Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 5193 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 5193 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 27/02/2024
Oggetto
Contratti in genere – Invalidità – Annullabilità del contratto Azione di annullamento -Presupposti -Fattispecie Azione revocatoria -Presupposi -Fattispecie
Contratti in genere – Rappresentanza – Contratto concluso dal rappresentante – Conflitto d’interessi amministratore di società Contratto concluso in conflitto di interessi – Fattispecie -Presupposti Cassazione -Ricorso -Motivi – Requisiti
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 27677/2020 R.G. proposto da RAGIONE_SOCIALE in Liquidazione in Concordato Preventivo, rappresentata e difesa dagli AVV_NOTAIOti Prof. NOME COGNOME (p.e.c.: EMAIL) e NOME COGNOME (p.e.c.: EMAIL), con domicilio eletto in RAGIONE_SOCIALE, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO COGNOME (p.e.c.:EMAIL);
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE,
rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO (p.e.c. indicata: EMAIL);
-controricorrente e ricorrente incidentale -Milano, n. 1960/2020, avverso la sentenza della Corte d’appello di depositata il 23 luglio 2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13 febbraio 2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
La Curatela del fallimento della RAGIONE_SOCIALE convenne in giudizio davanti al Tribunale di Monza le società RAGIONE_SOCIALE in liquidazione in concordato preventivo e RAGIONE_SOCIALE in liquidazione (già RAGIONE_SOCIALE), chiedendo annullarsi, per i motivi appresso indicati, o dichiararsi inefficaci nei suoi confronti, ex art. 2901 cod. civ., alcuni contratti (di seguito meglio descritti), in tesi frutto di operazioni infragruppo poste in essere a suo totale danno, in quanto unica società del gruppo a disporre di un qualche attivo patrimoniale, al solo scopo di dare una parvenza di sostenibilità alla domanda di concordato preventivo di RAGIONE_SOCIALE e di garantire il pagamento dei crediti di quest’ultima, pur essendo RAGIONE_SOCIALE già in stato di crisi e di insolvenza.
In accoglimento di tali domande, con sentenza n. 3399 del 2017, il Tribunale:
─ dichiarò nullo, per mancanza e illiceità dell’oggetto ex art. 1346 c.c., il contratto di affitto di azienda e contestuale preliminare di cessione di ramo di azienda concluso, in data 7 gennaio 2009, tra RAGIONE_SOCIALE (quale affittuaria e promissaria) e RAGIONE_SOCIALE (concedente e promittente);
─ dichiarò altresì la nullità, per conflitto di interessi ex art. 1394 c.c., del contratto con cui, il 23 febbraio 2010, RAGIONE_SOCIALE si rese acquirente da RAGIONE_SOCIALE (successivamente divenuta COGNOME
RAGIONE_SOCIALE) dell’intero capitale sociale di RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE), accollandosi il debito relativo al prezzo ancora per intero dovuto a sua volta dalla cedente a B.T.S.;
─ dichiarò la nullità, per conflitto di interessi ex art. 1394 c.c., dell’atto con il quale, in data 24 febbraio 2010, aveva assunto per espromissione il debito di RAGIONE_SOCIALE (altra controllata del gruppo) nei confronti di RAGIONE_SOCIALE;
─ dichiarò inefficace ex art. 2901 c.c. e 66 l. fall. nei confronti del RAGIONE_SOCIALE l’atto con il quale, in data 24 febbraio 2010, la società poi fallita aveva costituito ipoteca immobiliare volontaria in favore di RAGIONE_SOCIALE a garanzia dei debiti derivanti dai contratti suddetti.
Con sentenza n. 1960/2020, depositata il 23 luglio 2020, la Corte d’appello di Milano ha rigettato il gravame interposto da RAGIONE_SOCIALE, confermando la decisione di primo grado ma emendandola dagli errori materiali ravvisati nella adozione, nella seconda e terza statuizione del dispositivo, della locuzione « dichiara la nullità per conflitto di interessi » anziché « annulla per conflitto di interessi », oltre che nella indicazione della somma finale dei compensi difensivi di primo grado (rideterminata in Euro 22.000).
Avverso tale decisione RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione articolando sette motivi, cui resiste il RAGIONE_SOCIALE della RAGIONE_SOCIALE depositando controricorso, con il quale propone ricorso incidentale affidato a tre motivi.
RAGIONE_SOCIALE deposita controricorso per resistere al ricorso incidentale.
È stata fissata per la trattazione l’odierna adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ. con decreto del quale è stata data comunicazione alle parti.
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
La ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Deve preliminarmente rilevarsi che il ricorso non risulta
notificato alla RAGIONE_SOCIALE, convenuta costituita in primo grado e appellata contumace nel giudizio di appello, nonché litisconsorte necessaria in relazione alla domanda ─ il cui accoglimento è stato confermato dalla sentenza d’appello, impugnata sul punto ─ di annullamento del contratto di acquisto delle partecipazioni di RAGIONE_SOCIALE.
L’inammissibilità del ricorso, che si va appresso a evidenziare, rende tuttavia ultroneo ed inutilmente dilatorio l’altrimenti necessario ordine di integrazione del contraddittorio.
Il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone, infatti, al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a produrre i suoi effetti; ne consegue che, in caso di ricorso per cassazione prima facie infondato, appare superfluo, pur potendone sussistere i presupposti, disporre la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio ovvero per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti (v. Cass. Sez. U. 22/03/2010, n. 6826; Cass. 21/05/2018, n. 12515; 10/05/2018, n. 11287; 17/06/2013, n. 15106).
Con il primo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, cod. proc. civ., « violazione degli
artt. 112, 132 e 342 c.p.c. » e « violazione e falsa od omessa applicazione degli artt. 2697 e 2901 c.c. ».
Lamenta che la Corte d’appello abbia omesso di pronunciare sul motivo di gravame, indicato in appello con il numero 7.5, con il quale aveva censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva accolto la proposta azione revocatoria, sebbene non fosse stata data prova dei necessari presupposti dell’ eventus damni e della participatio fraudis .
Rileva che:
─ « la lettura del motivo 7.5 dell’atto di appello » -nel quale peraltro si era evidenziato che analoga censura era stata accolta dalla S.C., con ordinanza n. 9565 del 2018, intervenuta tra le medesime parti nella causa di opposizione allo stato passivo relativa ai crediti di B.T.S. fondati sui negozi oggetto dell’odierno giudizio«non corrisponde affatto alla sorprendente ed ellittica sintesi che si legge nella seconda parte di pag. 19 della sentenza qui impugnata »;
─ in conseguenza di detta erronea lettura « il motivo sub 7.5 non è stato minimamente affrontato dalla Corte ambrosiana o, se lo è stato, ciò è avvenuto con motivazione solo apparente, che non risponde alle doglianze svolte nel motivo »;
─ dunque, « delle due l’una: o si ritiene violato l’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia su uno specifico motivo d’appello; o la motivazione è solo apparente, in violazione dell’art. 132, n. 4, c.p.c., dacché non risponde minimamente alle doglianze svolte dall’appellante BRAGIONE_SOCIALE »;
─ « ove mai si facesse equivalere la (non) pronuncia e la (non) motivazione della Corte ambrosiana a una implicita declaratoria di inammissibilità del motivo di appello », risulterebbe comunque « violato e falsamente applicato l’art. 342 c.p.c. »;
─ « fermi gli evidenziati e assorbenti errores in procedendo , la sentenza impugnata risulta aver violato e omesso di applicare anche gli artt. 1416, 1445, 2901, comma 4, c.c., non avendo esaminato il
merito dell’azione revocatoria promossa dal RAGIONE_SOCIALE, su cui gravava l’onere di provare l’ eventus damni e la participatio fraudis».
Il motivo è inammissibile, sotto un duplice profilo.
3.1. Anzitutto e in via assorbente perché omette di confrontarsi compiutamente con la motivazione della sentenza impugnata, nella parte (pag. 19, in fine) in cui si occupa delle deduzioni svolte nel par. 7.5 dell’atto di appello.
La ragione sostanziale di critica si risolve, infatti, essenzialmente nel rilievo secondo cui la lettura del motivo 7.5 dell’atto di appello non corrisponde affatto alla « sorprendente ed ellittica sintesi che si legge nella seconda parte di pag. 19 della sentenza qui impugnata », con la conseguenza che: il motivo non è stato minimamente affrontato dalla Corte ambrosiana; se lo è stato, ciò è avvenuto con motivazione solo apparente, che non risponde alle doglianze svolte nel motivo.
Sulla base di tali generiche e apodittiche affermazioni, la ricorrente passa poi a prospettare, sul piano propriamente qualificatorio, quattro diversi e incompatibili tipi di vizio cassatorio: a) omessa pronuncia; b) motivazione apparente; c) inosservanza dell’art. 342 cod. proc. civ.; d) violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 e 2901 cod. civ.
Tutto ciò però senza che sia riportata, sia pure in sintesi, la parte della sentenza richiamata e senza tanto meno che siano spiegat e ─ attraverso un adeguato raffronto tra l’effettivo tenore delle considerazioni svolte in sentenza e il testuale contenuto dell’atto d’appello in parte qua ─ le ragioni per cui la decisione impugnata debba ritenersi basata su « una sorprendente ed ellittica sintesi » del motivo di appello, come tale inidonea a darvi risposta.
Si tratta, dunque, di motivo inidoneo a svolgere la funzione di critica propria di un motivo di impugnazione.
Devesi al riguardo richiamare il principio, consolidato nella
giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale, il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, siccome per denunciare un errore occorre identificarlo (e, quindi, fornirne la rappresentazione), l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito, considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo.
In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un «non motivo», è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ. (Cass. 11/01/2005, n. 359; v. anche ex aliis Cass. Sez. U. 20/03/2017, n. 7074, in motivazione, non massimata sul punto; Id. 05/08/2016, n. 16598; Id. 03/11/2016, n. 22226; Cass. 15/04/2021, n. 9951; 05/07/2019, n. 18066; 13/03/2009, n. 6184; 10/03/2006, n. 5244; 04/03/2005, n. 4741).
3.2. È palese, comunque, la sovrapposizione, con riferimento alla medesima doglianza, di censure incompatibili, in violazione, sotto altro profilo, del requisito di cui all’art. 366 n. 4 cod. proc. civ. che impone l’indicazione, a pena appunto di inammissibilità, de « i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano »; tale requisito comporta ─ come chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte ─ « l’esigenza di una chiara esposizione, nell’ambito del motivo, delle ragioni per le quali la
censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, che consentano al giudice di legittimità di individuare la volontà dell’impugnante e stabilire se la stessa, così come esposta nel mezzo di impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimità sostanzialmente, ma inequivocamente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all’art. 360 cod. proc. civ. » (Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931).
Nella specie, la sovrapposizione di censure di diritto, sostanziali e processuali, secondo una tecnica redazionale che non appare improprio definire ‘a strascico’, non consente alla Corte di cogliere con certezza le singole doglianze prospettate (Cass. Sez. U. n. 9100 del 2015; conf. Cass. n. 3554 del 2017).
La tipizzazione dei motivi di ricorso comporta, infatti, che il generale requisito della specificità si moduli, in relazione all’impugnazione di legittimità, nel senso particolarmente rigoroso e pregnante, sintetizzato con l’espressione della c.d. duplice specificità, essendo onere del ricorrente argomentare la sussunzione della censura formulata nella specifica previsione normativa alla stregua della tipologia dei motivi di ricorso tassativamente stabiliti dalla legge (Cass. Sez. U. 10/07/2017, n. 16990). Nella specie la tendenziale promiscuità della formulazione delle censure in esame avviluppa gli asseriti vizi strutturali della motivazione, ma anche l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge sostanziale e processuale. Si tratta, dunque, di mezzi d’impugnazione difficilmente sovrapponibili e cumulabili in riferimento al medesimo costrutto argomentativo che sorregge la sentenza impugnata (che peraltro, nella specie, in quanto totalmente trascurato e dato per presupposto, non è stato posto quale dialettico punto di riferimento delle censure).
3.3. Varrà comunque brevemente soggiungere che:
quanto alla censura ex art. 112 cod. proc. civ., sostenere che un motivo non sarebbe stato esaminato perché esaminato
insufficientemente esorbita dal paradigma evocato e sottende un velato tentativo di sollecitare un sindacato sulla quaestio facti fuori dal limite di cui al n. 5 dell’art. 360 ;
b) quanto alla censura ex art. 132, secondo comma n. 4, c.p.c., secondo le note sentenze di Cass. Sez. U. 07/04/2014, nn. 8053 -8054, essa non può basarsi su elementi esterni al testo stesso della sentenza, come invece pretenderebbe debba farsi la ricorrente postulando il motivo il raffronto tra motivazione della sentenza e motivo d’appello;
c) quanto alla ipotizzata violazione dell’art. 342 c.p.c. è singolare trasformare l’esame asseritamente insufficiente del motivo in declaratoria di inammissibilità del motivo medesimo per aspecificità;
d) l a censura di violazione della regola sull’onere della prova, in particolare, non è dedotta nei termini in cui può esserlo secondo Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598 (principio affermato in motivazione, pag. 33, § 14, secondo cui «la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni»; v. anche ex multis Cass. n. 23594 del 2017; n. 26769 del 2018).
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, cod. proc. civ., « violazione e falsa od omessa applicazione dell’art. 96, comma 6, l. fall., degli artt. 112, 115, 116, 132, 295 e 337, comma 2, c.p.c. e dell’art. 2909 c.c. » per avere la Corte d’appello erroneamente ritenuto che il Tribunale avesse utilizzato il decreto di rigetto dell’opposizione allo stato passivo quale prova atipica, mentre il primo giudice avrebbe in realtà attribuito a detto provvedimento efficacia piena inter partes , ritenendo che avesse risolto questioni pregiudiziali in senso tecnico in
modo vincolante anche per la presente causa, a dispetto dell’efficacia solo endoconcorsuale del decreto ex art. 96 l. fall..
Il motivo è inammissibile , ai sensi dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ..
5.1. La ricorrente omette, anche in tal caso, di indicare con quale affermazione essa abbia attribuito al decreto reso nel separato giudizio di opposizione allo stato passivo valore di «prova atipica» fondante la decisione.
5.2. Sotto altro profilo non è inoltre spiegata né si vede la rilevanza del fatto che il giudice di primo grado, secondo la prospettazione svolta con l’atto di appello, avesse a quel decreto erroneamente attribuito forza di giudicato esterno vincolante, volta che, anche se così fosse, non ne sarebbe comunque derivato per la sentenza d’appello alcuno dei vizi denunciati, tanto meno quello di violazione dell’art. 96 l. fall. e dell’art. 2909 cod. civ. atteso che è la stessa ricorrente a rimarcare che la Corte d’appello, abbia o meno sbagliato a comprendere le motivazioni del primo giudice, ha confermato la sentenza di rigetto per motivi diversi dalla (invero mai affermata) esistenza, sulle questioni sollevate, di giudicato vincolante.
5.3. Varrà comunque rilevare che la lettura della sentenza d’appello, nella parte genericamente richiamata in ricorso (pag. 5), non evidenzia alcuno dei significati postulati in ricorso, ma anzi al contrario rende palese, in termini che non sarebbe possibile pretendere più chiari e univoci, che la Corte d’appello:
ha ritenuto che il primo giudice « prese in esame il decreto non quale decisione definitiva cui uniformare senza possibilità di dissenso la presente delibazione, ma … per decidere sull’istanza di sospensione, senza minimamente affermare o mostrare di volervi attribuire la forza del giudicato in senso stretto »;
ha rilevato che, piuttosto, « il Tribunale mostrò di utilizzarlo ai
fini del (proprio) decidere, cosa perfettamente lecita, nella vigenza del principio generale per cui il magistrato può avvalersi, per formarsi il proprio convincimento, di provvedimenti emessi (o di prove raccolte) in altri giudizi, valutandoli e, se del caso, recependoli nella (e sovrapponendovi la) propria autonoma decisione »: il che non significa affatto attribuire al precedente valore di «prova atipica», quanto piuttosto di fonte propositiva di argomenti legittimamente assunti, in quanto condivisi, a fondamento della «propria autonoma decisione»;
solo in tal senso, ossia per la condivisa validità degli argomenti utilizzati, e non certo per la già prima esclusa forza di giudicato, ha poi ritenuto anche legittima la prognosi, da parte del Tribunale, di una « tendenziale stabilità » di quel provvedimento anche nel prosieguo del giudizio endofallimentare.
6 . Con il terzo motivo B.T.S. denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, cod. proc. civ., « violazione degli artt. 112, 132 e 342 c.p.c. e violazione degli artt. 1416, 1445 e 2901, quarto comma, c.c., anche in relazione agli artt. 1977, 1979, 1980 c.c. e all’art. 182 L.F.: l’impugnativa dei negozi di acquisto di beni ».
Lamenta che la Corte d’appello « praticamente non risponde » alle doglianze dedotte con i motivi di gravame 4 e 7.3 in tema di « salvezza dei diritti acquisiti dai creditori del concordato con cessio bonorum rispetto alle domande del RAGIONE_SOCIALE di annullamento e/o inefficacia e/o simulazione dei contratti e degli atti impugnati ».
L’ impostazione censoria ripete, quasi alla lettera, mutatis mutandis , lo stesso schema del primo motivo.
Si rileva infatti che:
─ i motivi predetti « non sono stati minimamente esaminati dalla Corte ambrosiana o, se lo sono stati, ciò è avvenuto con motivazione solo apparente, che non risponde alle doglianze »;
─ dunque, « delle due l’una: o si ritiene violato l’art. 112 c.p.c. per
omessa pronuncia su uno specifico motivo d’appello; o la motivazione è solo apparente, in violazione dell’art. 132, n. 4, c.p.c., dacché non risponde minimamente alle doglianze svolte dall’appellante RAGIONE_SOCIALE »;
─ « ove mai si facesse equivalere la (non) pronuncia e la (non) motivazione della Corte ambrosiana a una implicita declaratoria di inammissibilità del motivo di appello », risulterebbe comunque « violato e falsamente applicato l’art. 342 c.p.c. ».
Il motivo va detto, dunque, inammissibile per le stesse ragioni esposte con riferimento al primo motivo, di cui ripete la medesima impostazione argomentativa e con essa gli stessi manifesti difetti di aspecificità, non essendo in alcun modo spiegate, tanto meno sulla base di un raffronto testuale tra l’appello e la motivazione della sentenza (che, anche in parte qua , non viene riportata né posta quale percepibile riferimento dialettico), le ragioni per cui questa debba ritenersi elusiva dei primi o affetta da motivazione apparente.
Anche in tal caso, inoltre, è evidente la sovrapposizione di censure eterogenee e incompatibili tale da rendere le stesse inidonee a svolgere la funzione di motivo di ricorso nel rispetto del requisito di cui all’art. 366 n. 4 cod. proc. civ..
Debbono poi ovviamente ribadirsi le medesime considerazioni circa la palese estraneità di ciascuna censura singulatim ai relativi paradigmi di deducibilità.
Con il quarto motivo B.T.S. denuncia, ex art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 112, 132 e 342 c.p.c., nonché dell’art. 96 l. fall., ed ex art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ. la violazione degli artt. 1325, c. 1, n. 3, 1346, 1418, 2112 e 2555 c.c..
L’illustrazione del motivo si snoda attraverso i seguenti passaggi:
─ si inizia col dire che la Corte meneghina non risponde al motivo d’appello n. 5, se non in modo tautologico e solo apparente, « dal che la violazione degli artt. 112 o 132, n. 4, o, in subordine, 342 c.p.c. »;
─ segue l’esposizione delle questioni sollevate con il predetto motivo d’appello e con i sottomotivi 5.1 e 5.2 , afferenti in estrema sintesi alla affermata insussistenza di cause di nullità del contratto di affitto di ramo d’azione, né per illiceità, né per inesistenza o impossibilità dell’oggetto ;
─ nel corso di tale esposizione si cominciano, però, a fare anche riferimenti critici alla sentenza d’appello , da un certo punto in poi accomunata indistintamente a quella di primo grado quale obiettivo delle considerazioni critiche;
─ queste sono affidate essenzialmente alle seguenti proposizioni:
« l’equivoco in cui sono incorsi il Tribunale in prime cure e la Corte ambrosiana (se ben se ne intende l’inespresso pensiero) nel ritenere “inesistente” l’oggetto del contratto del 7 gennaio 2009 è palese: l’inesistenza o l’impossibilità delle prestazioni deve essere materiale o giuridica; nulla di tutto ciò faceva difetto nel contratto del 7 gennaio 2009, quand’anche (del tutto erroneamente) lo si voglia riqualificare come contratto diverso dal nomen iuris adottato dai paciscenti »
« l’inesistenza o l’impossibilità dell’oggetto sono tutt’altro e nulla hanno da spartire con l’erronea negazione che l’universalità o l’insieme di beni e rapporti giuridici trasferiti da BTS a RAGIONE_SOCIALE con quel contratto non fossero (asseritamente) qualificabili come ramo d’azienda »;
« la doglianza inerente alla pretesa inesistenza o impossibilità dell’oggetto del contratto si legava alla nozione di azienda e di ramo di azienda erroneamente assunta dal Giudice di prime cure, fatta acriticamente propria dalla Corte territoriale aderendo tout court alla prima pronuncia, con in più il grave errore di aver attribuito (a pag. 9 della sentenza) efficacia vincolante di giudicato al decreto collegiale di rigetto dell’opposizione allo stato passivo di BTS, in palese violazione di quel che prevede l’art. 96, comma 6, l. fall. »;
« la Corte d’appello, restando apoditticamente ancorata all’art. 2112 cod. civ., ha trascurato che, come affermato dalla RAGIONE_SOCIALE, l’elemento che caratterizza l’azienda è l’organizzazione impressa per l’esercizio di un’attività; il fatto che l’organizzazione consista in un’attività non impedisce di considerare l’azienda come un oggetto di diritti; è necessario allora, per chi debba misurarsi con la disciplina vigente dell’azienda, riconoscere che l’art. 2555 c.c. esprime una valutazione dell’azienda che, senza cancellare il suo collegamento genetico (organizzativo) e finalistico con l’attività d’impresa, ne sancisce una considerazione oggettivata (di ‘cosa’, oltre che di strumento di attività), costituente la premessa alla possibilità che essa diventi oggetto di negozi giuridici e di diritti »;
« è dunque palesemente erroneo adottare una nozione ristretta di azienda o di ramo di questa e, per di più, fondarla sull’art. 2112 c.c. anziché sull’art. 2555 c.c., ancor meno nella presente causa, in cui non si discute di tutela dei lavoratori addetti al ramo aziendale trasferito, bensì di validità o meno tra imprenditori del contratto di affitto di ramo di azienda e contestuale preliminare di vendita del medesimo ramo »;
─ si osserva in conclusione che « tutto quanto esposto ha comportato errores in procedendo per violazione degli artt. 112, 132, n. 4, o, in subordine, 342 c.p.c., dell’art. 96, comma 6, L.F. sull’efficacia solo endoconcorsuale dei provvedimenti in materia di opposizione allo stato passivo, nonché errores in iudicando per violazione e falsa od omessa applicazione degli artt. 1325, n. 3, 1346 e 1418 c.c. sulla nullità per inesistenza o impossibilità dell’oggetto, nonché degli artt. 2555 e 2112 c.c. sulla nozione di ramo di azienda, come ricostruita e interpretata da ultimo con sentenza n. 3888/2020 ».
Pure tale motivo è inammissibile. Omette la ricorrente, anche in tal caso, di riportare, sia pure in
sintesi, la parte della sentenza richiamata e tanto meno di spiegare ─ attraverso un adeguato raffronto tra l’effettivo tenore delle considerazioni svolte in sentenza e il testuale contenuto dell’atto d’appello in parte qua ─ le ragioni per cui questa debba ritenersi meramente apparente e/o viziata dagli altri denunciati errori.
Ancor più marcata, se possibile, è in questo caso la sovrapposizione, all’interno di un contorto argomentare, di censure eterogenee e incompatibili.
Nel merito, comunque, è palesemente infondata la tesi secondo cui non sarebbe predicabile la nullità del contratto per mancanza di oggetto. Tesi contraddetta, peraltro, dallo stesso precedente evocato in ricorso di Cass. n. 3888 del 2020, là dove si evidenzia, con rinvio anche ad altri precedenti, che « il fatto che l’organizzazione consista in un’attività non impedisce di considerare l’azienda come un oggetto di diritti », né (impedisce) « una considerazione oggettivata (di ‘cosa’, oltre che di strumento di attività), costituente la premessa alla possibilità che essa diventi oggetto di negozi giuridici e di diritti ». Si veda, peraltro, a conferma della piena ammissibilità di una valutazione di nullità del contratto di affitto o cessione d’azienda per inesistenza o impossibilità dell’oggetto, il precedente di Cass. n. 12142 del 10/08/2002 che ha ritenuto nullo, per impossibilità giuridica dell’oggetto, il contratto di affitto di azienda relativo a beni situati in zona destinata ad attività agricola, qualora il ramo di azienda ceduto in locazione, per le sue ridotte dimensioni, non consenta di considerarlo azienda agrituristica.
10. Con il quinto motivo B.T.S. denuncia, ex art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 115 c.p.c. per non avere la Corte d’appello considerato che il RAGIONE_SOCIALE « non ha mai contestato la descrizione di B.RAGIONE_SOCIALE.RAGIONE_SOCIALE. dell’attività in concreto svolta dal ramo d’azienda oggetto del contratto di affitto », incorrendo così in una « errata interpretazione delle risultanze probatorie »
Il motivo è inammissibile per una duplice ragione.
11.1. Anzitutto, perché il dedotto error in procedendo riguarderebbe, in ipotesi, la sentenza di primo grado, ma non si dice, tanto meno nel rispetto degli oneri di specificità, se fu dedotto con specifico motivo di gravame (a tal fine non potendo considerarsi sufficiente, in mancanza di alcun’altra specificazione, il fatto che, come riferito a pag. 54 del ricorso, la mancanza di contestazione venne evidenziata nell’atto di appello a pag. 43), né se e quale risposta in tal caso fu data dalla Corte d’appello .
Al riguardo varrà evidenziare che:
se l’errore non fosse stato dedotto come motivo d’appello , esso non potrebbe essere recuperato con il ricorso per cassazione, atteso che sulla correttezza della sentenza di primo grado, sotto il profilo in questione, dovrebbe ritenersi calato il giudicato interno;
se invece esso fosse stato dedotto, il suo mancato esame da parte del giudice d’appello avrebbe dovuto essere censurato quale vizio di omessa pronuncia.
11.2. In ogni caso (il motivo è inammissibile) perché la decisione non muove da una ricostruzione in fatto dell’attività svolta diversa da quella descritta anche dalla odierna ricorrente ed oggetto della dedotta non contestazione, ma dalla ritenuta mancanza in essa del requisito dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda a sua volta discendente dal fatto che tra i dipendenti trasferiti non vi era un dirigente o altra figura formalmente investita del potere di dirigere gli altri lavoratori.
11.3. Le considerazioni che, in memoria, la ricorrente svolge a sostegno del quinto motivo di ricorso, evocando un vizio di travisamento di prova, sono doppiamente inammissibili: a) anzitutto per la patente novità della censura, non dedotta in ricorso; b) comunque, perché ad essa si intende ricondurre una doglianza estranea al paradigma censorio pure astrattamente evocato, dal
momento che, come sopra detto, la decisione sul punto poggia su una valutazione in iure della fattispecie quale emergente dalle allegazioni delle parti e dalla prove raccolte, né del resto è precisato su cosa e in quale affermazione ricadrebbe il preteso errore percettivo .
Con il sesto motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., « violazione e falsa od omessa applicazione degli artt. 2112 e 2555 c.c., con riferimento al fatto che l’istruttoria ha accertato che i dipendenti trasferiti erano coordinati tra loro, e tuttavia la sentenza impugnata, come prima ancora quella di primo grado, ha ritenuto insussistente il requisito dell’autonomia funzionale del ramo di azienda oggetto del contratto in quanto tra gli stessi non vi era un dirigente o altra figura formalmente investita del potere di dirigere gli altri lavoratori, figura invero non necessaria al fine di configurare un ramo di azienda, suscettibile di affitto e di cessione ».
13 . Il motivo è inammissibile perché, lungi dall’evidenziare un error iuris , prospetta una quaestio facti . L’errore dedotto è infatti mediato da una diversa ricognizione della fattispecie, postulandosi come passaggio indefettibile il rilievo fattuale, non oggetto di accertamento in sentenza, ma anzi ivi negato (v. in particolare pag. 14), secondo cui, dalla deposizione del teste COGNOME avrebbe dovuto trarsi la prova che tra i dipendenti trasferiti vi era chi svolgesse mansioni di coordinamento di rilievo tale da potersi desumere l’esistenza del presupposto della autonoma funzionale dei beni e dei rapporti oggetto di cessione.
Con il settimo motivo la ricorrente denuncia, ex art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 112, 132 e 342 c.p.c. e, ex art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 1394, 1395, 2475ter e 2479ter c.c..
Deduce che la Corte d’Appello: i ) erroneamente ha fatto applicazione dell’art. 2475ter , primo comma, c.c. anziché del
secondo comma, posto che oggetto dell’azione di annullamento avrebbe dovuto essere considerato non già il contratto di acquisto delle quote di RAGIONE_SOCIALE con contestuale accollo del debito di prezzo verso B.T.S. sottoscritto il 23 febbraio 2010 tra RAGIONE_SOCIALE e BS, bensì la delibera assembleare del precedente 8 febbraio 2010, che aveva delegato NOME RAGIONE_SOCIALE a concludere quel contratto; ii ) ha disatteso conseguentemente l’eccezione di intervenuta prescrizione dell’azione di annullamento; iii ) ha ignorato che con quella delibera RAGIONE_SOCIALE aveva predeterminato in toto i poteri conferiti alla sig.ra COGNOME, così da escludere ogni possibile conflitto di interessi ex artt. 1394 e 1395 c.c.; iv ) ha trascurato che, all’epoca della stipula del contratto, RAGIONE_SOCIALE era « sotto l’egida degli organi del Concordato preventivo », sì che « neppure può dirsi che il presunto conflitto di interessi fosse conosciuto o riconoscibile da BTS, come prevedono sia l’art. 1394 c.c. sia il (pur inapplicabile e falsamente applicato) art. 2475-ter, comma 1, c.c. ».
15. Anche tale motivo è inammissibile, perché non si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale ha evidenziato, in sostanza, l’ inammissibilità, per aspecificità, della tesi censoria già allora proposta negli stessi termini come motivo d’appello.
Ciò sul rilievo che (v. sentenza pag. 18, in fine) « le considerazioni di merito dell’appellante circa la ricorrenza degli estremi del conflitto d’interesse non riescono a compromettere le persuasive motivazioni offerte al proposito dal tribunale (solo in parte censurate). In altre parole, il tribunale aveva già risposto alle obiezioni ora dedotte a motivo d’appello, senza che nulla di nuovo sia stato apportato dalla BTS in funzione di rielaborazione dialettica contrapposta alle parole del primo giudice ».
Al riguardo in particolare la sentenza sottolinea che il Tribunale aveva osservato che:
─ l’accordo RAGIONE_SOCIALE del 23/2/2010 era stato autorizzato da quest’ultima società con voto favorevole del socio unico RAGIONE_SOCIALE, il quale aveva poi sottoscritto l’acquisto delle quote nella qualità di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE (circostanze incontestate);
─ conseguentemente era ravvisabile un palese conflitto di interessi tra il rappresentante NOME COGNOME e la RAGIONE_SOCIALE, che perseguivano finalità radicalmente divergenti, di cui i terzi (RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE) erano pienamente a conoscenza in quanto beneficiari esclusivi degli atti posti in essere dal rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, come risulta dalle intrinseche caratteristiche dell’atto compiuto, che ha determinato la creazione di utili vantaggiosi per i due soggetti terzi mediante il sacrificio proprio della rappresentata.
Di tali dirimenti considerazioni, impingenti, come si è detto, nella stessa ammissibilità del motivo di appello, il motivo in esame non si fa carico, limitandosi a riproporre le stesse tesi difensive già proposte in appello e, in buona sostanza, preliminarmente giudicate inammissibili, per aspecificità, dalla Corte d’appello.
Come del resto non si fa carico, se non in termini generici e meramente oppositivi, nemmeno dell’aggiuntiva ratio decidendi ulteriormente esposta a pag. 19, secondo capoverso, della sentenza, là dove si rileva che « per di più, come sottolineato dal fallimento, la delibera di nomina della procuratrice NOME COGNOME non ha predeterminato il contenuto del futuro contratto nei termini pretesi dell’articolo 1395 c.c., cioè “in modo da escludere la possibilità di conflitto di interessi”, in particolare nulla prevedendo in tema di garanzie per passività sopravvenute e consequenziali obblighi di indennizzo del venditore, abitualmente pretesi dagli acquirenti di quote sociali ».
Appare, sul punto, limitato e non pertinente il rilievo opposto in
ricorso secondo cui, operando le garanzie ex lege , la predeterminazione del contenuto del contenuto contrattuale non deve affatto spingersi a tanto per escludere il conflitto di interesse.
La questione delle garanzie è, infatti, indicata in sentenza solo come esempio delle conseguenze della mancata predeterminazione del contenuto del contratto, il cui rilievo dunque ha un contenuto più ampio e una pregnanza maggiore rispetto alla sola mancanza di garanzie convenzionali.
Ciò senza dire che la ricorrente, nell’affermare il contrario , omette di indicare specificamente il contenuto della delibera, con evidente inosservanza dell’onere di specifica indicazione del documento richiamato, in violazione dell’art. 366 n. 6 cod. proc. civ..
La memoria che, come detto, è stata depositata dalla ricorrente, ai sensi dell’art. 380 -bis.1, comma primo, cod. proc. civ., non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio dei motivi.
Per le considerazioni che precedono deve quindi pervenirsi alla declaratoria di inammissibilità del ricorso principale.
Ne discende, ex art. 334, comma secondo, cod. proc. civ., l’inefficacia del ricorso incidentale, in quanto tardivo.
Lo stesso risulta, infatti, notificato a mezzo p.e.c. in data 1° dicembre 2020, ben oltre la scadenza del termine breve per impugnare di sessanta giorni, ex art. 325 cod. proc. civ., decorrente dalla data di notificazione della sentenza (23 luglio 2020) e venuto, pertanto, a scadere il 22 ottobre 2020.
Alla soccombenza segue la condanna della ricorrente principale al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
Mette conto al riguardo precisare che la soccombenza è interamente ravvisabile in capo alla ricorrente principale e non anche a carico del ricorrente incidentale, non potendo di contro rilevare la
dichiarata perdita di efficacia del ricorso da questo proposto.
Con la perdita di efficacia, infatti, il ricorso incidentale tardivo diviene tamquam non esset e non viene preso in esame dalla Corte, non potendosi pertanto neppure in astratto predicare una soccombenza valorizzabile ai fini del regolamento delle spese.
In tal senso, questa Corte ha già chiarito che, in caso di declaratoria di inammissibilità del ricorso principale, il ricorso incidentale tardivo è inefficace ai sensi dell’art. 334, secondo comma, cod. proc. civ., con la conseguenza che la soccombenza va riferita alla sola parte ricorrente in via principale, restando irrilevante se sul ricorso incidentale vi sarebbe stata soccombenza del controricorrente, atteso che la decisione della Corte di cassazione non procede all’esame dell’impugnazione incidentale e dunque l’applicazione del principio di causalità con riferimento al decisum evidenzia che l’instaurazione del giudizio è da addebitare soltanto alla parte ricorrente principale (Cass. 20/02/2014, n. 4074; conf. Cass. 04/11/2014, n. 23469; Cass. 12/06/2018, n. 15220; Cass. 26/09/2018, n. 22799; Cass. 28/09/2018, n. 23443).
20. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale , ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13.
Condizioni invece, per le ragioni dette, non ravvisabili nei confronti del ricorrente incidentale, non essendo ad esse riconducibile la dichiarata perdita di efficacia (v. Cass. 25/07/2017, n. 18348).
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso principale; inefficace quello incidentale.
Condanna la ricorrente principale al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese processuali, liquidate in Euro 17.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P .R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13.
Così deciso in RAGIONE_SOCIALE, nella Camera di consiglio della Sezione Terza