Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 6842 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 6842 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 14889/2021 r.g. proposto da:
COGNOME NicolaCOGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, la quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni e le notificazioni relative a questo procedimento a ll’ indirizzo di posta elettronica certificata indicato.
-ricorrente –
contro
Provincia di Potenza, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME in servizio presso l’avvocatura provinciale, come per mandato in calce al controricorso, la quale dichiara di voler ricevere tutti gli avvisi e le comunicazioni di cancelleria all’indirizzo di posta elettr onica certificata indicato
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Potenza n. 409/2020, depositata il 13/7/2020
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 11/3/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
NOME COGNOME quale coltivatore diretto ed affittavolo, con due contratti stipulati il 2/3/1988 ed il 26/1/1986, dei terreni di proprietà di NOME COGNOME e di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, chiedeva la condanna dei convenuti Provincia di Potenza e comune di Senise, al pagamento dell’indennità aggiuntiva, prevista dall’art. 17 della legge n. 865 del 1971, a seguito della occupazione dei fondi per la costruzione di opere pubbliche.
L’attore produceva varia documentazione: domanda di iscrizione allo SCAU per la posizione assicurativa; dichiarazione di possesso dei terreni agricoli presentata il 22/3/1988; ricorso per la risoluzione del contratto di affitto dei terreni iscritto presso il tribunale di Lagonegro; i verbali della causa agraria n. 383/2001, «da cui risultava per ammissione dello stesso ricorrente e a mezzo testi che il COGNOME effettivamente coltivava i terreni»; verbale di udienza del 24/10/2002 contenente l’accordo per la risoluzione del contratto.
In corso di causa, poi, il tribunale d’ufficio acquisiva documenti presso l’Inps «attestante la qualità di coltivatore diretto dell’attore e la posizione occupazionale dello stesso», nonché «informazioni scritte presso la Guardia di Finanza relative alla situazione reddituale dell’attore».
Veniva anche espletata la prova testimoniale «circa la conduzione e la coltivazione dei terreni».
Il tribunale, respinta la richiesta di CTU per la quantificazione dell’indennità, rigettava la domanda, dando atto che l’attore «pur avendo fornito la prova documentale che fosse affittuario dei fondi interessati dalle procedure espropriative, non ha fornito la prova della propria qualità di coltivatore diretto, supponendo che egli gestiva l’azienda agricola con metodi imprenditoriali dando valore a tre indizi interpretati in modo erroneo».
2.1. In primo luogo, il tribunale dava rilevanza all’affermazione dell’attore «di aver condotto un’azienda agricola» .
2.2. Inoltre, l’attore avrebbe «dichiarato redditi notevolmente superiori alle spese per acquisti».
In particolare, i «redditi» dichiarati dal COGNOME ammontavano nel 1996 e nel 1997, rispettivamente a lire 8.514.000 e lire 10.366.000 a fronte di acquisti per lire 6.452.000 e lire 9.572.000. L’attore avrebbe percepito redditi dal Comune di Senise nel 1998 di lire 4.130.000 e nel 1999 di lire 2.381.000.
2.3. L’attore avrebbe condotto «fondi di vasta estensione, implicanti necessariamente una organizzazione di tipo imprenditoriale».
Si contestava, insomma, all’attore di aver esercitato «la coltivazione e la produzione agricola con prevalenza del fattore lavoro, impiego prevalente di manodopera subordinata e senza destinare in via almeno prevalente i prodotti del fondo a sostentamento proprio della propria famiglia».
La Corte d’appello di Potenza, con sentenza n. 409/2020, pubblicata il 13/7/2020, rigettava il gravame.
In particolare, la Corte territoriale reputava il motivo inammissibile per genericità.
L’attore avrebbe avuto l’onere di dimostrare la sussistenza degli elementi costitutivi del diritto all’indennità aggiuntiva (coltivazione diretta dei fondi, destinazione prevalente dei prodotti al sostentamento proprio e della propria famiglia, prevalenza dell’organizzazione del lavoro al fattore umano su quello capitale).
Inoltre non avrebbe neppure «contrastato in modo specifico e puntuale la prova contraria offerta dalla controparte, seppure a mezzo di presunzioni semplici».
Analogamente inammissibile era il secondo motivo di impugnazione sulle spese di lite, che «pecca di genericità, non indicando quali siano i giusti motivi che possano ragionevolmente consentire la deroga ai principi di soccombenza e causalità».
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME depositando anche memoria scritta.
Ha resistito con controricorso la Provincia di Potenza.
È rimasto intimato il Comune di Senise.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la «violazione dell’art. 111 della Costituzione e dell’art. 342 c.p.c., vecchia formulazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., per avere respinto l’appello per genericità dei motivi. Motivazione apparente.
In particolare, l’attore aveva impugnato la sentenza di prime cure lamentandosi «che il tribunale non aveva valutato le prove documentali e testimoniali offerte ed acquisite che provavano la sua qualità di coltivatore diretto».
Il tribunale aveva dato rilievo a tre elementi indiziari: a) l’avere l’attore affermato di aver condotto un’azienda agricola; b) l’avere dichiarato redditi notevolmente superiori alle spese per acquisti; c)
l’avere condotto fondi di vasta estensione, implicanti necessariamente una organizzazione di tipo imprenditoriale.
La Corte d’appello ha ritenuto inammissibile il motivo per genericità, in quanto sarebbe stato onere dell’attore dimostrare la sussistenza degli elementi costitutivi del diritto all’indennità aggiuntiva, ed in particolare la coltivazione diretta dei fondi, la destinazione prevalente dei prodotti a sostentamento proprio della propria famiglia, la prevalenza dell’organizzazione del lavoro al fattore umano su quello capitale.
Inoltre, l’attore non avrebbe «neppure contrastato in modo specifico e puntuale la prova contraria offerta dalla controparte, seppure a mezzo di presunzioni semplici».
Analoga sorte era toccata anche al motivo sulle spese di lite, non avendo fornito l’appellante elementi per valutare i giusti motivi che avrebbero ragionevolmente portato la compensazione.
In realtà, per il ricorrente, v’era stata una specifica presa di posizione da parte sua in ordine ai tre indizi valorizzati dal tribunale.
1.1. Con riferimento all’affermazione dell’attore in ordine al fatto di avere condotto in affitto un’azienda agricola, in realtà stava a significare «l’insieme dei terreni con le scorte, eventualmente gli animali e l’attrezzatura agricola occorrente per la coltivazione, non certamente l’azienda intesa come quel complesso di beni mobili ed immobili, attrezzature e capitali atti allo svolgimento dell’attività imprenditoriale».
Si trattava, dunque, di una «improprietà di linguaggio che certamente non può costituire un indizio grave su cui fondare il giudizio, come ha fatto il tribunale».
1.2. In relazione, poi, ai «redditi dichiarati» dall’attore nel corso degli anni, e segnatamente per gli anni 1996, 1997, 1998 e 1999, si trattava di ‘redditi’ «successivi alla maturazione del diritto
all’indennità che si acquisisce con l’occupazione del terreno, avvenuta in tempi decisamente anteriori almeno per quanto riguarda l’esproprio della Provincia formalizzato con l’atto di cessione del 1994 e quello del Comune di Senise che riguarda la costruzione dei 40 alloggi avvenuta il 18/6/1992, come provato con i documenti 6 e 7».
Aggiungeva nell’atto d’appello l’attore che «per quanto riguarda l’esproprio per la costruzione della nuova casa comunale iniziato con la cessione volontaria del 1999 appare del tutto erronea la motivazione del tribunale che ritiene i predetti redditi indizi idonei a supportare la prova di imprenditore di fatto del COGNOME, dal momento che lo stesso tribunale non fornisce alcun parametro per individuare una soglia al di sotto della quale si può essere definiti coltivatori diretti indigenti».
Nell’atto d’appello l’attore precisava che proprio la modestia di tali redditi non avrebbe consentito ad una persona di «sopravvivere insieme alla sua famiglia o seppure non siano la prova che COGNOME ha tratto di ulteriori mezzi di sostentamento proprio dalla coltivazione dei terreni, così integrando i suoi guadagni per la sopravvivenza».
Senza contare che dal 1985 al 1996 «il COGNOME non ha dichiarato redditi a dimostrazione che ha tratto il sostentamento della famiglia dedicandosi in via esclusiva la coltivazione dei terreni condotti in affitto e che in questo periodo essendo stati occupati per la costruzione delle opere pubbliche, si è ridotta sensibilmente la capacità produttiva e di conseguenza il sostentamento della sua famiglia».
1.3. In relazione al terzo indizio, poi, l’appellante ha sottolineato che «per quanto riguarda l’estensione dei terreni, ciò non appare elemento decisivo per escludere che l’attore di coltivasse direttamente, sussistendo agli atti le prove testimoniali che
attestano la concreta utilizzazione agraria dei terreni con il lavoro proprio del COGNOME».
Inoltre, «l’estensione della superficie può implicare l’uso di mezzi agricoli con lo scambio di manodopera ma agli atti non vi è alcuna prova che questa fosse prevalente rispetto al lavoro del COGNOME e della sua famiglia, tanto è vero che il tribunale lo presume con motivazione che contrasta con le prove testimoniali».
Il tribunale aveva dunque presunto l’attività imprenditoriale «a discapito della copiosa produzione documentale e circostanziata prova testimoniale».
Con il secondo motivo di impugnazione ricorrente deduce la «violazione dell’art. 111 Costituzione e degli articoli 112,115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., per aver respinto l’appello con motivazione apparente, senza aver posto a fondamento della decisione le prove offerte dall’attore ed omettendo la loro valutazione».
L’affermazione della Corte territoriale per cui l’attore non ha assolto all’onere probatorio al fine di dimostrare la sua qualità di coltivatore diretto sarebbe «del tutto avulso e contrastante con le risultanze di causa e dimostra che la Corte territoriale, con motivazione apparente, ha omesso di esaminare le istanze formulate dall’appellante, violando anche l’art. 112 c.p.c.».
La Corte d’appello avrebbe dovuto «esaminare le prove», per accertare quanto sostenuto dall’appellante, verificando che: l’attore era iscritto all’Inps, gestione SCAU dall’1/1/1985; conduceva in affitto i terreni espropriati; era in grado di coprire il fabbisogno lavorativo per la coltivazione dei terreni in base ad estensione aziendale come risultante dalla dichiarazione di possesso dei terreni agricoli e dei capi di bestiame.
Il primo motivo è fondato, con assorbimento del secondo.
3.1. Invero, per giurisprudenza consolidata di legittimità, gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di ‘ revisio prioris instantiae ‘ del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (Cass., sez. 1, n. 3327 del 2023; Cass., sez.un., 16 novembre 2017, n. 27199; Cass., sez. 6-3, 17 dicembre 2021, n. 40560; Cass., sez. 6-3, 30 maggio 2018, n. 13535).
Da ultimo, i medesimi principi sono stati estesi da questa Corte (Cass., Sez. U., 13 dicembre 2022, n. 36481) anche all’impugnazione avverso le pronunce del tribunale regionale delle acque pubbliche (TRAP) dinanzi al tribunale superiore delle acque pubbliche (TSAP).
Si è anche aggiunto che, ai fini della specificità dei motivi d’appello richiesta dall’art. 342 c.p.c., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, può sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, non essendo necessaria l’allegazione di profili fattuali e giuridici aggiuntivi, purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice (Cass., sez. 2, 28 ottobre 2020, n. 23781).
3.2. Trattandosi di error in procedendo è consentito a questa Corte l’accesso agli atti del fascicolo di merito, avendo il ricorrente provveduto a trascrivere, almeno per stralci, il contenuto dell’atto di appello da lui redatto, nei passaggi in cui ha criticato la sentenza impugnata.
Pertanto, esaminando l’appello del COGNOME per come riportato nel motivo di ricorso per cassazione, emerge che le tre argomentazioni del giudice di prime cure sono state tutte compitamente censurate.
L’art. 17 della legge 22/10/1971, n. 865, stabilisce, al primo comma, che «nel caso che l’area da espropriare sia coltivata dal proprietario diretto coltivatore, nell’ipotesi di cessione volontaria ai sensi dell’art. 12, primo comma, il prezzo di cessione è determinato in misura tripla rispetto all’indennità provvisoria, esclusa la maggiorazione prevista dal suddetto art.».
Il secondo comma dell’art. 17 della legge n. 865 del 1971 si soffermava, invece, sulla posizione dei coltivatori diretti diversi dal proprietario, prevedendo che «el caso invece che l’espropriazione attenga a terreno coltivato dal fittavolo, mezzadro, colono o compartecipante, costretto ad abbandonare il terreno stesso, ferma restando l’indennità di espropriazione determinata ai sensi dell’art. 16 in favore del proprietario, uguale importo dovrà essere corrisposto al fittavolo, al mezzadro al colono o al compartecipante che coltivi il terreno espropriando almeno da un anno prima della data di deposito della relazione di cui all’art. 10».
Era, dunque, escluso dal novero dei soggetti aventi diritto all’indennizzo aggiuntivo di cui all’art. 17 della legge n. 865 del 1971, l’imprenditore agricolo, il quale esercitava la coltivazione e produzione agricola con prevalenza del fattore capitale sul lavoro e con impegno prevalente di manodopera subordinata, senza che tale
esclusione potesse ritenersi in contrasto con il principio di uguaglianza, avuto riguardo alla differenza esistente tra il predetto ed i soggetti menzionati dall’art. 17 della legge n. 865 del 1971 (Cass., sez. 1, 31/7/2019, n. 20658: che richiama Cass. n. 3706 del 24/2/2015; Cass., n. 12306 del 15/5/2008; Cass. n. 2477 del 19/2/2003).
Nella giurisprudenza più datata, la nozione di imprenditore agricolo viene rinvenuta nel combinato disposto degli articoli 2083, 2135 e 2751bis c.c., trascurando altre definizioni ad efficacia settoriale.
L’elemento qualificante della coltivazione diretta sussiste, invece, in tutte quelle ipotesi in cui la coltivazione del fondo da parte del titolare avviene con la prevalenza del lavoro proprio e di persone della sua famiglia, in presenza di uno dei rapporti agrari tipici previsti dalla norma, con onere della prova, ai sensi dell’art. 2697 c.c., a capo del soggetto che intende trarre conseguenze favorevoli (Cass., n. 11013 del 2013; anche Cass., sez. 1, 12/12/2002, n. 17714).
Resta escluso dal novero degli aventi diritto l’imprenditore agricolo, ossia colui che eserciti la coltivazione e la produzione agricola professionalmente mediante coordinamento dei fattori della produzione ex art. 2082 c.c., e non svolga dunque attività di diretta utilizzazione agraria del terreno (Cass., sez. 1, 19/2/2003, n. 2477).
La qualità di imprenditore agricolo deve, invece, essere provata dal convenuto che la invochi in via di eccezione (Cass., sez. 1, 15/5/2008, n. 12306).
L’indennità aggiuntiva è stata riconosciuta, dunque, ai coltivatori diretti, ossia ai soggetti che traggono i propri mezzi di sostentamento dalla coltivazione del suolo. In tal caso è necessario, non solo la titolarità di uno dei rapporti agrari tipici (Cass., sez. 1, 11/9/2015, n. 17972), ma anche la coltivazione del fondo da parte
dell’istante con prevalenza del lavoro proprio e di persone della sua famiglia. Il requisito della prevalenza deve essere a sua volta valutato sulla base del rapporto tra la forza lavorativa totale, occorrente per la lavorazione del fondo, e la forza lavoro riferibile al titolare ed ai membri della sua famiglia, indipendentemente dall’apporto di mezzi meccanici, in tal modo distinguendo il coltivatore diretto dalla figura dell’imprenditore agricolo, il quale esercita l’attività di coltivazione e produzione agricola con prevalenza del fattore capitale sul fattore lavoro, e con impegno prevalente di manodopera subordinata (Cass., sez. 1, 24/2/2015, n. 3/7/06; anche Cass., sez. 1, 9/11/2018, n. 28788).
La qualità di coltivatore diretto può essere dimostrata anche mediante certificazioni o, comunque, con accertamenti di fatto del giudice di merito (Cass., sez. 1 15/5/2008, n. 12306, ove la qualità di coltivatore diretto è stata dedotta dalle dimensioni non eccessive del fondo affittato – circa 5 ha – tale da rendere plausibile la coltivazione personale delle aree affittate con mezzi meccanici e con l’aiuto occasionale di familiari di terzi; anche Cass., sez. 1, n. 13518 del 2015 , in motivazione; Cass., sez. 1, 6/6/2019, n. 15414, che ha reputato sussistente la qualifica di coltivatori diretti, dimostrata mediante produzione di certificazione Inps attestante la loro iscrizione a fini previdenziali).
Per la dottrina la prova della qualità di coltivatore diretto può essere fornita con ogni mezzo, anche mediante certificazione del servizio dei contributi agricoli unificati o tramite atto notorio, fatta sempre salva la facoltà dell’espropriante di compiere attraverso i propri organi, o gli organi di polizia, le opportune indagini.
Con circolare n. 650/A 1, 9/2/1978, il Ministero dei Lavori Pubblici ha precisato che, affinché sussista la qualifica di coltivatore diretto, devono ricorrere i seguenti requisiti: professionalità, intesa
come abitualità e prevalenza dell’attività del coltivatore e della propria famiglia (in senso lato) rispetto a quella svolta da soggetti estranei nell’ambito dell’impresa agricola; svolgimento diretto dell’attività di coltivazione del fondo, o di attività agricole connesse, anche se con l’ausilio di collaboratori estranei alla famiglia (sempre in senso lato).
Si è precisato anche che il pagamento dell’indennità a seguito di dichiarazione resa dall’avente diritto, con le formalità di cui all’art. 4, della legge n. 15 del 4/1/1968, non introduce un sistema di prova legale, vincolante per l’espropriante, sicché detta dichiarazione, in caso di contestazione giudiziale da parte dell’espropriante, ha valore di puro elemento indiziario, liberamente valutabile dal giudice del merito (Cass., sez. 1, 14/5/92, n. 5746).
Nella specie, però, l’atto d’appello articolato dal COGNOME ha censurato specificamente tutte e tre le presunzioni semplici utilizzate dal tribunale per non riconoscere la qualifica di coltivatore diretto in capo all’attore e per respingere la sua domanda.
In particolare, quanto all’affermazione resa dal COGNOME per cui sarebbe stato titolare di una «azienda agricola», nell’atto d’appello l’attore si è confrontato con tale argomentazione del tribunale, evidenziando specificamente che «l’aver definito il compendio dei terreni come azienda agricola sta a significare appunto l’insieme dei terreni con le scorte, eventualmente gli animali e l’attrezzatura agricola occorrente per la coltivazione, non certamente l’azienda intesa come quel complesso di beni mobili ed immobili, attrezzature e capitali atti allo svolgimento dell’attività imprenditoriale».
Con riguardo, poi alla circostanza che il tribunale ha preso in considerazione, quanto ai redditi, gli anni 1996, 1997, 1998 e 1999, l’appellante ha rimarcato che tali annualità sono successive «alla maturazione del diritto all’indennità che si acquisisce con
l’occupazione del terreno, avvenuta in tempi decisamente anteriori almeno per quanto riguarda l’esproprio della Provincia formalizzato con l’atto di cessione del 1994 e quello del Comune di Senise che riguarda la costruzione dei 40 alloggi avvenuta il 18/6/92, come provato con i documenti 6 e 7».
Ha anche aggiunto l’appellante che «in ogni caso risulta che dal 1985 al 1996 COGNOME non ha dichiarato redditi a dimostrazione che ha tratto il sostentamento della famiglia dedicandosi in via esclusiva alla coltivazione dei terreni condotti in affitto e che in questo periodo essendo stati occupati per la costruzione delle opere pubbliche, si è ridotta sensibilmente la capacità produttiva e di conseguenza sostentamento della sua famiglia».
L’appellante anche sottolineato che «per quanto riguarda l’estensione dei terreni, ciò non appare elemento decisivo per escludere che l’attore li coltivasse direttamente, sussistendo agli atti le prove testimoniali che attestano la concreta utilizzazione agraria dei terreni con il lavoro proprio del COGNOME».
Pertanto, non può non condividersi il motivo di ricorso per cassazione relativo all’erronea affermazione della Corte d’appello in ordine alla inammissibilità dell’appello articolato dal COGNOME per genericità.
Resta assorbito il secondo motivo di ricorso.
La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’appello di Potenza, in diversa composizione, che provvederà anche alla determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con
rinvio alla Corte d’appello di Potenza, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio dell’11 marzo 2025