti di occupazione, con conseguente assunzione dell’obbligo di corrispondere le relative indennità, fino alla scadenza del periodo di occupazione legittima. Premesso infatti che la concessione, scaduta il 1° ottobre 2011, era stata prorogata al 30 novembre 2013 con atto aggiuntivo del 1° agosto 2012, il quale non prevedeva modifiche ai poteri ed al ruolo dell’ACP, ha precisato che tale atto non faceva alcun cenno alla scrittura privata del 25 gennaio 2012, con cui le parti avevano regolato le modalità di gestione dell’autostrada, attribuendo all’ACP la qualità di mandataria senza rappresentanza dell’ANAS, ed escludendo pertanto che fosse intervenuto un radicale ridimensionamento dei poteri conferiti alla con-
cessionaria, con il conseguente esonero dall’obbligo di corrispondere le indennità.
Tale ricostruzione della fattispecie, nell’ambito della quale è stata ripetutamente evidenziata la portata non meramente interna dei poteri attribuiti alla concessionaria, in quanto richiamati nei decreti di occupazione, non è stata validamente censurata dalla ricorrente, la quale, nel contestare l’interpretazione della convenzione fornita dalla Corte territoriale, si è limitata ad insistere sulla propria lettura dell’atto, senza indicare gli errori interpretativi o i vizi logici imputabili alla Corte d’appello, in tal modo dimostrando di voler sollecitare una rivisitazione dell’accertamento risultante dall’ordinanza impugnata, non consentito al Giudice di legittimità, al quale non spetta il compito di riesaminare nel merito la controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica dell’apprezzamento compiuto dal giudice di merito, nonché la coerenza logico-formale del provvedimento impugnato, nei limiti in cui le relative anomalie motivazionali sono ancora deducibili con il ricorso per cassazione, a seguito della riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ. ad opera dell’art. 54, comma primo, lett. b) , del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134.
Com’è noto, infatti, l’interpretazione del contratto, implicando la ricostruzione della comune intenzione delle parti, si traduce in un’indagine di fatto, riservata in via esclusiva al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità esclusivamente per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ovvero per illogicità ed incongruenza della motivazione, sempre che quest’ultimo vizio risulti talmente grave da impedire la ricostruzione del percorso logico-giuridico seguito per giungere alla decisione. La parte che intenda censurare l’interpretazione del contratto fornita dal giudice di merito non può dunque limitarsi, come nella specie, a contrapporre la propria personale interpretazione a quella accolta dal provvedimento impugnato, ma è tenuta, in ossequio al principio di specificità dell’impugnazione e in conformità della natura del ricorso per cassazione, quale mezzo d’impugnazione a critica vincolata, ad indicare puntualmente i criteri interpretativi che ritiene violati e il modo e le argomentazioni con cui il giudice di merito se ne è discostato, oppure le incongruenze e le contraddizioni in cui lo stesso è incorso (cfr.
Cass., Sez. I, 9/04/2021, n. 9461; 15/11/2017, n. 27136; Cass., Sez. III, 28/11/2017, n. 28139).
Quanto poi all’errata percezione del contenuto della convenzione, essa, in quanto non incidente sul contenuto oggettivo dell’atto, cioè sul fatto probatorio in sé, ma sulla verifica logica della riconducibilità allo stesso dell’informazione probatoria da esso desunta, e riflettente la lettura di un fatto probatorio sostanziale prospettata da una delle parti, può ben essere fatta valere ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. Un., 5/03/2024, n. 5792; Cass., Sez. III, 16/05/2025, n. 13085): nella specie, tuttavia, tale vizio non è riscontrabile, giacché le conclusioni cui è pervenuta l’ordinanza impugnata costituiscono il frutto non già di una falsa rappresentazione di elementi testuali contenuti o assenti nel documento prodotto, ma di una valutazione logico-giuridica della dichiarazione negoziale, censurabile, come si è detto, esclusivamente per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale o per incongruenza o illogicità della motivazione.
Correttamente, infine, la Corte territoriale ha ritenuto irrilevante, ai fini dell’individuazione del soggetto tenuto al pagamento dell’indennità di occupazione, la circostanza che la liquidazione della stessa avesse avuto luogo dopo la scadenza della concessione, così come prorogata dall’atto aggiuntivo del 1° agosto 2012, essendosi quest’ultima intervenuta dopo la cessazione del periodo di occupazione legittima, verificatasi il 30 novembre 2012: poiché, infatti, ai sensi dell’art. 50, comma primo, del d.P.R. n. 327 del 2001, richiamato dall’art. 22bis , comma quinto, l’indennità dev’essere calcolata in relazione a periodi di un anno e corrisposta al termine di ciascun anno di occupazione, il relativo credito non matura né alla data di emissione del decreto di espropriazione né a quella di cessazione dell’occupazione legittima, ma alla scadenza delle singole annualità, in relazione alle quali dev’essere individuato il soggetto obbligato a corrisponderla (cfr. Cass., Sez. I, 3/ 07/2019, n. 17797; 28/05/2012, n. 8452; 14/03/2006, n. 5520).
11. E’ invece inammissibile il terzo motivo, concernente il ritenuto superamento del preliminare stipulato tra l’ACP e l’attrice il 23 novembre 2009.
In quanto imperniate sulla facoltà, riconosciuta alle parti dall’art. 50 del d.P.R. n. 327 del 2001, di determinare consensualmente l’indennità di occu-
pazione, le censure proposte dalla ricorrente non attingono infatti la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale, nel ritenere inefficace l’accordo intervenuto tra le parti con il predetto preliminare, non ha affatto escluso tale facoltà, ma si è limitata a rilevare che lo stesso era rimasto inattuato, non essendo stato seguito né dalla stipulazione del definitivo, né dall’emissione del decreto di espropriazione, affermando comunque che esso doveva ritenersi superato per effetto della stipulazione dell’atto del 4 dicembre 2019, con cui la ricorrente aveva ceduto bonariamente l’area occupata alla Società di progetto Autovia Padana contro il pagamento di un importo calcolato in base ai criteri di cui all’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, con l’espressa precisazione che tale importo non comprendeva l’indennità di espropriazione.
Nel censurare il significato attribuito a quest’ultima precisazione, la ricorrente omette ancora una volta d’indicare i criteri ermeneutici violati e le considerazioni ed il modo in cui la Corte territoriale se ne sarebbe discostata, limitandosi ad insistere sulla propria personale interpretazione dell’atto, ed evidenziandone l’inopponibilità nei suoi confronti, in ragione dell’avvenuta stipulazione dello stesso tra l’attrice e la Società di progetto RAGIONE_SOCIALE Padana, senza tuttavia considerare che il riferimento al contenuto della cessione bonaria costituisce solo una delle ragioni in base alle quali l’ordinanza impugnata è pervenuta all’esclusione dell’efficacia del precedente accordo. In quanto configurabile come una causa d’inefficacia alternativa a quella costituita dalla mancata conclusione del procedimento espropriativo, la stipulazione del predetto atto integra una distinta ratio decidendi , la cui impugnazione non potrebbe in alcun modo condurre alla cassazione della statuizione in esame, idonea a reggersi autonomamente anche sulla base dell’altra affermazione, la cui invalida impugnazione comporta l’inammissibilità anche della censura in esame (cfr. Cass., Sez. III, 26/02/2024, n. 4102; 14/02/2012, n. 2108; Cass., Sez. V, 11/05/2018, n. 11493).
12. E’ altresì inammissibile il quarto motivo, riflettente l’errata percezione del contenuto degli atti in base ai quali è stata esclusa l’efficacia del preliminare.
Come recentemente chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte, il travisamento del contenuto oggettivo della prova ricorre nel caso in cui la svista
del giudice ricada sul fatto probatorio in sé, e non sulla verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio, e trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, ove ricorrano i presupposti richiesti dall’art. 395, n. 4, cod. proc. civ., mentre, se il fatto probatorio ha costituito un punto controverso sul quale la sentenza ha pronunciato, e cioè se il travisamento riflette la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, il vizio dev’essere fatto valere ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 o n. 5, cod. proc. civ., a seconda che si tratti di fatto processuale o sostanziale (cfr. Cass., Sez. Un., 5/03/2024, n. 5792; Cass., Sez. III, 16/05/2025, n. 13085). Nella specie, poiché la censura riflette l’errata percezione da parte della Corte territoriale di fatti sostanziali che hanno costituito oggetto del dibattito processuale, il vizio dedotto è riconducibile all’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.: esso, peraltro, non risulta correttamente dedotto, non avendo la ricorrente lamentato una falsa rappresentazione di elementi di fatto emersi dall’istruttoria compiuta, ma avendo censurato la valutazione logico-giuridica degli stessi, in tal modo dimostrando di voler sollecitare, anche a questo riguardo, un riesame dell’accertamento dei fatti contenuto nell’ordinanza impugnata, non consentito in questa sede.
13. Passando quindi all’esame dei ricorsi incidentali, avente carattere logicamente prioritario rispetto a quello degli ultimi due motivi del ricorso principale, riflettenti la fondatezza della domanda di manleva avanzata dall’ACP nei confronti del Ministero, è infondato l’unico motivo del ricorso proposto da quest’ultimo, avente ad oggetto l’affermazione della responsabilità solidale dell’Amministrazione per il pagamento dell’indennità di occupazione.
In proposito, l’ordinanza impugnata ha correttamente richiamato il principio, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il mero ricorso allo strumento della concessione traslativa, con l’attribuzione della titolarità di poteri espropriativi al concessionario affidatario dell’opera, non può comportare indiscriminatamente l’esclusione di ogni responsabilità del concedente, risultando necessario, a tal fine, che, in osservanza al principio di legalità dell’azione amministrativa, l’attribuzione all’affidatario di detti poteri e l’accollo da parte sua degli obblighi indennitari siano previsti da una legge che espressamente li autorizzi, in mancanza della quale non può rite-
nersi consentito alla Pubblica Amministrazione di disporne a sua discrezione, onde sollevarsi dalle responsabilità che il legislatore le attribuisce (cfr. Cass., Sez. Un., 20/03/2009, n. 6769; Cass., Sez. II, 15/01/2019, n. 815; Cass., Sez. I, 2/10/2011, n. 22523). Rilevato che il Ministero, nel contestare la propria responsabilità per il pagamento dell’indennità di occupazione, aveva richiamato il decreto emesso il 23 febbraio 2006 dal Direttore generale della ANAS, con cui era stato conferito all’ACP il potere espropriativo, omettendo peraltro di produrlo in giudizio, la Corte territoriale ha ritenuto non provato che con il medesimo decreto fossero stati posti a carico della concessionaria anche gli oneri economici connessi all’acquisizione delle aree necessarie per la realizzazione dell’opera pubblica, aggiungendo che, nonostante la delega di poteri, la procedura era volta alla soddisfazione di un interesse pubblico di cui era portatore il concedente, ed accogliendo pertanto la domanda anche nei confronti dell’Amministrazione.
Nel censurare tale statuizione, il Ministero non contesta il principio richiamato, ma insiste sull’avvenuto trasferimento dei diritti e degli obblighi in capo alla concessionaria, senza tuttavia tenere conto della precisazione, compiuta dalla giurisprudenza di legittimità, che il predetto trasferimento in tanto può comportare l’esonero dell’Amministrazione concedente dagli obblighi derivanti dall’esercizio dei poteri espropriativi, in quanto sia autorizzato da una norma di legge, nella specie rimasta non individuata; in assenza di una siffatta disposizione, l’accollo da parte della concessionaria degli oneri economici connessi all’acquisizione delle aree riveste un’efficacia meramente interna, essendo destinato ad assumere rilievo esclusivamente nei rapporti con la concedente, nei confronti della quale la concessionaria può esercitare il diritto di rivalsa delle somme eventualmente versate agli espropriati, senza che ciò escluda, nei rapporti con questi ultimi, la responsabilità solidale della concedente per il pagamento delle indennità. Nel ribadire poi l’interesse della concessionaria alla realizzazione dell’opera progettata, in quanto destinata ad esserle affidata in gestione, il controricorrente non considera che, sia pure attraverso l’affidamento della gestione ad un privato, l’opera era destinata a soddisfare in definitiva un interesse di natura pubblica, la cui sussistenza, idonea a giustificare il sacrificio dei diritti dei proprietari dei fondi necessari
per la sua realizzazione, aveva costituito oggetto di specifica valutazione ai fini della dichiarazione di pubblica utilità.
14. E’ altresì infondato il primo motivo del ricorso incidentale proposto dalla NOME, avente ad oggetto il mancato riconoscimento degl’interessi al saggio di cui all’art. 1284, quarto comma, cod. civ., introdotto dall’art. 17, comma primo, del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni dalla legge 10 novembre 2014, n. 162.
La tesi sostenuta dalla controricorrente, secondo cui il predetto saggio non è applicabile esclusivamente alle obbligazioni di fonte contrattuale, ma anche a quelle derivanti da fatto illecito o da altro atto o fatto idoneo a produrle, trova conforto in un precedente di legittimità, rimasto per la verità isolato, il quale si è espresso in tal senso, in virtù dell’osservazione che la clausola di salvezza contenuta nella parte iniziale della norma in esame, che rimette alle parti la possibilità di determinare la misura degl’interessi, con riferimento al periodo successivo alla proposizione della domanda giudiziale, non è volta a delimitare l’ambito applicativo di tale disposizione alle obbligazioni contrattuali, ma ad escluderne il carattere imperativo e inderogabile (cfr. Cass., Sez. III, 3/01/2023, n. 61).
Secondo l’orientamento allo stato tendenzialmente prevalente, la mera previsione della derogabilità del saggio d’interesse previsto dalla legge per il periodo successivo alla proposizione della domanda giudiziale nulla dice in ordine all’ambito applicativo dello stesso, che va desunto invece dal riferimento alla «legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali»; la norma in esame introduce una chiara eccezione alla disciplina generale di cui al primo comma dell’art. 1284, riferibile esclusivamente all’ipotesi in cui gli interessi costituiscano accessorio di un debito nascente da un negozio giuridico, e non risulta pertanto applicabile alle obbligazioni che non hanno fonte negoziale, non essendo ipotizzabile nemmeno in astratto, relativamente alle stesse, un accordo delle parti in ordine alla determinazione del saggio, la cui mancanza costituisce il presupposto fondamentale di operatività della disposizione (cfr. Cass., Sez. II, 9/05/2022, n. 14512; 7/11/2018, n. 28409). Tale principio, enunciato con riferimento all’indennizzo dovuto a titolo di equa riparazione per l’irragionevole durata del
processo, è stato ritenuto applicabile anche all’obbligazione di restituzione dell’indebito, avente la sua fonte nella legge (cfr. Cass., Sez. I 14/12/2022, n. 36595), in virtù della considerazione che il saggio d’interesse di cui all’art. 5 del d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, al quale l’art. 1284, quarto comma, cod. civ. rinvia attraverso il richiamo a «quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali», trova applicazione, ai sensi dell’art. 1 di tale decreto, «ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale», per tale intendendosi, ai sensi dell’art. 2, lett. a) , «i contratti, comunque denominati, tra imprese, ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo». L’inapplicabilità del saggio di cui all’art. 5 cit. alle obbligazioni pecuniarie aventi fonte legale, ancorché collegate alla fornitura di beni e servizi, ha trovato peraltro conferma anche in tema di crediti vantati dai farmacisti nei confronti delle aziende sanitarie locali per la dispensazione dei farmaci di classe A in favore degli assistiti, essendo stato chiarito che, a differenza di quelli derivanti dalle prestazioni rese dalle strutture private accreditate, gli stessi non trovano fondamento in una transazione commerciale, ma in un’attività di natura pubblicistica, svolta in esecuzione del rapporto concessorio con il Servizio Sanitario Nazionale, e intesa a realizzare l’interesse collettivo alla tutela della salute, nell’esercizio della quale il farmacista opera come componente del Servizio Sanitario Nazionale (cfr. Cass., Sez. Un., 20/11/2020, n. 26496; Cass., Sez. III, 10/04/2019, n. 9991).
Tale orientamento non risulta efficacemente contrastato dalla controricorrente, la quale si limita ad insistere sull’interpretazione della norma fornita dal precedente richiamato, senza aggiungervi ulteriori argomentazioni idonee, in particolare, a spiegare le ragioni per cui il saggio d’interesse introdotto dal d.lgs. n. 231 del 2002 dovrebbe considerarsi applicabile anche alle obbligazioni non aventi fonte contrattuale, in contrasto con la ratio della sua introduzione, consistente nello svolgimento di una funzione deterrente e risarcitoria nei confronti dei debitori inadempienti al pagamento del corrispettivo nelle transazioni commerciali. In favore dell’inapplicabilità di tale saggio al caso in esame depone in via determinante ed assorbente la considerazione
che, anche a voler interpretare nel senso più ampio possibile la nozione di transazione commerciale, la stessa non potrebbe essere in alcun caso ritenuta comprensiva della fattispecie in esame, nella quale la ratio dissuasiva dell’art. 1284, comma 4, c.c. non ha modo di manifestarsi al cospetto di un credito dipendente dalla determinazione giudiziale, una volta che la parte creditrice abbia dissentito dal quantum offerto dalla parte debitrice nell’ambito del procedimento, disciplinato dalla legge, per il pa gamento dell’indennità per l’occupazione d’urgenza.
15. E’ invece inammissibile il secondo motivo proposto dalla NOME, riflettente l’idoneità del preliminare stipulato il 23 novembre 2009 e del pagamento dell’acconto dallo stesso previsto ad interrompere la prescrizione del diritto all’indennità di occupazione per il periodo compreso tra il 2 agosto 2007 e il 2 agosto 2009.
E’ pur vero, infatti, che, in quanto configurabile come una dichiarazione di scienza, il riconoscimento del diritto, idoneo ad interrompere la prescrizione, non deve necessariamente concretarsi in uno strumento negoziale, cioè in una dichiarazione di volontà consapevolmente diretta al predetto fine, ma può essere desunto anche da un comportamento obiettivamente incompatibile con la volontà di disconoscere la pretesa del creditore. L’interruzione della prescrizione è quindi ricollegabile anche alle trattative svoltesi per la bonaria composizione di una vertenza, quando dal comportamento di una delle parti risulti il riconoscimento del contrapposto diritto di credito e la transazione sia mancata solo per questioni attinenti alla liquidazione, ma non anche all’esistenza del diritto (cfr. Cass., Sez. III, 24/09/2015, n. 18879; 19/12/2006, n. 27169), oppure al pagamento parziale di un debito, quando sia accompagnato dalla precisazione della sua effettuazione in acconto (cfr. Cass., Sez. VI, 27/03/2017, n. 7820; Cass., Sez. III, 12/02/2010, n. 3371).
Nell’escludere l’efficacia interruttiva degli atti indicati dalla controricorrente, la Corte territoriale ha peraltro motivato compiutamente e coerentemente le conclusioni cui è pervenuta, non essendosi limitata ad escludere la condivisibilità della distinzione tra dichiarazione di volontà e dichiarazione di scienza, ma avendo puntualmente spiegato anche le ragioni per cui ha ritenuto i predetti atti inidonei ad evidenziare una volontà dell’Amministrazione
incompatibile con il disconoscimento del credito, ponendo in risalto la riferibilità del preliminare e dell’acconto ad un periodo diverso dalle annualità in questione. Tale valutazione, configurabile come un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità esclusivamente ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. III, 24/11/2010, n. 23821; 7/01/2004, n. 58; 20/06/2002, n. 9016), non può ritenersi validamente censurata dalla controricorrente, la quale si è astenuta dal denunciare il vizio di motivazione, omettendo d’indicare gli elementi di fatto emersi dall’istruttoria ed eventualmente pretermessi dall’ordinanza impugnata o le incongruenze e le illogicità del percorso logico-giuridico dalla stessa seguito per giungere alla decisione, e dimostrando quindi di voler sollecitare, attraverso l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge, un nuovo giudizio di merito.
16. Tornando infine al ricorso principale, sono infondati il quinto ed il sesto motivo, riguardanti il rigetto della domanda di manleva proposta dalla ACP nei confronti del Ministero.
E’ pur vero, infatti, che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il giudice investito da una domanda di condanna proposta dal creditore nei confronti di un obbligato solidale e da una domanda di regresso proposta da quest’ultimo nei confronti di un coobbligato ben può emettere due distinte pronunce di condanna, l’una subordinata all’altra, disponendo che la pronuncia in via di regresso possa essere posta in esecuzione soltanto ove il primo condebitore dimostri di aver adempiuto l’obbligazione in favore del creditore, giacché l’ordinamento ammette la pronuncia di una sentenza condizionata, quando l’avvenimento futuro ed incerto cui viene subordinata l’efficacia della condanna si configuri come elemento accidentale della decisione, così formulata in omaggio al principio di economia processuale (cfr. Cass., Sez. I, 13/04/2022, n. 11962; Cass., Sez. lav., 21/08/2003, n. 12300). Nella specie, tuttavia, come si evince dalle conclusioni formulate nella comparsa di costituzione depositata nel giudizio di merito, riportate a corredo del motivo d’impugnazione, l’ACP, nel proporre la domanda subordinata di regresso nei confronti del Ministero, per l’ipotesi di accoglimento della domanda proposta dall’attrice, non aveva in alcun modo sollecitato l’emis-
sione di una pronuncia di condanna condizionata al pagamento dell’indennità in favore di quest’ultima, ma si era limitata a chiedere la condanna del Ministero «all’eventuale manleva di ACP ovvero al rimborso di quanto da essa dovesse venir pagato/depositato in esecuzione dell’emananda sentenza», senza ulteriori specificazioni.
In conclusione, vanno rigettati sia il ricorso principale che quelli incidentali, con la compensazione integrale delle spese processuali, avuto riguardo alla reciproca soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale e i ricorsi incidentali.
Compensa integralmente le spese processuali.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale e i ricorsi incidentali dal comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma l’11/03/2025