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Inammissibilità del ricorso: società estinta e abuso

Un’impresa cita in giudizio due società di consulenza e un professionista per inadempimento contrattuale. Dopo una prima sentenza sfavorevole, la Corte d’Appello ribalta la decisione, condannando i convenuti al risarcimento. I soccombenti propongono ricorso in Cassazione, ma la Suprema Corte lo dichiara inammissibile. La decisione si fonda sull’abuso processuale di uno dei ricorrenti, che agiva in nome di una società cancellata dal registro delle imprese da anni, e sulla manifesta infondatezza dei motivi di ricorso dell’altro, che miravano a un riesame del merito non consentito in sede di legittimità.

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Inammissibilità del Ricorso: il Caso di Appello da Parte di una Società Estinta

L’ordinanza in esame offre un chiaro esempio di inammissibilità del ricorso per Cassazione, mettendo in luce due principi fondamentali del nostro ordinamento processuale: il divieto di un terzo esame del merito della causa e la sanzione per l’abuso degli strumenti processuali. Il caso riguarda un contenzioso nato da un contratto di consulenza, evolutosi fino al giudizio di legittimità, dove la Suprema Corte ha rigettato le istanze dei ricorrenti con motivazioni nette e severe.

I Fatti del Caso: Dalla Consulenza alla Corte d’Appello

La vicenda ha origine nel 2003, quando un’impresa commerciale citava in giudizio due società di consulenza e un professionista, lamentando un inadempimento nei contratti di consulenza fiscale, contabile e previdenziale. L’impresa chiedeva un risarcimento danni di almeno 25.000 euro. In primo grado, il Tribunale rigettava la domanda.

L’impresa proponeva appello e la Corte territoriale ribaltava la decisione. I giudici di secondo grado, accogliendo il gravame, condannavano le due società di consulenza a pagare circa 7.400 euro e il professionista, quale consulente del lavoro, a corrispondere oltre 15.700 euro, oltre agli interessi legali e alla rifusione delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio.

Il Ricorso in Cassazione e l’Inammissibilità del Ricorso

Avverso la sentenza d’appello, il professionista e un altro soggetto, qualificatosi come legale rappresentante delle due società di consulenza (nel frattempo divenute una sola entità), proponevano ricorso per Cassazione basato su due motivi principali. Essi lamentavano un “omesso esame degli atti di causa” e un “errore di percezione sul contenuto oggettivo della prova”, sostenendo che la Corte d’Appello avesse valutato erroneamente le prove e la natura del rapporto contrattuale, che a loro dire non era di consulenza ma di appalto di servizi.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso per entrambi i ricorrenti, sebbene per ragioni distinte ma ugualmente gravi.

L’Abuso Processuale: Agire per una Società Inesistente

La posizione più critica è stata quella del soggetto che agiva in nome delle società di consulenza. Dalla documentazione prodotta dalla controparte, è emerso che entrambe le società erano state cancellate dal registro delle imprese anni prima dell’inizio del giudizio di legittimità, una delle quali addirittura nel 2012. Di conseguenza, il ricorrente si era qualificato come legale rappresentante di un’entità giuridica inesistente.

La Corte ha qualificato tale condotta come un “assoluto abuso processuale”. Agire in giudizio in nome di un soggetto inesistente, senza neppure qualificarsi come ex socio (il che avrebbe comportato l’obbligo di integrare il contraddittorio con altri eventuali ex soci), costituisce una violazione palese dei doveri di lealtà processuale. Questo comportamento ha portato a una dichiarazione di inammissibilità secca e immediata del suo ricorso.

L’Inammissibilità del Ricorso del Professionista

Anche il ricorso del singolo professionista è stato dichiarato inammissibile. La Corte ha osservato che i motivi presentati, pur mascherati da censure di violazione di legge, miravano in realtà a ottenere un riesame dei fatti e una nuova valutazione delle prove. I ricorrenti contestavano l’interpretazione del materiale probatorio data dal giudice d’appello, chiedendo di fatto alla Cassazione di sostituire la propria valutazione a quella del giudice di merito. Questo tipo di richiesta è preclusa in sede di legittimità, dove il controllo della Corte è limitato alla corretta applicazione delle norme di diritto e non può estendersi a una nuova analisi dei fatti della causa.

Le Conclusioni: Conseguenze e Sanzioni

La Suprema Corte ha concluso dichiarando inammissibili entrambi i ricorsi. Di conseguenza, i ricorrenti sono stati condannati in solido a rifondere le spese processuali alla controparte. Ma la decisione non si è fermata qui. Rilevando la temerarietà delle azioni, la Corte ha applicato l’articolo 96, terzo e quarto comma, del codice di procedura civile, condannando ciascun ricorrente a pagare un’ulteriore somma di 2.000 euro a titolo di risarcimento per lite temeraria e 1.000 euro da versare alla Cassa delle ammende. Infine, ha attestato la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso stesso.

Perché è stato dichiarato inammissibile il ricorso di chi agiva per le società?
È stato dichiarato inammissibile perché la persona agiva come legale rappresentante di società che erano state cancellate dal registro delle imprese anni prima, risultando quindi giuridicamente inesistenti. Questo comportamento è stato qualificato come un grave abuso processuale.

Qual era il problema principale del ricorso presentato dal singolo professionista?
Il suo ricorso è stato ritenuto inammissibile perché, invece di denunciare veri errori di diritto, tentava di ottenere dalla Corte di Cassazione una nuova valutazione dei fatti e delle prove, attività che è riservata esclusivamente ai giudici di primo e secondo grado e non è permessa in sede di legittimità.

Quali sono state le conseguenze economiche per i ricorrenti?
Oltre alla condanna a pagare le spese legali della controparte, entrambi sono stati sanzionati per lite temeraria ai sensi dell’art. 96 c.p.c., dovendo versare un’ulteriore somma alla controparte e una alla Cassa delle ammende. Inoltre, sono stati obbligati a pagare un importo aggiuntivo a titolo di contributo unificato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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