Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 631 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 631 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 16074/2021 R.G. proposto da:
COGNOME già titolare della RAGIONE_SOCIALE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), pec: EMAIL;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE NOME RAGIONE_SOCIALE
-intimata-
avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo n. 1780/2020, depositata il 02/12/2020. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26/10/2023
dal Consigliere NOME COGNOME.
Rilevato che
la società RAGIONE_SOCIALE proponeva opposizione avverso il decreto n. 382/2012 con cui le veniva ingiunto il pagamento, a favore della società alberghiera RAGIONE_SOCIALE di COGNOME Francesco, della somma di euro 24.500,00, che quest’ultima aveva versato alla società RAGIONE_SOCIALE estinguendo un debito della ingiunta verso l’erario;
il Tribunale di Agrigento, con la sentenza n. 587/2014, rigettava l’opposizione, ritenendo meritevole di accoglimento la domanda monitoria;
detta sentenza veniva impugnata dalla società RAGIONE_SOCIALE la quale lamentava il suo difetto di legittimazione passiva, in quanto la ripetizione dell’indebito oggettivo ‘rappresenta un’obbligazione restitutoria che riflette l’obbligazione insorta tra il solvens e il destinatario del pagamento privo di causa acquirendi ‘, pertanto il soggetto passivo è l’accipiens ; sicché l’azione di restituzione avrebbe dovuto essere esercitata nei confronti del concessionario del servizio di riscossione o dell’ente impositore destinatario del pagamento; aggiungeva che il Tribunale non si era pronunciato: i) sull’eccezione di inammissibilità del decreto ingiuntivo opposto per violazione dell’art. 638 cod.proc.civ. né sulla richiesta di declaratoria di nullità del decreto ingiuntivo per insussistenza della pretesa creditoria, stante l’avvenuta transazione stragiudiziale cristallizzala nella sentenza del Tribunale di Agrigento n. 1199/2011 che aveva dichiarato cessata la materia del contendere relativamente agli obblighi insorti tra le parti per effetto del contratto stipulato in data 20 luglio 2007 con cui la società ingiungente le aveva ceduto l’azienda alberghiera denominata Hotel INDIRIZZO; ii) sulla richiesta di
declaratoria di nullità del decreto ingiuntivo, perché la società RAGIONE_SOCIALE non aveva disposto la compensazione tra il credito Iva vantato dalla società RAGIONE_SOCIALE Empedoclina ed il suo debito verso l’erario; si doleva del fatto che il Tribunale avesse ritenuto provata la pretesa creditoria;
la Corte d’appello di Palermo, con la sentenza n. 1780/2020, ha rigettato l’ impugnazione;
la società RAGIONE_SOCIALE ricorre per la cassazione di detta sentenza, formulando cinque motivi;
nessuna attività difensiva è svolta in questa sede dalla società RAGIONE_SOCIALE
la trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis 1 cod.proc.civ.;
il ricorrente ha depositato memoria.
Considerato che
1) con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 cod.civ., in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 3 e n. 4, cod.proc.civ., e la nullità della motivazione, per avere il giudice a quo ritenuto che avesse un debito verso l’erario quello che la società RAGIONE_SOCIALE sosteneva di aver estinto pagando alla RAGIONE_SOCIALE l’importo di euro 24.500,00 – ;
lamenta la Corte d’appello, limitandosi ad affermare che nessun pagamento indebito è avvenuto nei confronti della RAGIONE_SOCIALE non ha chiarito ‘ il percorso logico -giuridico sull’ in sussistenza dell’indebito oggettivo, non consentendo di comprendere quel che realmente avvenne in ordine al pagamento indebito’;
su duole non essersi considerato che anche se RAGIONE_SOCIALE avesse ricevuto quanto le spettava non era stato chiarito perché la pretesa della società RAGIONE_SOCIALE era legittima; dalla scrittura privata del 15/01/2001 emergeva che la cedente aveva estinto i debiti aziendali mediante compensazione di un proprio credito nei confronti
dell’erario e che la concessionaria aveva fatto fronte a debiti non contabilizzati per euro 41.088,85; quindi era da ritenersi già soddisfatto il credito della Serit;
lamenta essersi la Corte d’appello limitata a ritenere che il debito oggetto della cartella era uno dei debiti che la cessionaria si era accollata, senza effettuare alcun accertamento sul titolo, omettendo di considerare che la cartella di pagamento si riferiva a debiti risalenti ad un periodo antecedente la scrittura privata, sebbene fosse stata notificata successivamente;
1.1) il motivo è inammissibile;
1.1.1) va anzitutto osservato che il ricorrente non ha chiarito per quale motivo evochi la ripetizione dell’indebito;
da quanto emerge dal ricorso e dalla sentenza impugnata, infatti, la società RAGIONE_SOCIALE aveva estinto d’intesa con la odierna ricorrente un suo debito -rectius : un debito originariamente a carico della cedente che la società RAGIONE_SOCIALE si era accollata con il contratto di cessione d’azienda -nei confronti dell’erario e aveva agito nei confronti della cessionaria per ottenere la restituzione di quanto pagato;
non risulta -e comunque non è stato dimostrato dal ricorrente -che abbia lamentato di aver pagato alla RAGIONE_SOCIALE una somma non dovutale;
la pretesa creditoria della società RAGIONE_SOCIALE derivava dall’interesse a recuperare quanto ‘pagato’ per estinguere il debito della società RAGIONE_SOCIALE
ciò spiega la ragione per la quale la sentenza impugnata si è limitata a rilevare che la società RAGIONE_SOCIALE aveva ricevuto il pagamento che le spettava e non già un pagamento indebito;
deve, dunque , ritenersi che la Corte d’Appello non sia affatto incorsa nella violazione delle norme indicate nell’epigrafe del ricorso, non avendone fatto applicazione;
peraltro, secondo il costante indirizzo di questa Corte, il vizio di
violazione e falsa applicazione della legge, di cui all’art. 360, 1° comma, n. 3, cod. proc. civ., giusta il disposto di cui all’art. 366, 1° comma, n. 4, cod. proc. civ., deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito a questa Corte di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass., Sez. Un., 05/05/2006, n. 10313);
in altri termini, non è il punto d’arrivo della decisione di fatto che determina l’esistenza del vizio di cui all’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ. , ma l’impostazione giuridica che, espressamente o implicitamente, abbia seguito il giudice di merito nel selezionare le norme applicabili alla fattispecie e nell’interpretarle;
nella sentenza impugnata, come si è detto, non c’è alcun passaggio nel quale venga affrontata la questione del pagamento dell’indebito nei termini dedotti dalla ricorrente; ragione per cui, a fortiori , inutilmente si andrebbero a cercare in essa affermazioni che evidenzino una erronea ricognizione delle norme che definiscono l’azione di ripetizione dell’indebito o una falsa applicazione delle stesse alla fattispecie concreta; né il ricorrente le individua;
1.1.2) NOME COGNOME, denunciando il difetto di motivazione quanto alla legittimità della pretesa della società RAGIONE_SOCIALE supporta tale sua affermazione con il richiamo della scrittura privata del 24/06/2011; il che non consente di accogliere la censura nemmeno sotto questo profilo, giacché, per consolidato principio della giurisprudenza di legittimità, il vizio motivazionale se c’è deve emergere dalla sentenza in sé e per sé considerata e non dal confronto tra essa e documenti estrinseci (Cass., Sez. un., 7/04/2014, nn. 8053 e 8054 e successiva giurisprudenza conforme);
2) con il secondo motivo la ricorrente denunzia violazione degli artt. 112, 115 e 116 cod.proc.civ., 1362, 1363, 1364, 1365, 1366 cod.civ., ai sensi dell’art. 360, 1° comma n. 3, cod.proc.civ.;
si duole che la corte territoriale abbia ritenuto provata la pretesa creditoria della società RAGIONE_SOCIALE sulla scorta del contratto di cessione d’azienda, con il quale si era convenuto che relativamente ai debiti erariali accollati eventuali sgravi che l’amministrazione finanziaria avesse riconosciuto avrebbero dovuto essere restituiti alla cedente e che gli accordi transattivi intercorsi tra le parti non avevano ad oggetto gi sgravi in questione;
lamenta non essersi considerato che la transazione del 15 gennaio 2011 riguardava tutte le obbligazioni derivanti dal contratto di cessione d’azienda, come confermato dalla scrittura privata del 24 giugno 2011 -con cui la società RAGIONE_SOCIALE dichiarava di essere totalmente soddisfatta e che non residuava alcun obbligo nascente dal contratto di cessione d’azienda -, essendosi dal Tribunale di Agrigento con sentenza n. 1199/2011 correttamente dichiarata la cessazione della materia del contendere;
lamenta l’omessa pronuncia ‘sull’eccezione di giudicato che, coprendo il dedotto e il deducibile, avrebbe impedito di eccepire la restituzione di somme versate per debiti antecedenti la cessione d’azienda, poiché avrebbe rappresentato questione accertata con la pronunzia summenzionata’;
3 ) con il quarto motivo, rubricato ‘Violazione ed erronea applicazione dell’art. 2909 cod.civ. per omessa valutazione dell’accertamento contenuto nella sentenza n. 1199/2011 del Tribunale di Agrigento, passata in giudicato, e per l’avvenuta cancellazione del pegno su quota di RAGIONE_SOCIALE a seguito di transazione (art. 360 n. 1 e 3 cod.proc.civ. )’, il ricorrente denunzia violazione del giudicato, perché, nonostante la sentenza del Tribunale di Agrigento, su domanda congiunta delle parti, avesse dichiarato la cessazione della materia del contendere, sulla scorta delle transazioni in-
tercorse tra le parti, la Corte d’appello , con una statuizione che il ricorrente definisce di stile, si è limitata ad affermare che dette transazioni non riguardavano la restituzione degli sgravi riconosciuti dall’amministrazione finanziaria;
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono inammissibili;
nell’impugnata sentenza la corte di merito fa riferimento ad uno sgravio fiscale, ma il ricorrente non ne fa cenno alcuno, in violazione dele prescrizioni di cui all’art. 366, 1° comma n. 6 cod.proc.civ. , non consentendo a questa Corte di poter decidere in ordine alla censura nei termini in cui risulta formulata;
a tal proposito va ribadito che, codificando il principio giurisprudenziale dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, il legislatore ha imposto al ricorrente di offrire tutti gli elementi necessari al giudice di legittimità per avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, per cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza necessità di accedere ad altre fonti del processo;
non può farsi a meno di rilevare, peraltro, che la statuizione riferita -giusta o sbagliata che sia- non è confutata da parte ricorrente, limitatasi ad affermare, inammissibilmente in termini di mera contrapposizione, la propria tesi difensiva secondo cui, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo , gli accordi transattivi avevano riguardato ogni obbligo nascente dal contratto di cessione d’azienda e a ritenerla di stile (cfr. infra , sub § 4);
4) con il terzo motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 cod.proc.civ. e dell’art. 2697 cod.civ. in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ.;
lamenta non essersi considerato che il creditore opposto, avendo la veste processuale di attore, avrebbe dovuto provare l’esistenza del credito, non bastando il richiamo del contratto di cessione, atteso che dall’esame della cartella di pagamento emergeva che i de-
biti risalivano al 1999 ed erano stati iscritti a ruolo nel 2003, quindi, erano debiti antecedenti rispetto alla cessione che non erano stati oggetto di accollo da parte sua; trattandosi di debiti fiscali d’azienda, ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 427/1997, non potevano rientrare tra quelli oggetto della cessione d’azienda, perché la responsabilità del cessionario per debiti fiscali riguarda le imposte e le sanzioni riferibili alle violazioni commesse dal cedente nell’anno in ci è avvenuta la cessione e nei due anni precedenti e a quelle già irrogate e contestate nel medesmo periodo anche se riferite a violazioni commesse in epoca anteriore;
il motivo è inammissibile;
le argomentazioni difensive formulate dalla ricorrente sono, innanzitutto, del tutto assertive, in quanto dedotte in violazione dell’art. 366, 1° comma n. 6 , cod.proc.civ.;
in secondo luogo, impingono nel merito, cioè sollecitano questa Corte ad una diversa valutazione dei fatti di causa che è in contrasto con i caratteri morfologici e funzionali del giudizio di legittimità;
inoltre, i vizi denunciati sono dedotti senza che ne ricorrano i presupposti previsti dalla giurisprudenza di questa Corte: la violazione dell’art. 115 c.p.c. è predicabile (solo) allorquando il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, “il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove pro-
poste dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c. , che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove”” (principio affermato da Cass. 10/06/2016, n. 11892 e successivamente avallato anche da Sez. U. 05/08/2016, n. 16598, non massimata, in motivazione); né può dedursi la violazione dell’art. 116 cod.proc.civ. per lamentare l’esito della valutazione delle prove: attività rimessa insindacabilmente al giudice di merito;
infine, un motivo denunciante la violazione dell’art. 2697 cod.civ. si configura effettivamente, e dev’essere scrutinato come tale , solo ove risulti dedotto che il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’ onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni; viceversa, allorquando il motivo deducente la violazione del paradigma dell’art. 2697 cod.civ. non risulti argomentata in questi termini, ma solo con la postulazione (erronea) che la valutazione delle risultanze probatorie abbia condotto ad un esito non corretto, il motivo stesso è inammissibile come motivo in iure ai sensi del n. 4 dell’art. 360 cod.proc.civ. (se si considera l’art. 2697 cod.civ. norma processuale) e ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod.proc.civ. (se si considera l’art. 2697 cod.civ. norma sostanziale, sulla base della vecchia idea dell’essere le norme sulle prove norma sostanziali) e, nel regime dell’art. 360 n. 5 oggi vigente si risolve in un surrettizio tentativo di postulare il controllo della valutazione delle prove oggi vietato ai sensi di quella norma scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass. , Sez. Un ., 7/04/2014, nn. 8053 e 8054 ; Cass., Sez. Un., 5/8/2016, n. 16598 e già Cass. 10/6/2016, n. 11892);
5) con il quinto motivo si ascrive al giudice a quo il vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 4, cod.proc.civ., riguardo agli effetti estintivi dell’atto di cancellazione di pegno su quota di s.r.l. del 24 giugno 2011;
affinché possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 112 cod.proc.civ., è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda o un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente e inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronuncia si sia resa necessaria e ineludibile, e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività e, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi; ove, quindi, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, del citato art. 112 cod.proc.civ., riconducibile alla prospettazione di un’ipotesi di “error in procedendo” per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del fatto processuale, detto vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all’adempimento da parte del ricorrente – per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito – dell’onere di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere a una loro autonoma ricerca, ma solo a una verifica degli stessi (Cass . 5/08/2019, n. 20924);
tali adempimenti non risultano invero soddisfatti dal ricorrente;
6) il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile;
7) nulla deve essere liquidato per le spese del giudizio di cassazione, non avendo la RAGIONE_SOCIALE svolto attività difensiva.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella Camera di Consiglio del 26 ottobre 2023 dalla