Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 3424 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 3424 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 32276/2019 r.g. proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME rappresentata e difesa, congiuntamente e disgiuntamente, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. NOME COGNOME e dall’Avv. NOME COGNOME i quali chiedono di ricevere le comunicazioni e le notificazioni presso gli indirizzi di posta elettronica certificata indicati.
-ricorrente –
contro
NOMECOGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO come
da mandato steso in foglio separato allegato al controricorso, la quale chiede di voler ricevere le comunicazioni e le notificazioni relative a questo procedimento all’indirizzo di posta elettronica certificata indicato
-controricorrente-
Avverso la sentenza della Corte di appello di Bari, n. 842/2019, depositata in data 5/4/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 7 /2/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
1. Il comune di Monopoli emetteva un bando di gara, per titoli ed esami, il 27/9/1999 per il conferimento di numero 28 sedi farmaceutiche vacanti o di nuova istituzione della provincia di Bari, tra le quali vi era la farmacia n. 10 di nuova istituzione, cui seguiva la delibera di giunta comunale n. 151 del 28/10/1999, che aveva dato mandato al sindaco di disporre la gestione provvisoria della sede farmaceutica n. 10.
La regione Puglia in data 6/3/2000 invitava il Comune a non attivare la gestione provvisoria del servizio farmaceutico e lo ribadiva con lettera del 7/4/2000. Ulteriori obiezioni erano sollevate dal dirigente dell’ufficio farmacia il 25/5/2000 e dall’assessore regionale il 16/8/2000.
Nelle more, interveniva il decreto di autorizzazione del sindaco di Monopoli n. 11649 del 2/5/2000 alla gestione provvisoria della farmacia.
Con la determinazione regionale n. 251 del 24/6/2002 veniva richiamata la pronuncia del Consiglio di Stato n. 77 del 13/3/1985, che reputava legittima la gestione provvisoria della farmacia
comunale, anche nelle more dello svolgimento della gara ad evidenza pubblica.
La gestione provvisoria iniziava il 2/5/2000 da parte di NOME COGNOME
Veniva pubblicato il decreto d’assegnazione definitiva della farmacia in data 29/7/2004 in favore di NOME COGNOME.
Il completamento dell’offerta reale avveniva l’1/9/2004, con la richiesta da parte della COGNOME di attivare la nuova sede in data 21/12/2004.
Con ordinanza sindacale del 21/1/2005 si poneva fine alla gestione provvisoria, che terminava il 31/1/2005. La nuova gestione iniziava a decorrere dal 1/2/2005.
Il 14/3/2010 il gestore provvisorio COGNOME chiedeva emettersi decreto ingiuntivo nei confronti della nuova titolare della farmacia NOME COGNOME per il pagamento dell’indennità di avviamento.
Chiedeva dunque la somma di euro 158.287,89, pari alla differenza fra l’indennità di avviamento stimata il 7/5/2009 dalla Asl in euro 244.027,60 e l’indennità di avviamento già pagata dalla COGNOME, a seguito della precedente stima, sempre effettuata dalla Asl, che per errore era stata determinata, in data 22/7/2004, in euro 85.739,71, essendosi tenuto conto della data di pubblicazione della graduatoria conclusiva del concorso.
Veniva emesso il decreto ingiuntivo per euro 158.287,89 in data 10/5/2010.
Proponeva opposizione a decreto ingiuntivo la COGNOME chiedendo, in via riconvenzionale, da un lato, la restituzione della somma già pagata di euro 85.739,71, in quanto la gestione provvisoria sarebbe stata illegittima, e dall’altro, il pagamento della somma di euro 150.000,00, a titolo di mancato guadagno per il
ritardo nel rilascio della farmacia da parte del Caramia (circa 8 mesi dal 29/7/2004 al 31/1/2005).
Nel corso del giudizio, con la memoria ex art. 183 c.p.c. la COGNOME ribadiva che, poiché nella specie la durata della gestione provvisoria era stata sicuramente inferiore a cinque anni, l’indennità di avviamento doveva necessariamente essere determinata dal giudice, «nessuna rilevanza potendo avere quella determinata dalla Asl BA».
Il tribunale di Bari, con sentenza n. 2774/2017, depositata il 25/5/2017 rigettava l’opposizione, come pure la domanda riconvenzionale.
Proponeva appello la COGNOME deducendo: la mancata revoca del decreto ingiuntivo opposto e «la mancata analisi dei presupposti giustificativi della sua emissione, ivi compreso il difetto di prova scritta dell’ammontare del decreto ingiunto»; l’omessa disapplicazione per l’illegittimità del provvedimento amministrativo sindacale di autorizzazione alla gestione provvisoria; il mancato riconoscimento del valore meramente indicativo del conteggio di liquidazione operato dalla regione Puglia in difetto del decorso del quinquennio e conseguente mancata rideterminazione da parte del giudice nel rispetto del principio dell’onere della prova; l’errata rilevanza probatoria riconosciuta alle dichiarazioni dei redditi ai fini del calcolo dell’indennità di gestione provvisoria; la mancata valutazione della ricorrenza di un periodo di gestione provvisoria inferiore a 5 anni e, conseguente, omesso prudente apprezzamento dell’entità della somma a liquidarsi; mancato accoglimento della domanda riconvenzionale, avendo ad oggetto la restituzione dell’indennità di liquidazione già versata.
Si costituiva in giudizio il COGNOME eccependo l’inammissibilità dell’appello oltre che l’infondatezza dello stesso.
La Corte d’appello di Bari, con sentenza n. 842/2019 pubblicata il 5/4/2019, rigettava l’appello della COGNOME.
9.1. La Corte territoriale affrontava il primo motivo di gravame, con il quale l’appellante si doleva della mancata valutazione, da parte del tribunale, «della illegittimità degli atti amministrativi di autorizzazione del Caramia alla gestione provvisoria della sede farmaceutica di nuova istituzione, che sarebbero stati adottati in violazione di norme di legge.
Per l’appellante, infatti, l’esercizio provvisorio di una farmacia era consentito «nei soli casi di sospensione e di interruzione di un esercizio farmaceutico già esistente», ma non anche «nel caso di farmacia di nuova istituzione».
L’appellante chiedeva, previa disapplicazione degli atti illegittimi, «il rigetto della domanda di pagamento dell’indennità ex art. 110 RD n. 1265/34 proposta dal Caramia».
Per la Corte d’appello – contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante – il tribunale aveva «esaurientemente motivato in ordine all’eccepita illegittimità della gestione provvisoria del Caramia, facendo riferimento alle ragioni ‘di interesse pubblico poste alla base della scelta di autorizzare la gestione provvisoria nonostante l’indizione del bando di concorso’ quali meglio esplicitata nella delibera della giunta comunale n. 151 del 28/10/1999».
Si era evidenziato, nel provvedimento sopra citato, «l’estremo disagio alla popolazione residente nella zona interessata, tenuto conto che trattasi di un’ampia area abitativa, comprendente un polivalente scolastico, una parrocchia e vari insediamenti artigianali, distante da altre sedi farmaceutiche», sicché poiché erano decorsi oltre due anni dall’approvazione da parte della regione Puglia della nuova sede farmaceutica n. 10 e non si avevano notizie certe sull’avvio delle procedure per l’assegnazione della nuova sede, era
legittimo l’esercizio provvisorio di una farmacia di nuova istituzione nelle more della procedura concorsuale».
Il tribunale aveva anche richiamato la sentenza del Consiglio di Stato n. 73 del 13/3/1985 «che estendeva il provvedimento di urgenza per l’apertura dell’esercizio provvisorio previsto dall’art. 129, comma 1, R.D. n. 1265 del 1934 (TULS) anche alle farmacie di nuova istituzione, al fine di assicurare l’assistenza farmaceutica per quelle sedi già istituite in pianta organica, ma non ancora attribuite».
Si faceva richiamo alla determinazione della regione Puglia n. 251 del 24/6/2002 che aveva affermato l’obbligo, per i vincitori delle sedi farmaceutiche assegnate in gestione provvisoria, «di liquidare, ai sensi dell’art. 110 TULS, l’indennità di avviamento al rispettivo gestore provvisorio».
Pertanto – osservava la Corte d’appello – il tribunale aveva aderito ad una interpretazione estensiva dell’art. 129 TULS, ritenendo sussistente il pregiudizio o pericolo per assistenza sanitaria alla popolazione interessata, ai fini della gestione provvisoria della farmacia di nuova istituzione.
A fronte di queste ampie argomentazioni, però, ad avviso della Corte d’appello, l’appellante aveva «omesso di indicare pertinenti ragioni di dissenso rispetto ad esse limitandosi ad insistere nel sostenere l’illegittimità della gestione, facendo leva sull’interpretazione restrittiva dell’art. 129 TULS, «tale da non consentirne l’applicazione al di fuori delle ipotesi espressamente previste di sospensione o interruzione del servizio farmaceutico».
Ciò, sempre ad avviso della Corte territoriale, «in aperta violazione dell’onere di specificità dei motivi di appello di cui all’art. 342 c.p.c.».
Tra l’altro, il motivo era anche infondato.
La Corte d’appello menzionava la giustizia amministrativa che riteneva possibile l’esercizio provvisorio anche nel caso di svolgimento della gara per l’assegnazione di una farmacia di nuova istituzione.
L’art. 129 TULS doveva interpretarsi in via estensiva, anche tenendosi conto dell’art. 17 della legge n. 475 del 2/4/1968, che, nel prevedere la corresponsione dell’indennità di avviamento – da parte del nuovo titolare della farmacia – in favore dei gestori provvisori di farmacie di nuova istituzione, dava ovviamente per presupposta la possibilità di una gestione provvisoria anche per le sedi nuova istituzione (si citava Cass. n. 3269 del 1994; Cass. n. 8876 del 1993; Cass. n. 8113 del 1990).
Proseguiva la Corte nel senso che era pacifico, come riportato nella delibera di giunta municipale n. 151 del 28/10/1999, che la zona farmaceutica n. 10 «comprendesse un’area del territorio comunale intensamente abitata e distante da altre sedi farmaceutiche».
9.2. Con il secondo motivo d’appello si censurava la quantificazione del credito, sia perché la determinazione della Asl aveva valore meramente indicativo, sia perché l’art. 110 del TULS imponeva di avere riguardo, «non ai redditi dichiarati, ma quelli accertati».
Pertanto, a fronte della specifica contestazione formulata dall’appellante, il tribunale avrebbe dovuto ordinare l’acquisizione dei documenti contabili e disporre CTU.
La Corte territoriale, a fronte di tale doglianza, che reputava infondata, evidenziava, in primo luogo, che il tribunale non aveva fondato la quantificazione del credito sull’atto di determinazione dell’indennità emesso dalla Asl in data 7/5/2009.
Neppure giovava all’appellante dolersi che il decreto ingiuntivo fosse stato emesso erroneamente sulla base di tale atto e non fosse stato successivamente revocato, in fase di opposizione, per difetto dei presupposti della emissione.
Ed infatti, il credito era stato ritenuto provato, dovendo quindi spostarsi l’attenzione sul giudizio di opposizione – a cognizione ordinaria – definito con la sentenza che aveva rigettato la stessa.
Per la Corte d’appello neppure meritava accoglimento il profilo di censura concernente la quantificazione del reddito «effettuata sulla scorta delle relative dichiarazioni» per violazione dell’art. 110 TULS.
Per la Corte d’appello, infatti, la dichiarazione dei redditi esauriva «da sola la fattispecie dell’accertamento, non essendo seguita né dall’emanazione di un atto di rettifica dell’amministratore finanziaria, né da un’attività istruttoria volta a controllare la completezza della fedeltà della dichiarazione stessa».
Del resto, poiché l’art. 110 TULS aveva attribuito anche nei rapporti tra privati immediata e diretta rilevanza al reddito accertato ai fini fiscali, non poteva che tenersi conto dei redditi dichiarati, come correttamente aveva fatto il tribunale, «in mancanza dell’allegazione e della dimostrazione da parte dell’appellante, sui cui gravava il relativo onere, dell’eventuale erroneità ed inesattezza della dichiarazione, ovvero dell’avvenuta rettifica da parte dei competenti uffici».
La Tondo, a fronte della produzione delle dichiarazioni dei redditi relativa agli anni 2000-2005 e dei certificati di regolarità contributiva 2000-2004, nonché della comunicazione, da parte dell’agenzia delle entrate alla Asl, circa i redditi dichiarati, « si era limitata ad eccepire l’inattendibilità della documentazione, sul presupposto che fosse indispensabile – ai fini probatori – la produzione in giudizio dei
bilanci, quando, invece, avrebbe dovuto fornire elementi di prova dell’inesattezza e/o dell’erroneità di quelle dichiarazioni, onde infirmare l’efficacia probatoria».
La Corte territoriale precisava che peraltro, la dedotta esigenza di acquisire i bilanci non si era «tradotta in un’istanza di esibizione», mentre la stessa appellante, nel domandare il risarcimento del danno da mancato guadagno nel periodo compreso tra il 29/7/2004 ed il 31/1/2005, lo quantifica in euro 150.000,00, ovvero in misura persino superiore rispetto al reddito dichiarato dal Caramia euro 154.428,00 in relazione all’intero anno 2004), con ciò implicitamente confermando l’attendibilità del dato reddituale dichiarato».
9.3. Con il terzo motivo d’appello si denunciava l’inapplicabilità al caso di specie del criterio di calcolo dell’indennità previsto dall’art. 110 TULS, che presuppone una gestione di durata almeno quinquennale. Trattandosi – a giudizio dell’appellante – di un esercizio provvisorio protrattosi per un tempo inferiore a 5 anni, e precisamente dal 5/5/2000 al 29/7/2004 o, tutt’al più, sino al 1/9/2004.
Tale doglianza era reputata infondata. Per la Corte territoriale la locuzione «ultimo quinquennio», rinvenibile nell’art. 10 TULS, doveva essere riferita all’ultimo «quinquennio di gestione provvisoria».
La data di riferimento non era quella cui il nuovo assegnatario della farmacia comunicava la propria accettazione, ma la data in cui era divenuta esecutiva la deliberazione di decadenza dalla gestione provvisoria.
Il diritto all’indennità sorgeva solo al termine della gestione e la somma doveva essere calcolata con riferimento alla relativa data.
La cessazione della gestione provvisoria era avvenuta in data 31/1/2005, sicché non doveva farsi riferimento alle diverse date
indicate dall’appellante del 29/7/2004 o dell’1/9/2004, rispettivamente di pubblicazione del decreto di assegnazione definitiva della sede o di completamento dell’offerta reale, in quanto entrambe anteriori all’ordinanza sindacale del 21/1/2005 che aveva posto fino a gestione provvisoria.
9.4. La Corte territoriale rigettava anche il quarto motivo d’appello che riguardava la decisione del tribunale che aveva respinto sia la domanda di ripetizione della somma di euro 85.739,71, sia la domanda di risarcimento del danno.
Il pagamento eseguito dalla COGNOME era infatti legittimo, essendo stata accertata la sussistenza dei presupposti previsti dagli articoli 129 e 110 TULS, con il riconoscimento dell’indennità di avviamento nella misura di euro 244.027,60.
La domanda di risarcimento del danno era rimasta del tutto sfornita di prova.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la COGNOME.
Ha resistito con controricorso NOME COGNOME depositando anche memoria scritta.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la «violazione e/o falsa applicazione degli articoli 24 e 111 Costituzione e 342 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Per la ricorrente, con riguardo al primo motivo di appello relativo alla disapplicazione dell’ordinanza del 21/1/2005 n. 17 del sindaco di Monopoli e della determina dirigenziale n. 251 del 24/6/2002 della regione Puglia, la Corte d’appello avrebbe erroneamente rilevato una violazione dell’onere di specificità dei motivi di appello di cui all’art. 342 c.p.c.
In particolare, la Corte di merito ha ritenuto che l’appellante avrebbe dovuto concentrare le sue censure con riferimento «non solo agli specifici capi della sentenza impugnata, ma anche ai passaggi argomentativi che la sorreggono e alla formulazione di puntuali ragioni di dissenso atte a determinare le modifiche della decisione censurata, a pena di inammissibilità della censura».
In realtà, ad avviso della ricorrente, la motivazione sarebbe erronea.
Dalla lettura della sentenza di primo grado si evincerebbe «la totale assenza di qualsivoglia valutazione sia pure incidentale di legittimità dei provvedimenti amministrativi posti a base del decreto ingiuntivo opposto», essendosi limitato il giudice di prime cure «ad un mero rinvio a detti provvedimenti senza analizzare, sia pure in via incidentale, la legittimità che veniva».
Il giudice di prime cure avrebbe affermato esclusivamente che «pertanto, alla luce di quanto innanzi delineato, appaiono prive di pregio le deduzioni dell’opponente in ordine alla illegittimità della gestione provvisoria del Caramia sorretta e legittimata da una serie di provvedimenti amministrativi tuttora validi ed efficaci».
Per la ricorrente, invece, l’appellante avrebbe indicato le ragioni di dissenso rispetto alla sentenza del giudice di prime cure, «sia in relazione alla scelta di campo di dare per scontata la legittimità dei suddetti provvedimenti amministrativi, ‘senza preoccuparsi, pur avendone l’onere, di disaminare criticamente le ragioni poste a base di una serie di provvedimenti amministrativi regionali, tutti debitamente citati ed allegati dall’appellante di segno esattamente opposto» (si richiama pagina 10 dell’appello).
Puntuali censure dell’appello vi sarebbero state anche «con riguardo all’omessa valutazione dell’illegittimità del provvedimento autorizzativo finalizzata alla sua invocata (dalla difesa
dell’opponente) disapplicazione con lo specifico riferimento alla violazione degli articoli 110 129 del RD n. 1265/1934 nonché 14 della L.R. n. 36/14» (si indica pagina 11 dell’appello).
Il motivo è inammissibile.
2.1. La Corte d’appello, con ampia ed articolata motivazione, ha ritenuto che il tribunale avesse esaurientemente motivato in ordine all’eccepita illegittimità della gestione provvisoria del Caramia, indicando in modo preciso le ragioni «di interesse pubblico poste alla base della scelta di autorizzare la gestione provvisoria nonostante l’indizione del bando di concorso, quali meglio esplicitata nella delibera di giunta comunale n. 151 del 28/10/1999».
Era stato riportato anche il provvedimento della giunta comunale n. 251 del 28/10/1999, nel quale si evidenziava, nelle more dello svolgimento della gara pubblica per l’assegnazione delle nuove sedi farmaceutiche, la necessità della popolazione che viveva in quell’area ampia, di avere la disponibilità di un servizio provvisorio di farmacia, in quanto «il disagio è destinato a protrarsi nel tempo, dato che a distanza di oltre due anni dall’approvazione da parte della Regione Puglia della nuova sede farmaceutica n. 10 non si hanno notizie certe sull’avvio delle procedure per l’assegnazione della nuova sede»; ciò recava «estremo disagio alla popolazione residente nella zona interessata, tenuto conto che trattasi di un’ampia area abitativa, comprendente un polivalente scolastico, una parrocchia e vari insediamenti artigianali, distante da altre sedi farmaceutiche».
Il giudice di prime cure aveva anche richiamato, sul punto, le motivazioni della determina della Regione Puglia n. 251 del 24/6/2000.
A fronte di queste «ampie argomentazioni» da parte del giudice di prime cure, l’appellante aveva «del tutto prescisso, omettendo di indicare pertinenti ragioni di dissenso rispetto ad esse, e limitandosi
ad insistere nel sostenere l’illegittimità della gestione, facendo leva sull’interpretazione dell’art. 129 TULS tale da non consentirne l’applicazione al di fuori delle ipotesi espressamente previste di sospensione o interruzione del servizio farmaceutico».
Dinanzi all’affermazione perentoria della Corte d’appello, che ha riportato gran parte della motivazione della sentenza del giudice di prime cure, la ricorrente ha omesso di indicare, nel primo motivo di ricorso per cassazione, il contenuto, almeno in parte, della motivazione della sentenza di prime cure e, soprattutto, il contenuto, almeno nella parte interessata dalle argomentazioni del giudice di secondo grado, del proprio atto di appello.
L’unico riferimento al proprio atto d’appello è contenuto nei due rimandi a pagina 10 e da pagina 11 dell’appello, e nella mera enunciazione della frase «senza preoccuparsi , pur avendone l’onere, di disaminare criticamente le ragioni poste a base di una serie di provvedimenti amministrativi regionali, tutti debitamente citati ed allegati dall’appellante di segno esattamente opposto».
In tal modo, però, il ricorso pecca in ordine al contenuto del motivo del ricorso per cassazione di cui all’art. 366 n. 6 c.p.c.. Ed infatti, per questa Corte il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione – che trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte – trova applicazione anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali siano contestati errori da parte del giudice di merito; ne discende che, ove il ricorrente denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti
motivi formulati dalla controparte; l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un ” error in procedendo “, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, proprio per assicurare il rispetto del principio di autosufficienza di esso (Cass., sez. 1, 23/12/2020, n. 29495).
Vi è comunque un ulteriore profilo di inammissibilità. Anche se la Corte di appello in qualche misura ha fatto riferimento all’art. 342 c.p.c. («ciò in aperta violazione dell’onere di specificità dei motivi di appello di cui all’art. 342 c.p.c.»), tuttavia ha risposto nel merito.
Su tale aspetto la ricorrente non coglie la effettiva ratio decidendi .
Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la «violazione e/o falsa applicazione degli articoli 110 e 129 R.D. n. 1265/1934; 17 legge n. 475 del 2 aprile 1968; art. 4 legge 8/11/1991, n. 362; articoli 12 e 14 delle disposizioni sulla legge in generale RD 16/3/1942, n. 262; art. 5 dell’allegato E del RD 2248/1865; articoli 101 e 113 Costituzione in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
La ricorrente muove da un’interpretazione restrittiva dell’art. 129 TULS, il quale prevede la possibilità di farsi luogo all’esercizio provvisorio di una farmacia esclusivamente nelle ipotesi di sospensione o di interruzione di un esercizio farmaceutico.
La Corte d’appello, invece, avrebbe ritenuto che questa norma, pur «dettagliata e precisa nel suo enunciato», potesse essere eretta
a «principio di diritto per cui il ricorso all’esercizio provvisorio di una farmacia di nuova istituzione, nelle more della procedura concorsuale, è consentito dall’art. 129 TULS, allorquando le esigenze dell’assistenza farmaceutica consiglino l’intervento urgente».
Pertanto, la Corte territoriale, benché non lo potesse fare, aveva praticato un’interpretazione estensiva di tale norma, ritenendo a quel punto legittimo il provvedimento di autorizzazione alla gestione provvisoria di farmacia di nuova istituzione.
La Corte territoriale, poi, poneva a fondamento di tale interpretazione estensiva l’art. 17 della legge n. 475 del 1968 che, pure, prevedeva la corresponsione dell’indennità di avviamento (da parte del nuovo titolare della farmacia) in favore dei gestori provvisori di farmacie di nuova istituzione.
Tuttavia – aggiungeva la ricorrente – «sul punto non è dato rinvenire allo stato alcun precedente di legittimità».
Senza contare che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 87 del 2006, aveva affermato che l’art. 46 della legge n. 3 del 2003, di cui dichiarava di incostituzionalità, conteneva «norme di estremo dettaglio», tali per cui – ad avviso della ricorrente – doveva escludersi che l’art. 129 TULS potesse avere valore di principio di ordine generale, trattandosi di norma eccezionale, non applicabile in via analogica oltre i casi ed i tempi in essa considerati.
Era vietata, insomma, una interpretazione estensiva di tale norma.
3. Il motivo è infondato.
3.1. Deve muoversi dall’art. 129 del regio decreto 27/7/1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie), a mente del quale «in caso di sospensione o di interruzione di un esercizio farmaceutico, dipendenti da qualsiasi causa, e dalle quali sia derivato o possa derivare un nocumento all’assistenza farmaceutica locale, il
prefetto adotta i provvedimenti di urgenza per assicurare tale assistenza».
Tale norma, dunque, indica quali ipotesi di gestione provvisoria della farmacia esclusivamente le ipotesi di sospensione o di interruzione di un esercizio farmaceutico, ma, come si vedrà, la giurisprudenza di legittimità e quella amministrativa hanno allargato l’ambito di applicazione di tale disposizione.
3.2. In particolare, va esaminato anche l’art. 17 della legge 2/4/1968, n. 475 (Norme concernenti il servizio farmaceutico), per il quale «al vincitore di pubblico concorso di farmacia precedentemente gestita in via provvisoria, fanno carico, nei confronti del cessante tutte le obbligazioni previste dall’art. 110 del testo unico delle leggi sanitarie approvato con regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265».
3.3. L’art. 110 del TULS prevede l’obbligo del pagamento di un’indennità di avviamento in favore del soggetto che ha gestito una farmacia da parte del nuovo concessionario.
Pertanto, si prevede che «l’autorizzazione all’esercizio di una farmacia, che non sia di nuova istituzione, importa l’obbligo nel concessionario di rilevare dal precedente titolare o dagli eredi di esso gli arredi, le provviste e le dotazioni attinente all’esercizio farmaceutico, contenuti nella farmacia e nei locali annessi, nonché di corrispondere allo stesso titolare o ai suoi eredi un’indennità di avviamento in misura corrispondente a tre annate del reddito medio imponibile della farmacia, accertato agli effetti dell’applicazione dell’imposta di ricchezza mobile nell’ultimo quinquennio».
3.4. Non può omettersi la citazione della sentenza della Corte costituzionale n. 333 del 1988 che affronta la questione, sollevata da questa Corte, a sezioni unite, del combinato disposto degli articoli 17 della legge n. 475 del 1968 e dell’art. 110 del TULS, in tema di diritto
all’indennità di avviamento in favore del gestore provvisorio della farmacia, nel senso che, in base all’orientamento consolidato di legittimità, «in caso di farmacia non di nuova istituzione, non spetta al gestore provvisorio alcuna indennità».
L’indennità sarebbe spettata, dunque, esclusivamente al soggetto che aveva gestito in via provvisoria una farmacia «non di nuova istituzione», ma già preesistente.
Nell’art. 17 della legge n. 475 del 1968, in violazione dell’art. 3 della Costituzione, non era prevista, ai fini della regolamentazione dell’indennità di avviamento, anche la posizione dei gestori provvisori delle farmacie di non nuova istituzione, sicché «si darebbe luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento fra i detti gestori e quelli di farmacie di nuova istituzione».
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 333 del 1988 rileva la violazione dell’art. 3 della costituzione per disparità di trattamento fra «il gestore provvisorio di farmacia di nuova istituzione, cui l’art. 17 della legge n. 475 del 1968 estende il diritto all’indennità di avviamento prevista dall’art. 110 del T.U. delle leggi sanitarie, ed il gestore provvisorio di farmacia già preesistente e funzionante, al quale, ( secondo l’interpretazione delle Sezioni Unite, seguita dagli altri giudici rimettenti, e comunque non sindacabile in questa sede), tale diritto non è esteso».
Poiché dunque, il fondamento dell’indennità di avviamento «consiste nell’incremento o addirittura nella creazione del bene fondamentale dell’avviamento, rilevano le Sezioni Unite che ‘le due fattispecie (gestione provvisoria di farmacie di non nuova e di nuova istituzione) sono identiche’».
Per la Corte costituzionale, dunque, «una volta che il legislatore ha equiparato, agli effetti anzidetti, il gestore provvisorio di farmacie di nuova istituzione al titolare di farmacia, la mancata estensione di
tale equiparazione ai gestori provvisori di farmacie non di nuova istituzione costituisce una ingiustificata e irrazionale disparità di trattamento in contrasto con l’art. 3 della costituzione».
3.5. La giurisprudenza di questa Corte, formatasi dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 333 del 1988, ha costantemente affermato che, in tema di servizio farmaceutico, nella disciplina di cui alla legge 2 aprile 1968 n. 475, la sentenza della Corte costituzionale citata, dichiarativa della parziale illegittimità dell’art. 17 di detta legge, comporta che le Disposizioni sull’indennità di avviamento, poste dall’art. 110 del R.D. 27 luglio 1934 n. 1265 (testo unico delle leggi sanitarie), trovano applicazione non soltanto nei riguardi dei gestori provvisori di farmacie di nuova istituzione, ma anche nei riguardi dei gestori provvisori di farmacie non di nuova istituzione, sia per quanto attiene ai diritti verso l’assegnatario subentrante, sia per quanto attiene ai corrispondenti obblighi verso il precedente titolare (Cass., Sez.U., 22/12/1989, n. 5767; più recentemente Cass., sez. 1, 23/8/1993, n. 8876).
Pertanto, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, la giurisprudenza di legittimità si è sempre pronunciata in favore della legittimità della gestione provvisoria della farmacia, non solo nelle ipotesi indicate nell’art. 129 TULS, di sospensione o di interruzione dell’esercizio farmaceutico, ma anche nelle more dello svolgimento della gara pubblica per l’assegnazione del servizio stesso.
4.1. Ciò si ricava proprio dalla giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto legittimo il pagamento dell’indennità di avviamento in favore del gestore provvisorio di farmacia, non preesistente, ma di nuova istituzione, già prevista in pianta organica, ma non svolgente in concreto il servizio (Cass. n. 8876 del 1993; Cass., sez. 1, 9/8/1990, n. 8113; Cass. Sez.U., n. 5767 del 1989).
5. Del tutto conforme è, poi, la giurisprudenza amministrativa nell’affermare che l’intervento di urgenza abilitato dall’art. 129 TULS, benché letteralmente previsto solo per il caso di sospensione o interruzione di un servizio farmaceutico (già in precedenza aperto), deve essere esteso in via analogica, considerata l’identità di ratio anche a qualsiasi ipotesi di carenza farmaceutica, ivi compresa quella causata dalla mancata apertura di una farmacia di nuova istituzione ed esistente solo sulla carta (Cons. Stato., sez. IV, 3/6/1997, n. 604; TAR Puglia, sez. 1, Bari, 9/7/2003, n. 2798; TAR Puglia, sez. 1, Lecce, 15/2/2000, n. 1219).
Pertanto, qualora non sia ancora stata assegnata in via definitiva la gestione di una farmacia, l’urgenza di operare un’assegnazione provvisoria risulta in re ipsa nel fatto stesso che il provvedimento istitutivo abbia accertato l’esigenza di istituire la nuova farmacia che soddisfi i bisogni della popolazione residente.
Peraltro, per giurisprudenza amministrativa consolidata, l’indennità di avviamento spetta al gestore provvisorio di farmacia, anche di nuova istituzione, tranne l’ipotesi in cui sia dichiarato illegittimo il provvedimento di autorizzazione alla gestione provvisoria della farmacia.
Si è ritenuto, infatti, ammissibile il ricorso proposto dal vincitore di una sede farmaceutica che intende assumere la titolarità, nei confronti della delibera con la quale è stata a suo tempo disposta l’assegnazione in è gestione provvisoria della farmacia in questione, sussistendo un interesse giuridicamente rilevante a non pagare al gestore provvisorio l’indennità di avviamento, la quale non è dovuta in caso di affidamento illegittimo (Cons. Stato., sez. IV, 6/4/2000, n. 1984; anche Cons. Stato., sez. IV, 30/9/2002, n. 4987; Cons. Stato., sez. IV, 39 2002, n. 4988).
6. Non è condivisibile, poi, l’argomentazione della ricorrente per cui l’art. 129 TULS, essendo una norma di «dettaglio», e non contenendo principi generali, non potrebbe essere oggetto di una interpretazione estensiva.
In realtà, infatti, la Corte costituzionale si è limitata ad affermare l’incostituzionalità dell’art. 46 della legge 16/1/2003, n. 3, nella parte in cui disciplina il fenomeno della gestione provvisoria delle farmacie e prevede una sanatoria delle stesse con assegnazione al gestore provvisorio della relativa titolarità, individuando il beneficio (costituito dall’assegnazione in titolarità della sede farmaceutica), i requisiti per accedere allo stesso, i criteri per risolvere i potenziali conflitti con altri soggetti interessati e le regole per il relativo procedimento di riconoscimento.
La questione di legittimità è infatti insorta a seguito dei ricorsi promossi da varie regioni le quali criticavano la legge statale per violazione dell’art. 117, terzo comma, Costituzione, che ascrive la disciplina in questione alla materia di competenza legislativa concorrente della tutela della salute, mentre tale disposizione impugnata non affermava alcun principio fondamentale, ma aveva carattere dettagliato, in tal senso pregiudicando qualsiasi intervento legislativo, e finanche amministrativo, della regione.
Nelle ipotesi di legislazione concorrente, infatti, ai sensi dell’art. 117 3º comma, costituzione, spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.
La critica delle regioni si incentrava, dunque, nel fatto che lo Stato, con l’emanazione della legge impugnata, aveva dettato, non principi fondamentali, ma norme di dettaglio, riservata invece alle regioni.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 87 del 2006, nel ritenere fondata la questione «ha escluso che potesse riconoscersi natura di principio ad un insieme di disposizioni contenente la disciplina in sé compiuta e auto applicativa, che, come tale, non lascia il minimo spazio non solo per un’ipotetica legifera azione ulteriore, ma persino per una normazione secondaria di mera esecuzione».
Ha aggiunto, dunque, la Corte costituzionale che «sotto il profilo strutturale non potesse riconoscersi alle disposizioni impugnate la natura di norme di principio, poiché in ipotesi si tratta di statuizioni al più basso grado di astrattezza, che, per il loro carattere di estremo dettaglio, non solo sono insuscettibili di sviluppi o di svolgimento ulteriore, ma richiedono, ai fini della loro concreta applicazione, soltanto l’attività di materiale esecuzione».
È stata esclusa, dunque, per l’estremo dettaglio delle previsioni censurate, la riconducibilità delle stesse alla competenza statale in materia di tutela della salute delineata dall’art. 117, terzo comma, della Costituzione.
Pertanto, restando nei confini delineati dall’interpretazione dell’art. 129 TULS da parte di questa Corte e della giurisprudenza amministrativa di legittimità, non può che confermarsi l’interpretazione estensiva di tale disposizione, che consente la gestione provvisoria della farmacia comunale, non solo nei casi di sospensione o di interruzione dell’esercizio farmaceutico, ma anche nelle more dello svolgimento della gara pubblica per l’assegnazione della titolarità dei servizi farmaceutici, in quanto la stessa necessità sottesa alla scelta di istituire di un nuovo esercizio farmaceutico conferma la doverosità di soddisfare le necessità della popolazione residente nell’area indicata per la nuova farmacia.
La ratio dell’art. 129 TULS è dunque quella di ammettere in via eccezionale gestione di sedi farmaceutiche senza concorso ed in via provvisoria, al solo fine di evitare pregiudizi o pericoli all’assistenza farmaceutica locale, a seguito di una carenza di esercizi farmaceutici.
Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la «violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto di cui agli articoli 91,92 e 653 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Ad avviso della ricorrente, il giudice d’appello, pur riconoscendo che il decreto ingiuntivo opposto «andava revocato in assenza dei relativi presupposti (non avendo il provvedimento amministrativo di liquidazione natura determinativa del credito)», non solo non aveva provveduto alla revoca del decreto ingiuntivo, ma aveva anche condannato l’appellante al pagamento delle spese di giudizio, ivi comprese quelle della fase monitoria.
Contrariamente a quanto statuito dalla Corte d’appello che aveva ritenuto che l’appellante non aveva un concreto interesse a far valere l’eventuale insufficienza della prova nella fase monitoria, una volta che, all’esito del giudizio ordinario, il credito fosse stato ritenuto provato, la ricorrente deduce che «l’interesse l’appellante lo aveva (e lo a) in relazione alle spese di giudizio, avendo chiesto di «revocare il decreto ingiuntivo opposto».
Ed infatti, per la ricorrente, l’accoglimento anche parziale dell’opposizione decreto ingiuntivo faceva definitivamente estinguere il provvedimento monitoria.
Per la ricorrente la Corte d’appello avrebbe quindi dovuto revocare il decreto ingiuntivo opposto e tenere conto di questa parziale soccombenza nella determinazione delle spese di giudizio, senza poter procedere alla condanna delle spese di entrambi i gradi di giudizio ivi comprese quelle della fase monitoria.
8. Il motivo è inammissibile.
Si premette che la condanna della Corte di merito è solo alle spese di appello (ipotizzando che si tratti delle spese di primo grado, non vi è uno specifico motivo di appello, a parte che la Corte ha fatto riferimento solo ad una ‘eventuale’ insufficienza probatoria del giudizio monitorio).
In realtà, la Corte d’appello non ha proceduto alla revoca del decreto ingiuntivo opposto e neppure ha affermato che il decreto ingiuntivo era stato emesso in assenza dei presupposti giustificativi, costituiti dalla prova scritta del credito.
La Corte territoriale ha, anzi, chiarito che «il tribunale non ha basato la quantificazione del credito sull’atto di determinazione dell’indennità emesso dalla Asl in data 7/5/2009».
Il giudice di secondo grado si è limitato ad affermare che «né giova all’appellante dolersi che il decreto ingiuntivo sia stato erroneamente emesso sulla base di tale atto e non sia stato successivamente revocato, in fase di opposizione, per difetto dei presupposti della remissione».
Ha chiarito, infatti, la Corte territoriale che la censura della COGNOME era inammissibile, non avendo l’appellante un concreto interesse a far valere l’eventuale insufficienza della prova nella fase monitoria, una volta che «all’esito del giudizio ordinario, il credito sia stato ritenuto provato (così spostando l’interesse a censurare l’apprezzamento sulla sufficienza della prova del credito dal decreto ingiuntivo alla sentenza che ha definito giudizio di opposizione)».
Del tutto condivisibilmente, la Corte d’appello ha affermato che l’opposizione a decreto ingiuntivo non costituisce un mezzo di impugnazione, ma dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione, teso ad accertare il fondamento della pretesa fatta valere, e non
dell’ingiunzione sia stata legittimamente messa in relazione alle condizioni previste alla legge».
Ha aggiunto la Corte d’appello che «l’eventuale carenza dei requisiti probatori per la concessione del provvedimento monitoria non comporta, di per sé, la revoca del decreto, ma può rilevare solo ai fini del regolamento delle spese processuali».
8.1. Tra l’altro, per questa Corte, il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ha ad oggetto la cognizione piena in ordine all’esistenza ed alla validità del credito posto a base della domanda d’ingiunzione. Di conseguenza deve escludersi una autonoma pronuncia sulla legittimità dell’ingiunzione di pagamento agli effetti dell’incidenza delle spese della sola fase monitoria, dato che tale fase e quella di opposizione fanno parte di un unico processo nel quale l’onere delle spese è regolato in base all’esito finale del giudizio ed alla complessiva valutazione del suo svolgimento (Cass., sez. 2, 26/10/2000, n. 14126).
L’eventuale carenza dei requisiti probatori per la concessione del provvedimento monitorio può rilevare solo ai fini del regolamento delle spese processuali e la sentenza non può essere impugnata solo per accertare la sussistenza o meno delle originarie condizioni di emissione del decreto ingiuntivo, se non sia accompagnata da una censura in tema di spese processuali (Cass., sez. 3, 23/7/2014, n. 16767).
Tra l’altro si è anche affermato che l’accoglimento parziale dell’opposizione a decreto ingiuntivo, se implica la revoca del decreto stesso, non comporta necessariamente il venir meno della condanna dell’ingiunto al pagamento delle spese della fase monitoria, la quale trova sufficiente legittimazione nella circostanza che, al momento dell’emissione dell’ingiunzione, il ricorrente abbia fornito la prova del
credito ex art. 634 c.p.c. (Cass. n. 4597 del 1984; n. 2521 del 1983; n. 4234 del 1983).
Nella specie, però, non v’è stato accoglimento, neppure parziale, dell’opposizione a decreto ingiuntivo, ma il completo rigetto della stessa.
Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente si duole della «violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto di cui agli articoli 110 e 129 R.D. n. 1265/1934; art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Ad avviso della ricorrente, infatti, nel determinare il reddito posto a base della liquidazione dell’indennità oggetto di ingiunzione la Corte ha ritenuto che la dichiarazione dei redditi «esaurisce da sola la fattispecie dell’accertamento, non essendo seguita né dall’emanazione di un atto di rettifica dell’amministrazione finanziaria, né da un’attività istruttoria volta a controllare la completezza della fedeltà della dichiarazione stessa.
Per la ricorrente, però, in realtà la giurisprudenza di legittimità stabilisce che la dichiarazione dei redditi avrebbe una funzione tipicamente ed esclusivamente fiscale, non essendo riferibile con uguale valore a rapporti estranei al sistema tributario.
La Corte territoriale, poi, ha ritenuto che la COGNOME si era limitata ad eccepire l’inattendibilità della documentazione, sul presupposto che fosse indispensabile, ai fini probatori, la produzione in giudizio dei bilanci, ma la stessa non avrebbe fornito elementi di prova dell’inesattezza e/o dell’erroneità di quelle dichiarazioni.
Per la ricorrente, però, vi era stata contestazione specifica che quanto dichiarato risultante dei dati fiscali non corrispondeva all’accertato di cui all’art. 110 TULS.
Del resto, la ricorrente aveva chiesto l’esibizione «mai concessa e mai effettuato» dei bilanci dei libri contabili nonché CTU».
10. Il motivo è infondato.
10.1. L’art. 110 del TULS è prevede espressamente la spettanza al gestore provvisorio, sia in caso di farmacia di nuova istituzione, che di farmacia già preesistente funzionante, di un’indennità di avviamento «in misura corrispondente a tre annate del reddito medio imponibile della farmacia, accertato agli effetti dell’applicazione dell’imposta di ricchezza mobiliare nell’ultimo quinquennio».
10.2. Correttamente, la Corte d’appello, rispondendo allo specifico motivo di gravame, ha affermato che «la dichiarazione dei redditi esaurisce da sola la fattispecie dell’accertamento, non essendo seguita né dall’emanazione di un atto di rettifica dell’amministrazione finanziaria, né da un’attività istruttoria volta a controllare la completezza della fedeltà della dichiarazione stessa».
È evidente, infatti, che la presentazione della dichiarazione dei redditi costituisce il principale adempimento dei contribuenti, essendo il sistema tributario italiano caratterizzato da una tassazione «di massa», che poggia proprio sull’adempimento dei contribuenti che provvedono alla autoliquidazione delle proprie imposte, con successivi controlli da parte della pubblica amministrazione.
Si tratta, perlopiù, di controlli automatizzati, come quelli di cui all’art. 36bis del d.P .R. n. 600 del 1973, quanto alle imposte sui redditi, e dall’art. 54bis del d.P.R. n. 633 del 1972, quanto all’Iva.
Tra l’altro, per costante giurisprudenza di legittimità, ai fini della determinazione dell’indennità di avviamento spettante al gestore provvisorio della farmacia, deve farsi riferimento proprio le dichiarazioni dei redditi del gestore.
Si è in particolare affermato che «neppure, inoltre, merita accoglimento il profilo di censura concernente la quantificazione del reddito effettuata sulla scorta delle relative dichiarazioni, in quanto,
secondo la ricorrente, ciò avrebbe determinato una violazione dell’art. 110, cit., che richiederebbe, invece, di fare riferimento al reddito ‘accertato’» (Cass., sez. 1, 19/9/2003, n. 13891).
Ed infatti, si è ritenuto che «indipendentemente dalla configurazione che si dà della dichiarazione dei redditi, occorre considerare che successivamente alle leggi di riforma tributaria essa ha visto sensibilmente ampliare la sua rilevanza nello schema attuativo del prelievo, tant’è che, nella normalità dei casi, esaurisce da sola la fattispecie dell’accertamento, non essendo seguita né dall’emanazione di un atto di rettifica dell’amministratore finanziaria, né da un’attività istruttoria volta a controllare la completezza della fedeltà della dichiarazione stessa».
Pertanto, ha aggiunto questa Corte che la dichiarazione dei redditi assume «un ruolo essenziale nel procedimento di accertamento e vale a determinare la base imponibile, salvo che la messa sulle finanziaria, con le modalità a questo scopo stabilite dimostri l’incompletezza, l’infedeltà o l’inesattezza dei fatti dichiarati».
L’art. 110 del TULS, dunque, ha attribuito anche nei rapporti tra privati immediata e diretta rilevanza al reddito accertato ai fini fiscali.
Grava, invece, sul soggetto che contesta il valore della dichiarazione dei redditi l’onere di allegare e dimostrare l’eventuale erroneità ed inesattezza della dichiarazione, ovvero l’avvenuta rettifica della dichiarazione dei redditi da parte dei competenti uffici (Cass. n. 13891 del 2003 ).
Non può non ricordarsi la recente sentenza della Corte costituzionale n. 46 del 2023 ove si è evidenziato che «un sistema di fiscalità di massa poggia sull’architrave dell’autoliquidazione delle imposte, cui deve corrispondere, nell’ambito dell’imposta sui redditi, la fedele compilazione e la tempestiva presentazione della
dichiarazione, che costituisce uno degli atti più importanti nell’ambito della disciplina attuativa di tale imposta», con la precisazione per cui «tramite la dichiarazione dei redditi il contribuente è pertanto chiamato a collaborare – in quanto ciò è finalizzato all’adempimento di un dovere inderogabile di solidarietà (ex plurimis, sentenza n. 288 del 2019) – con l’amministrazione finanziaria, esponendosi quindi ai relativi controlli».
Si è dunque chiarito, con la sentenza della Corte costituzionale n. 46 del 2023, che «tale dichiarazione ha, infatti, una rilevanza procedimentale: consente all’Agenzia delle entrate, innanzitutto, di attivare i controlli automatizzati e formali, di cui, rispettivamente, agli artt. 36-bis e 36-ter del d.P.R. n. 600 del 1973; condiziona poi l’accertamento e determina, in particolare, i metodi di rettifica del reddito dichiarato» e che «in tal modo la presentazione della dichiarazione agevola le attività dell’amministrazione finanziaria, che dovrà invece ricorrere ad altri e più impegnativi strumenti nei confronti di quei contribuenti che, non assumendo tale atteggiamento collaborativo, presumibilmente sono orientati a sottrarsi totalmente al versamento delle imposte dovute».
11. Con il quinto motivo di impugnazione la ricorrente deduce la «violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto di cui all’art. 110 RD n. 1265/1934 (con riguardo alla quantificazione e liquidazione delle indennità di avviamento), in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
La ricorrente con l’atto d’appello ha dedotto che il criterio matematico previsto dall’art. 110 TULS, posto a base di calcolo della determinazione dell’eredità di avviamento, presuppone una durata della gestione di almeno 5 anni.
Nella specie, invece, i cinque anni non erano decorsi, dovendo scadere il termine il 4/5/2005, poiché la gestione provvisoria era iniziata il 2/5/2000.
Infatti, la cessazione della gestione provvisoria era avvenuta con il provvedimento del sindaco del 21/1/2005, quando non erano ancora decorsi i 5 anni, mancando 103 giorni.
Per giurisprudenza costante di legittimità, nel caso di durata della gestione provvisoria per un tempo occorreva procedere ad una liquidazione «secondo criteri concreti, svincolati da un mero conteggio matematico», affidati al prudente apprezzamento del giudice di merito.
Con il sesto motivo di impugnazione la ricorrente si duole della «violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto di cui agli articoli 110 e 129 RD n. 1265/1934; art. 5 dell’allegato E del RD 2248/1865; art. 2033 c.c. con riguardo alla mancata restituzione della somma versata in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Per la ricorrente, la richiesta di restituzione della somma di euro 85.739,71, costituiva l’ovvia conseguenza dell’invocata illegittimità della gestione provvisoria affidata al Caramia.
Trattandosi di gestione provvisoria illegittima, non poteva sorgere in capo a quest’ultimo alcun diritto alla liquidazione dell’indennità.
Il pagamento era stato effettuato dalla COGNOME solo per evitare di incorrere nella sanzione della decadenza dall’assegnazione della sede farmaceutica n. 10 di nuova istituzione di Monopoli, prevista dalla normativa e «minacciata nella nota del 5/8/2004 della regione Puglia», senza alcun riconoscimento di debito nei confronti del RAGIONE_SOCIALE.
Tuttavia, «la disapplicazione del provvedimento autorizzativo illegittimo della gestione provvisoria e degli atti conseguenti avrebbe qualificato il pagamento quale indebito oggettivo ai sensi dell’art. 2033 c.c. con conseguente obbligo di restituzione».
Il quinto motivo è infondato.
13.1. Effettivamente, nell’ipotesi in cui la gestione provvisoria della farmacia abbia una durata inferiore ai 5 anni, per giurisprudenza di legittimità, l’indennità di avviamento non può essere più determinata in base alle tre annate del reddito medio imponibile della farmacia, accertato agli effetti dell’applicazione dell’imposta di ricchezza mobile nell’ultimo quinquennio, ma in base al prudente apprezzamento del giudice.
Nella specie, è pacifico che la gestione provvisoria della farmacia sia avvenuta per un periodo inferiore ai 5 anni.
Infatti, l’esercizio provvisorio e iniziato il 2/5/2000 e si è protratto sino al 31/1/2005, come da provvedimento del sindaco in data 21/1/2005.
La nuova gestione da parte della RAGIONE_SOCIALE è avvenuta a partire dal 1/2/2005.
È pacifico, peraltro, che ai fini della determinazione del quinquennio deve tenersi conto del provvedimento che dispone la cessazione della gestione provvisoria della farmacia, e non di attività che si svolgono in precedenza, quali la pubblicazione del decreto di assegnazione definitiva della farmacia (nella specie avvenuta in data 29/7/2004) oppure il completamento dell’offerta reale (avvenuto l’1/9/2004) o ancora della richiesta di attivazione della nuova sede, avvenuta il 21/12/2004.
La locuzione ultimo quinquennio non può che esprimere l’ultimo quinquennio di gestione provvisoria (Cass., sez. 1, 26/6/1995, n. 7220).
Si è chiarito, quindi, che nella determinazione dell’indennità di avviamento che deve essere corrisposta dal vincitore di pubblico concorso di farmacia gestita in via provvisoria al precedente gestore (artt. 110, R.D. n. 1265 del 1934, 17, legge n. 475 del 1968), “in misura corrispondente a tre annate del reddito medio imponibile della farmacia, accertato agli effetti dell’applicazione dell’imposta di ricchezza mobile (oggi IRPEF) nell’ultimo quinquennio”, quest’ultimo arco temporale va computato facendo riferimento alla data in cui cessa effettivamente la gestione, in virtù del provvedimento amministrativo il quale espressamente dispone che la stessa abbia termine, non già alla data in cui sono adottati gli ulteriori provvedimenti destinati a realizzare la sostituzione nella titolarità della gestione della farmacia (Cass., sez. 1, 19/9/2003, n. 13891).
Per questa Corte, dunque, nella determinazione dell’indennità di avviamento che il nuovo titolare di una farmacia deve corrispondere al titolare precedente, i criteri previsti nell’art. 110 R.D. 27 luglio 1934 n. 1265 sono vincolanti solo allorquando ricorrano in concreto tutti gli elementi di fatto che ne consentono la puntuale applicazione; quando invece la gestione ha avuto durata inferiore al quinquennio l’indennità deve essere liquidata secondo criteri concreti, affidati al prudente apprezzamento del giudice del merito, sulla base di una complessiva valutazione della fattispecie e tenendo conto della durata effettiva della gestione (Cass., sez. 1, 24/7/2000, n. 9670; Cass., sez. 1, 8/9/1995, n. 9477; Cass., sez. 1, 6/4/1994, n. 3269).
Nel caso di durata inferiore ai cinque anni, dunque la quantificazione dell’indennità di avviamento deve essere effettuata in base a criteri, affidati al prudente apprezzamento del giudice del merito in relazione ad ogni circostanza del caso concreto, che consentano di assicurare un risultato analogo, rendendola proporzionale all’effettiva durata della gestione della farmacia ed
all’entità dei proventi con la stessa ricavati (Cass., sez. 1, 17/10/1986, n. 6099).
La Corte d’appello, benché abbia reputato applicabile il criterio automatico dei valori della dichiarazione dei redditi di cui all’art. 110 TULS – nonostante la gestione provvisoria della durata inferiore a 5 anni -tuttavia ha di fatto compiuto un’autonoma e discrezionale valutazione dell’importo dell’indennità di avviamento.
Da un lato, infatti, la Corte territoriale ha evidenziato che «la dedotta esigenza di acquisire i bilanci non si è tradotta in un’istanza di esibizione (necessariamente da proporsi entro il termine perentorio di cui all’art. 186, 6º comma, n. 2, c.p.c.)».
Dall’altro lato, ha anche evidenziato « come sia la stessa appellante che, nel domandare il risarcimento del danno da mancato guadagno nel periodo compreso tra il 29/7/2004 del 31/1/2005, lo quantifica in euro 150.000,00, ovvero in misura persino superiore rispetto al reddito dichiarato dal Caramia (euro 154.428,00 in relazione all’intero anno 2004), con ciò implicitamente confermando l’attendibilità del dato reddituale dichiarato» .
Ciò che in tal modo è stata svolta è proprio una valutazione affidata al prudente apprezzamento.
15.Il sesto motivo è assorbito.
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico della ricorrente si liquidano come da dispositivo.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente a rimborsare in favore del controricorrente le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi euro 6.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, Iva e cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7 febbraio 2025