Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 19761 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 19761 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 17/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 6944-2020 proposto da:
COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che unitamente all’avvocato NOME COGNOME lo rappresentano e difendono giusta procura a margine del ricorso;
-ricorrente –
contro
COGNOME NOMECOGNOME NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, LARGO INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che, unitamente agli
avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME la rappresentano e difendono giusta procura a margine del controricorso;
-controricorrente –
nonché contro
NOMECOGNOMENOME COGNOME
-intimata – avverso la sentenza n. 5551/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 09/12/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 1/7/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME Lette le memorie delle parti;
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
1. Il Tribunale di Padova, decidendo sull’opposizione proposta da NOME COGNOME e dalla moglie NOME COGNOME avverso il decreto ingiuntivo in favore di NOME COGNOME per il pagamento della propria parcella, approvata dal Collegio dei Ragionieri e periti commercialisti di Padova, relativa all’attività professionale prestata asseritamente in favore degli opponenti, con sentenza n. 732 del 29 febbraio 2016, condannava gli opponenti, in via solidale, al pagamento dell’importo ritenuto congruo dal C.T.U. e condannava l’opposto alla restituzione del maggior importo ricevuto dagli opponenti.
NOME COGNOME in proprio e come erede di NOME COGNOME COGNOME nel frattempo deceduto, interponeva appello avverso tale sentenza.
Si costituiva in giudizio NOME COGNOME chiedendo il rigetto dell’impugnazione e proponendo appello incidentale, sollecitando la liquidazione dell’intero compenso in luogo della minor somma riconosciuta dalla sentenza di primo grado, per l’attività di assistenza tecnico professionale svolta nella fase preliminare e definitiva di cessione di quote societarie.
La Corte d’Appello di Venezia, con sentenza n. 5551 del 9 dicembre 2019, nell’accogliere l’appello principale e rigettare l’appello incidentale, revocava il decreto ingiuntivo opposto e condannava NOME COGNOME alla restituzione in favore dell’appellante della somma ricevuta.
In primo luogo, il giudice di secondo grado riteneva che l’incarico fosse stato conferito al commercialista da NOME COGNOME COGNOME non in proprio ma in qualità di Presidente del Consiglio di amministrazione della società RAGIONE_SOCIALE e, dunque, in nome e nell’interesse della società, e che l’oggetto del detto incarico fosse circoscritto a quanto indicato nella missiva di incarico datata 11 gennaio 2005.
La Corte escludeva, inoltre, la sussistenza di un incarico conferito da NOME COGNOMErilevando la sua carenza di legittimazione passiva sia in proprio sia come erede di NOME COGNOME COGNOME -non avendo la stessa sottoscritto l’incarico dell’11 gennaio 2005 e non essendoci altre prove da cui desumere alcun conferimento di incarico.
Per la cassazione di tale sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso sulla base di quattro motivi.
NOME COGNOME in proprio e in qualità di erede del marito NOME COGNOME COGNOME, ha resistito con controricorso.
NOME COGNOME figlia ed erede dell’originaria parte opponente, non ha svolto difese in questa fase.
Le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.
Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1388, 2475 bis, 2380 bis, 2476, 2381, 832 e 2469 c.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per non aver la Corte territoriale, nel determinare il soggetto che aveva conferito l’incarico professionale a COGNOME (D’Arcais o la società RAGIONE_SOCIALE), considerato quale fosse l’interesse sotteso alle singole attività svolte dal professionista in adempimento di tale incarico. In particolare, avrebbe errato il giudice di secondo grado nell’affermare che l’incarico professionale fosse stato conferito da NOME COGNOME non in proprio ma per conto della società RAGIONE_SOCIALE nella sua veste di Presidente.
A parere del ricorrente, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto concludere che le attività svolte erano state commissionate a titolo personale e non per conto e nell’interesse della società RAGIONE_SOCIALE sostenendo la necessaria esistenza, affinché gli effetti di un atto dell’amministratore possano essere imputati all’ente rappresentato, di un suo interesse che, per essere tale, deve avere una qualche attinenza con l’oggetto sociale della società e l’attività da questa posta in essere.
Secondo il ricorrente le diverse attività di consulenza espletate sarebbero, invece, estranee all’oggetto sociale dell’ente e atterrebbero ad un interesse personale del conferente l’incarico, in quanto finalizzate non solo ad ottenere i compensi per le prestazioni mediche rese nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE
una stima del patrimonio sociale in vista della cessione delle sue quote societarie, ma anche ad evitare profili di responsabilità personale nell’esercizio della sua veste di amministratore della detta società.
Il motivo è infondato.
La sentenza impugnata è pervenuta, in riforma della sentenza di primo grado, alla conclusione per la quale al ricorrente era stato sì conferito un incarico professionale da parte del defunto NOME COGNOME COGNOME ma non in proprio, ma nella specifica qualità di Presidente del CDA della RAGIONE_SOCIALE
A tal fine è stato valorizzato il contenuto della missiva di incarico recante la data dell’11 gennaio 2005, nella quale si specificava che il conferimento del mandato professionale proveniva da parte di colui che agiva in qualità di Presidente del CDA, e consisteva nella revisione dell’operato dell’amministratore delegato della stessa società, tramite accesso alle scritture contabili ed alla situazione economico patrimoniale.
La Corte d’Appello ha corroborato il convincimento, già ricavabile dal solo testo della lettera de qua, facendo richiamo ad una precedente missiva del dicembre del 2004, nella quale si ribadiva che l’amministratrice delegata doveva astenersi dallo spostare altrove la documentazione contabile della società, onde favorire una conoscenza della situazione patrimoniale in vista del successivo e prossimo CDA.
E’ stata perciò tratta la conclusione per cui l’incarico di cui alla missiva del 2005 fu conferito dal NOME COGNOME onde ottenere un quadro della situazione della società, la cui attività era all’epoca dei fatti connotata da una elevata conflittualità tra i titolari delle
quote, e che si riproduceva nel contrasto esistente tra Presidente del CDA ed amministratrice delegata, al fine di poter adempiere in maniera adeguata al compito demandatogli dalla legge, quale Presidente del CDA, di dare un’adeguata informazione ai componenti del CDA, come appunto prescritto dall’art. 2381 c.c..
Per l’effetto è stato reputato che l’attività svolta dal COGNOME su sollecitazione dell’opponente era da ritenersi riferibile direttamente alla società per il rapporto di rappresentanza organica, così che alcuna pretesa poteva essere avanzata nei confronti del NOME COGNOME in proprio.
Così riassunte le motivazioni della sentenza impugnata, si palesa con evidenza come la critica di cui al motivo in esame si sostanzia in un’inammissibile censura all’apprezzamento di merito operato dal giudice di appello, con motivazione logica e coerente, e che quindi la censura aspiri ad una rivalutazione del fatto, inammissibile in sede di legittimità, risultando anche le dedotte violazioni di legge conseguenziali ad una ricostruzione dei rapporti tra le parti antitetica e comunque difforme rispetto a quella sposata dalla sentenza gravata.
La tesi del ricorrente si concentra sulla necessità di dover valutare quello che era l’effettivo interesse del conferente l’incarico, da individuare non già, come ritenuto dal giudice di appello, nella possibilità di ottenere un quadro aggiornato della situazione societaria da offrire in occasione della successiva convocazione del CDA, in adempimento dei doveri informativi gravanti sul Presidente, ma nella finalità di precostituirsi le prove circa le violazioni poste in essere dall’amministratrice delegata, onde sottrarsi in futuro ad un’eventuale responsabilità personale.
Ancorché la verifica demandata al COGNOME possa reputarsi idonea anche a soddisfare l’interesse del singolo socio ex art. 2476 co. 2 c.c. (cfr. Cass. n. 2038/2018, secondo cui compete anche al socio amministratore di RAGIONE_SOCIALE il diritto, previsto dall’art. 2476, comma 2, c.c. di ricevere notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare i libri e i documenti relativi alla gestione societaria compiuta dagli altri amministratori, cui egli non abbia in tutto o in parte partecipato), è altrettanto evidente che però la riconducibilità dell’incarico al soddisfacimento di un interesse diretto della società è stato tratto, oltre che dalla norma di cui all’art. 2381 c.c.., quanto ai doveri incombenti sul Presidente del CDA, soprattutto dal tenore letterale della lettera di incarico, alla quale appare necessario rifarsi ai fini dell’individuazione del committente, lettera che si riferisce al NOME COGNOME univocamente quale Presidente del CDA.
Né il contenuto delle prestazioni richieste esula dal novero di quelle strettamente funzionali all’assolvimento del dovere informativo incombente sul Presidente del CDA, essendosi rivenuta la genesi dell’incarico proprio nella precedente missiva del dicembre del 2004, che permetteva di inquadrare la richiesta di prestazioni professionali da parte del COGNOME nell’esigenza di chiarire quale fosse stato il comportamento dell’amministratrice delegata e quale fosse l’effettiva situazione patrimoniale della società, ma sempre allo scopo di rappresentare con la massima trasparenza la situazione societaria anche ai componenti del CDA. La diversa tesi del ricorrente, oltre che fondarsi sull’assunto unilaterale per cui la reale finalità era quella di precostituirsi le prove dell’estraneità del conferente rispetto alla sua potenziale
responsabilità per gli atti compiuti dall’amministratrice delegata, risulta tuttavia ancorata ad un’individuazione delle prestazioni eseguite tratta, non già dalla lettera di incarico, e cioè da un atto sicuramente riferibile al committente, ma dalle attività indicate nella parcella, e cioè in un atto unilateralmente riferibile al prestatore d’opera, che proprio per la sua provenienza e formazione non assicura che quanto oggetto di elencazione corrisponda effettivamente a quanto sollecitato dal committente.
Nel medesimo errore sembra poi essere incorso il CTU che ha formulato la sua valutazione guardando alla individuazione delle prestazioni fatta dal ricorrente, ma prescindendo invece dal contenuto della lettera di incarico che costituisce invece la fonte risolutiva per l’individuazione dei termini dell’accordo intervenuto tra le parti.
Peraltro la sentenza impugnata, proprio al fine di rispondere ad alcune delle obiezioni del COGNOME, che rilevava come in realtà la sua attività fosse risultata funzionale anche alla successiva cessione delle quote del COGNOME e della moglie nella società per cui è causa, e quindi assicurasse il soddisfacimento di un interesse personale e non ricollegabile a quello della società, ha altresì sottolineato come dalle prove testimoniali raccolte si traeva conferma che il COGNOME aveva riferito di circostanze strettamente inerenti all’incarico risultante dalla lettera richiamata, e che la sua partecipazione alle trattative per la vendita delle quote si giustificava in ragione della qualità del COGNOME di Presidente di una diversa società che in una certa fase delle trattative sembrava a sua volta interessata rilevare le quote, dovendo quindi escludersi
che tale partecipazione fosse riconducibile all’adempimento di un incarico conferito dai cedenti.
Il motivo deve pertanto essere rigettato.
4. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e/ o falsa applicazione degli artt. 1350, 2229, 2230, 2231 e 2232 c.c. in relazione all’art. 360, co.1, n. 3, c.p.c. per aver la Corte territoriale erroneamente considerato, nel determinare quale fosse l’oggetto dell’incarico professionale, solo l’attività indicata nella missiva del 3 dicembre 2004 e nella successiva comunicazione di conferimento dell’incarico del 11 gennaio 2005. A parere del ricorrente, il giudice di secondo grado non si sarebbe dovuto soffermare solo sulle attività per cui vi era stato un conferimento di incarico per iscritto, non essendovi, in relazione al contratto di prestazione di opera professionale, alcun onere di forma scritta, ma avrebbe dovuto estendere la propria valutazione a tutte le attività indicate dal ricorrente nel preavviso di parcella allegato al ricorso per ingiunzione di pagamento.
Anche tale motivo deve essere disatteso, alla luce delle considerazioni svolte in occasione della disamina del primo motivo.
La Corte d’Appello, lungi dal negare che il conferimento di un incarico professionale possa avvenire anche con modalità diverse da quelle in forma scritta, ha però ritenuto doveroso valorizzare l’atto scritto nel quale risultavano esternati la finalità e l’oggetto del mandato professionale, avendo escluso che fosse possibile trarre aliunde la prova di un incarico suppletivo dato in maniera informale, non deponendo in tal senso le deposizioni testimoniali
che avevano confermato la sostanziale corrispondenza tra l’attività svolta dal COGNOME con quella oggetto dell’incarico scritto.
Anche in questo caso, al fine di supportare la tesi di un incarico conferito iure proprio dagli opponenti si richiama il contenuto della parcella, e cioè di un atto la cui formazione è da ascrivere unicamente al ricorrente e che non permette, in assenza di diversi elementi probatori dai quali inferire anche l’esistenza di uno specifico incarico, di ritenere che l’esecuzione delle prestazioni ivi descritte sia avvenuta su richiesta dei committenti.
5. Il terzo motivo di ricorso denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo della controversia che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. consistente nello svolgimento da parte del ricorrente dell’attività indicata nel preavviso di parcella prodotto nel fascicolo del ricorso per ingiunzione di pagamento. A parere del ricorrente, laddove il giudice di secondo grado avesse considerato ed esaminato la produzione della copiosa documentazione che dimostrava l’esecuzione di ulteriori attività di consulenza, avrebbe condannato l’appellante al pagamento del compenso richiesto anche per tali attività.
Il motivo è inammissibile perché sollecita anche con questa censura una rivalutazione delle risultanze probatorie.
In pratica si deduce che la sentenza avrebbe trascurato il fatto che dalla documentazione versata in atti e da alcune prove raccolte emergeva che il COGNOME aveva in realtà svolto una serie di attività che soddisfacevano un interesse unicamente riconducibile ai committenti quali soci, e non nella qualità di rappresentanti della società.
Va qui ribadito che (cfr. da ultimo Cass. n. 17005/20024, che ha dato continuità ai principi affermati da Cass. S.U. n. 8053/2014), l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Nella specie il ricorrente omette di individuare il fatto strico decisivo di cui sarebbe stata omessa la disamina, in quanto la censura si limita a suggerire la necessità di una diversa lettura delle emergenze probatorie, ed in particolare della copiosa documentazione, che, a detta del ricorrente, avrebbe dovuto indurre ad una diversa decisione.
Ma trattasi dei medesimi fatti esaminati dal giudice di appello, il che rende evidente come la censura sia fuori fuoco rispetto a quanto prescritto dal legislatore.
Peraltro, una volta affermatosi che la genesi del rapporto andava individuata e delimitata alla luce di quanto precisato nella lettera di incarico, la circostanza che il COGNOME abbia svolto anche attività che apparentemente fuoriescono dai limiti del mandato conferito
per iscritto, non giustifica comunque la pretesa di pagamento, essendosi al cospetto di prestazioni rese in assenza di una specifica richiesta da parte dei committenti, il che conforta anche la valutazione di non decisività dei fatti di cui si lamenta l’omessa disamina (si pensi alle dichiarazioni delle collaboratrici di studio del ricorrente che, anche ove si ritenga siano confermative di un’attività di stima potenzialmente funzionale alla successiva trattativa per la cessione delle quote, sono prive però di alcun riferimento all’individuazione della richiesta da parte dei committenti).
Il quarto motivo di ricorso denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo della controversia che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. consistente in due elementi presuntivi aventi una oggettiva portata indiziante, ossia l’interesse che aveva l’odierna controricorrente alla prestazione e il risultato da questa conseguito per mezzo dell’attività del professionista.
In particolare, il giudice di secondo grado avrebbe erroneamente sostenuto che, in assenza di un incarico scritto da parte di NOME COGNOME non ci fossero elementi presuntivi sufficienti per far ritenere comunque conferito un incarico al COGNOME anche da parte della stessa COGNOME.
A parere del ricorrente, la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare che, nel caso di specie, vi era stata la prova sia della sussistenza di uno specifico interesse della controricorrente alla prestazione -quello cioè di ottenere non solo informazioni per esercitare il potere di controllo in qualità di amministratore, ma anche una stima peritale del valore delle quote societaria in vista
della loro cessione – sia del conseguimento di un concreto vantaggio a suo favore consistente nel maggior ricavo dalla vendita delle quote societarie detenute congiuntamente con il marito. Si tratterebbe, a parere del ricorrente, di presunzioni gravi, precise e concordanti tali da far desumere il conferimento di incarico del cliente al professionista.
Le considerazioni svolte nei motivi che precedono, e la necessità di ancorare l’incarico conferito al COGNOME alla lettera del gennaio del 2005, in assenza di elementi che consentano di ravvisare l’esistenza di un interesse personale del Flores a sostegno del mandato conferito, nonché i limiti che la legge pone alla deduzione del vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 co. 1, c.p.c., rendono evidente come tale motivo sia privo di fondamento anche nella parte in cui mira a far rispondere la controricorrente dell’obbligo di pagamento del compenso.
Il ricorso è rigettato ed al rigetto consegue la condanna del ricorrente al rimborso delle spese in favore di parte controricorrente, che si liquidano come da dispositivo che segue, nulla dovendosi invece disporre quanto alla parte rimasta intimata.
Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto -ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio in favore della controricorrente, che si liquidano in complessivi € 5.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge, se dovuti;
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 1 luglio 2025