Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 6390 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 6390 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 08/03/2024
ORDINANZA
Oggetto
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo Soppressione del posto di lavoro
Rapporto a tutele crescenti
R.G.N. 7518/2020
COGNOME.
Rep.
sul ricorso 7518-2020 proposto da:
Ud. 29/11/2023
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMAINDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, che la rappresenta e difende; CC
– ricorrente –
contro
NOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato AVV_NOTAIO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4839/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 23/12/2019 R.G.N. 1735/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/11/2023 dal AVV_NOTAIO COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Roma respingeva il reclamo proposto dalla RAGIONE_SOCIALE contro la sentenza n. 4455/2019 del Tribunale della medesima sede che, in totale riforma dell’ordinanza dello stesso Tribunal e resa nella fase sommaria del procedimento ex lege n. 92/2012, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento da detta società intimato all’attore NOME COGNOME con lettera del 12.7.2016 e, applicato l’art. 3 d.lgs. n. 23/2015, aveva dichiarato estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento ed aveva condannato la società datrice di lavoro al pagamento, in favore del lavoratore, per indennità risarcitoria, della somma di € 30.621,78, oltre alla rivalutazione ISTAT ed agli interessi legali dal dì del licenziamento al soddisfo.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale riteneva infondato il primo motivo di reclamo, con il quale la suddetta società impugnava esclusivamente il capo della sentenza che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento comminato dalla società al reclamato (per giustificato motivo oggettivo consistente nella soppressione del posto di lavoro);
disattendeva, altresì, il secondo motivo di gravame, con il quale la società si doleva dell’eccessiva ed erronea quantificazione dell’indennità risarcitoria riconosciuta al reclamato in sentenza e dell’entità delle spese legali liquidate in suo favore, dopo aver sottolineato in limine che, in mancanza di reclamo incidentale da parte del RAGIONE_SOCIALE, nessun altro profilo costituiva parte del devolutum .
Avverso tale decisione, la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
L’intimato ha resistito con controricorso e successiva memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente deduce la ‘Nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c. derivante dal riconoscimento della tutela ex art. 3 d.lgs. n. 23/2015 né richiesta né invocata dall’allora ricorrente (art. 360 n. 4 c.p.c.)’. Censura l a sentenza impugnata laddove ha ritenuto corretta (avallandola) la condanna dell’attuale ricorrente all’indennità risarcitoria prevista dall’art. 3 d.lgs. n. 23/2015, nonostante detta tutela non fosse stata né richiesta né invocata dal COGNOME in nessuna fase del procedimento; il che, secondo la ricorrente, comportava inosservanza del principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato, fissato dall’art. 112 c.p.c.
Con un secondo motivo pure denuncia la ‘nullità della sentenza per error in procedendo in relazione all’art. 11 D.lgs. n. 23/2015 e all’art. 4 D.lgs. n. 150 del 2011 stante l’erronea trattazione del procedimento con rito
Fornero (art. 360 n. 4 c.p.c.)’. Censura la sentenza della Corte di appello di Roma in quanto, pur avendo confermato la pronuncia emessa in fase di opposizione nella parte in cui ha ritenuto che ‘ il rapporto tra le parti deve ritenersi sorto nel maggio 2015 (questo, sì, soggetto alla legge italiana, chiaramente indicata come applicabile nel contratto) ed è quindi un rapporto ‘a tutele crescenti’, soggetto al d.lgs. n. 23/2015, come giudicato in prime cure, il che comporta che non v’è violazione dell’art. 7 della legge n. 604/66 c.m. dalla legge n. 92/2012, che non s’applica a tali rapporti ai sensi dell’art. 3, co. 3, del d.lgs. n 23 cit. ‘, non ha rilevato l’errore nel rito utilizzato e seguito. Sempre secondo la ricorrente, non è stato rilevato che in base all’art. 11 d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23 ‘ai licenziamenti di cui al presente decreto non si applicano le disposizioni dei commi da 48 a 68 dell’articolo 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92’ e detta violazione procedurale si riverbera sul presente procedimento sin dall’originaria fase sommaria.
Il primo motivo è inammissibile poiché pone per la prima volta in questa sede di legittimità questioni implicanti un accertamento in fatto non trattate nei gradi di merito (Cass. n. 32804 del 13/12/2019).
Invero, secondo un consolidato indirizzo di questa Corte, in materia di ricorso per cassazione i motivi -a pena di inammissibilità, devono investire questioni comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo ammissibili in sede di legittimità questioni nuove e nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, fatta eccezione per le questioni rilevabili d’ufficio, non potendo la parte modificare, nel giudizio di legittimità, la posizione
rivestita nel giudizio di merito, infatti, diversamente, si consentirebbe tanto all’appellante di modificare, in un successivo grado di giudizio, il contenuto dell’atto di impugnazione ed i relativi motivi, con manifesta contraddizione rispetto alla logica che regola l’esercizio dello stesso del diritto di gravame in appello, le cui ragioni e conclusioni vanno presentate in detta fase processuale, quanto, correlativamente, all’appellato, di modificare le proprie difese rispetto a quelle svolte nell’atto di costituzione (in tal senso, ex plurimis , Cass., sez. V, 8.4.2022, n. 11468). E da tanto consegue che, ove nel ricorso per cassazione siano prospettate questioni non esaminate dal giudice di merito, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, nonché il luogo e modo di deduzione, onde consentire alla Suprema corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (in tal senso id., sez. I, 2.9.2021, n. 23792; id., sez. II, 24.1.2019, n. 2038).
4.1. Ebbene, nella specie, la ricorrente neanche deduce se, come e quando le questioni attualmente poste siano state trattate nel doppio grado di giudizio di merito e, segnatamente, in sede di reclamo; il che non risulta assolutamente dal testo dell’impugnata sentenza.
4.2. In quest’ultima, per contro, come premesso in narrativa, la Corte distrettuale ha avuto cura di precisare
quanto fosse esclusivamente devoluto alla sua cognizione, in virtù di due motivi di reclamo, che non toccavano minimamente i temi ora introdotti dalla ricorrente.
Anche il secondo motivo di ricorso è ex se inammissibile per ragione ulteriore rispetto a quella già esposta.
Secondo un costante indirizzo di questa Corte, infatti, conformemente alle regole sull’ error in procedendo , che rileva nei limiti in cui determini la nullità della sentenza, l’inesattezza del rito assume rilevanza invalidante soltanto nell’ipotesi in cui, in sede di impugnazione, la parte indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso e ciò perché l’individuazione del rito non deve essere considerata fine a se stessa ma soltanto nella sua idoneità ad incidere apprezzabilmente sul diritto di difesa, sul contraddittorio e, in generale, sulle prerogative processuali della parte (così, tra le altre, Cass., sez. lav., 12.5.2022, n. 15238; id., sez. lav., 10.3.2020, n. 6754; id., sez. lav., 18.3.2019, n. 7598; tutte specificamente riferite a casi nei quali era controversa l’applicazione del c.d. rito Fornero).
6.2. Orbene, nel caso di specie, sempre prescindendo dall’esaminare la fondatezza o meno della tesi dell’attuale ricorrente circa il rito, a suo dire, correttamente da applicare in causa, nota il Collegio che quest’ultima, non solo neanche ha dedotto che, da convenuta, avesse eccepito alcunché circa l’introduzione e la prosecuzione del giudizio secondo il rito di cui all’art. 1, commi 48 e segg., L. n. 92/2012 nella doppia fase di merito del primo grado, ma ha altresì essa stessa impugnato la sentenza che aveva definito quel grado
con lo strumento tipico previsto dal rito c.d. Fornero, vale a dire, con il reclamo ex art. 1, comma 58, L. cit., senza, come già notato, formulare motivo o rilievo alcuno circa il rito a suo dire da applicare (in termini d’inammissibilità o di mutamento di rito, oppure altrimenti).
Per contro, persino in questa sede di legittimità, ha avuto cura di specificare a più riprese (cfr. intestazione del ricorso a pag. 1 e la successiva pag. 5) che il suo ricorso per cassazione era ‘ex art. 1, comma 62, L. n. 92 del 2012’.
Attualmente allega del tutto genericamente che ‘il giudizio di primo grado è stato inutilmente ‘sdoppiato’ in una doppia fase processuale con Giudici diversi e decisioni a contrasto ed un pregiudizio della facoltà difensive delle parti, specie della difesa dell’odierna ricorrente la quale ha subito la strategia del COGNOME volta ‘a correggere il tiro’ in fase di opposizione (sulla base delle motivazioni addotte nell’ordinanza di rigetto) e integrare la produzione documentale e le allegazioni superando -di fatto -il sistema di preclusioni del rito lavoro ordinario nelle quali sarebbe incorso ove il procedimento fosse stato correttamente trattato con ex artt. 414 e ss. c.p.c.’ (così a pag. 12 del ricorso).
Si tratta, però, all’evidenza di deduzioni, non solo in obiettivo contrasto la pregressa condotta processuale della società attuale ricorrente, acquiescente, per non dire adesiva, al rito applicato, ma prive di qualsiasi richiamo preciso ad atti e snodi del doppio grado di giudizio nel merito nei quali possa intravedersi un apprezzabile nocumento
risentito dalla stessa per l’adozione del rito asseritamente non appropriato alla causa.
La ricorrente, pertanto, di nuovo soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore del difensore del controricorrente, dichiaratosi anticipatario, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi e in € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e C.P.A. come per legge, e distrae in favore del difensore del controricorrente.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale del