Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 3017 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 3017 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 06/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 19962/2019 R.G. proposto da :
COGNOME NOMECOGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente-
contro
COGNOME NOMECOGNOME NOME, rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME e dall’avvocato NOME COGNOME elettivamente domiciliati presso lo studio di quest’ultimo in Roma, INDIRIZZO
-controricorrenti- per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Roma n. 2791/2019, depositata il 24 aprile 2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21 novembre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. –NOME COGNOME citava in giudizio NOME COGNOME e NOME COGNOME chiedendo: previo accertamento della proprietà e della commerciabilità dell’immobile oggetto del preliminare di compravendita stipulato tra le parti in data 16 dicembre 2005 e della verifica della condizione di creare un’unità abitativa autonoma al pian terreno, di emettere sentenza ex art. 2932 cod. civ., determinando il saldo del residuo prezzo da versare, tenendo conto del minor valore dell’immobile per la mancanza del certificato di abitabilità e per l’eventuale necessità di demolire le opere non conformi alla licenza edilizia e non condonate e al netto dei danni subiti; in subordine, di dichiarare la risoluzione del predetto contratto preliminare per colpa dei promittenti venditori e di condannare i medesimi alla restituzione della caparra di euro 40.000,00, oltre interessi e rivalutazione monetaria a decorrere dalla data di stipula del compromesso, nonché al risarcimento dei danni specificatamente indicati; in via ulteriormente gradata, si riservava il diritto di recedere dal contratto preliminare e di chiedere la condanna dei convenuti al pagamento del doppio della caparra, in ogni caso, chiedeva la condanna delle parti convenute ai risarcimento del danno da svalutazione monetaria e il pagamento degli interessi dal fatto.
NOME COGNOME e NOME COGNOME si costituivano in giudizio chiedendo il rigetto della domanda attorea, di dichiarare il diritto a ritenere la caparra confirmatoria previo accertamento dell’inadempimento del promissario acquirente; di condannare il COGNOME al risarcimento danni per lite temeraria. NOME COGNOME chiedeva, altresì la rifusione delle spese sostenute “per l’adempimento della obbligazione assunta con la promessa ad adempiere sottoscritta tra le parti e resesi necessarie a seguito e a causa dell’inadempienza del COGNOME (spese per diffida ad adempiere)”.
In sede di prima udienza (9 gennaio 2007), l’attore modificava la domanda chiedendo: di dichiarare la legittimità del recesso oppure la risoluzione del contratto preliminare per colpa dei promittenti venditori e, per l’effetto, di condannare i medesimi al pagamento del doppio della caparra o, in subordine, alla restituzione della caparra ed al risarcimento dei danni indicati, oltre, comunque, al danno da svalutazione e interessi.
Con distinto atto di citazione, i promittenti venditori convenivano in giudizio NOME COGNOME chiedendo: di dichiarare la risoluzione di diritto, ex art. 1454 cod. civ., del contratto preliminare di compravendita stipulato tra le parti in data 16 dicembre 2005 e, conseguentemente, di dichiarare la perdita della caparra da parte dei COGNOME e di condannare il medesimo al risarcimento dei danni da liquidare in separato giudizio a eccezione delle spese legali e di notaio sostenute da essi promittenti venditori per la procedura della diffida ad adempiere danni per i quali si richiedeva la condanna del COGNOME al pagamento della somma complessiva di euro 8.896,76, ovvero della diversa somma accertata, oltre gli interessi legali dalla domanda al saldo.
Il COGNOME si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto della domanda attorea; in via riconvenzionale chiedeva di accertare la legittimità del recesso e la conseguente condanna dei prominenti venditori al pagamento del doppio della caparra, oltre interessi e rivalutazione a decorrere dalla data di stipula del compromesso. In via subordinata, in caso di accoglimento della domanda di risoluzione dei prominenti venditori, chiedeva di dichiarare l’illegittimo incameramento della caparra da parte degli stessi, di accertare quanto effettivamente dovuta a esso promissario acquirente a titolo di danno, e condannare i prominenti venditori al pagamento della caparra versata, oltre interessi compensativi a decorrere dal 16 dicembre 2005, detratto quanto dovuto a titolo di danno.
All’udienza del 21 febbraio 2007 veniva disposta la riunione dei due procedimenti.
Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 4359/2011, depositata il 1 marzo 2011, disponeva lo scioglimento del contratto preliminare di compravendita stipulato tra le parti in data 16 dicembre 2005, condannando NOME COGNOME e NOME COGNOME al pagamento, in solido, in favore di NOME COGNOME della somma di euro 40.000.00, oltre gli interessi legali dalle date del versamento al saldo; rigettava le residue domande avanzate dalle parti, compensando le spese di lite.
-Avverso la sentenza hanno proposto appello NOME COGNOME e NOME COGNOME
L’appellato NOME COGNOME costituitosi con comparsa di risposta, ha resistito all’impugnazione e ha proposto appello incidentale .
La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 2791/2019, depositata il 24 aprile 2019, ha rigettato l’appello incidentale e, in accoglimento di quello principale, ha dichiarato legittimo il recesso di NOME COGNOME e NOME COGNOME dal contratto preliminare di compravendita e il loro diritto di trattenere la somma di euro 40.000,00 ricevuta a titolo di caparra. La Corte d’appello ha inoltre rigettato la domanda di risarcimento del danno per lite temeraria, ponendo le spese di entrambi i gradi di giudizio a carico di NOME COGNOME
-Avverso tale sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.
NOME COGNOME e NOME COGNOME si sono costituiti con controricorso.
-Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ.
Entrambe le parti hanno depositato una memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. -Con il primo motivo di ricorso, si deduce la violazione degli arti. 1460, 14773, 1497 e 2.597 cod. civ. e 115 cod. proc. civ. (in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 cod. proc. civ.). Con la domanda riconvenzionale, quando si è costituito nel giudizio n. 59201/06, il COGNOME ha chiesto darsi ‘a tto che l’immobile compravenduto è incommerciabile, siccome privo dell’abitabilità, accertare e dichiarare la legittimità del recesso esercitato .. con il presente atto e … condannare gli attori al pagamento di euro 80.000, pari al doppio della caparra …’. Riunite le cause e concessi i termini ex art. 183, comma 6, cod. proc. civ., il COGNOME rinunciava alle domande di cui alla causa n. 31976/06 e ripeteva l’anzidetta domanda riconvenzionale, e la stessa cosa faceva con la comparsa di costituzione del 5 ottobre 2012, quando resisteva all’appello dei prominenti venditori e, in parziale riforma de ll’ appellata sentenza, reiterava la richiesta di dichiarare la legittimità del recesso che aveva esercitato il 29 gennaio 2007, confermando la condanna dei promittenti venditori alla restituzione della caparra. Secondo quanto dedotto, i controricorrenti, sostenendo che l’atto notarile fosse ugualmente possibile, sarebbero riusciti nell’intento di trarre in inganno il giudice, atteso che la Corte d’appello ha respinto l’ appello incidentale proposto dal COGNOME, travisando il problema e semplicisticamente affermando, contrariamente al vero, che l’unico inadempimento addebitabile ai promittenti venditori era la mancanza del certificato di abitabilità, che tuttavia si è accertato non essere ostativo alla stipula del contratto di compravendita, omettendo di chiarire i motivi per i quali il COGNOME fosse tenuto all ‘acquisto dell’ aliud pro alio , quale deve ritenersi un immobile privo di una qualità essenziale e attribuendo all’ignaro notaio il potere di accertare una verità assoluta, opponibile erga omnes e con efficacia retroattiva. Sul punto, si evidenzia che l’odierno ricorrente non ha mai sostenuto che la mancanza del certificato di abitabilità fosse un impedimento assoluto alla stipula del rogito (perché si può sempre
trovare un notaio con pochi scrupoli, con una preparazione approssimativa o, più semplicemente, pronto a soddisfare la richiesta del cliente) quanto, piuttosto, il fatto che la mancanza dell’abitabilità rendesse l’immobile privo di una delle qualità essenziali promesse e necessarie (Cass. n. 2729/02). Pertanto, contrariamente a quanto assume la Corte d’appello , sarebbe evidente che nella sua prospettazione, l’appellante incidentale non avesse fatto riferimento al certificato di abitabilità come a un documento indispensabile per la stipula, perché invece, inequivocabilmente, aveva dedotto che la mancanza di quel certificato legittimasse il suo recesso, atteso che l’oggetto della vendita era privo di una qualità essenziale. In subordine, si evidenzia che anc he a voler aderire all’interpretazione ipotizzata dalla Corte d’appello, l’atto asseritamente stipulato dal notaio COGNOME il 14.05.2007 non è opponibile al COGNOME e non dimostra nulla.
Con il secondo motivo di ricorso si prospetta la violazione degli artt. 1454, 1460, 14773 e 2597 cod. civ. e 115 cod. proc. civ. (in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ.). Il giudice unico aveva ritenuto che legittimamente il COGNOME non si fosse presentato dal notaio designato dai promittenti venditori, non avendo mai ricevuto i chiarimenti richiesti con le raccomandate del 27.02.2006 e del 13.03.2006 e con i fax del 31.03.2006 e 28.06.2006. La Corte territoriale ha riformato la decisione atteso che, oltre alla trattata questione della mancanza dell’abitabilità, ha premesso che il 26.05.06 COGNOME Pietro aveva rilasciato a COGNOME NOME una procura notarile per vendere la sua quota del 25% indiviso dell’immobile e che il 20.04.06 il Comune di Roma aveva rilasciato una concessione edilizia in sanatoria (senza però potere accertare, mancando il resto della pratica, se relativa a tutti e tre gli abusi commessi: realizzazione di due bagni ed ampliamento di una cantina appropriandosi dell’intercapedine comune) ed ha stabilito (che ‘ben più grave e rilevante inadempimento è stato quello del promissario
acquirente … che immotivatamente non si è presentato … per il rogito, pur essendovi stato formalmente invitato atteso che ‘non osta a tale conclusione il fatto che la documentazione era stata trasmessa … direttamente al notaio, piuttosto che al promissario acquirente’, e ciò per ‘la qualifica professionale del notaio, come tale istituzionalmente imparziale tra le parti contraenti perché ‘il promissario acquirente avrebbe potuto consultare la documentazione potendola chiedere in visione al medesimo notaio prima della stipula.’ Il COGNOME ritiene tale decisione illegittima per almeno tre motivi: la Corte di merito ha apoditticamente ritenuto immotivata la sua assenza il giorno fissato per rincontro nello studio del notaio COGNOME omettendo sia di valutare la legittimità della diffida (perché solo a seguito di una legittima diffida poteva sussistere il corrispondente obbligo del COGNOME), sia di considerare la malafede dei promittenti venditori, non solo quella pregressa, che l’avevano indotto alla stipula del compromesso con false allegazioni, atteso che contrariamente al vero, si erano dichiarati ed avevano anche documentato di essere proprietari dell’intero e, inoltre, avevano attestato la conformità dell’ immobile a ll ‘originaria concessione edilizia; che alle raccomandate del 27.02.06 e del 13.03.06 ed al fax del 31.03.06 avevano replicato fornendo risposte oltremodo equivoche, palleggiandosi le responsabilità ed affermando, contrariamente al vero, il possesso di quei requisiti dell’immobile e della documentazione richiesta, che certamente ancora non avevano; che alla diffida notificata il 20.06.06 il COGNOME aveva replicato col fax del 28.06.06 perché, more solito, i promittenti venditori si limitavano alle consuete inaffidabili affermazioni e continuavano a negargli 1′ accesso alla necessaria documentazione (né dichiaravano che la stessa fosse consultabile dal notaio COGNOME). Sicché l’atto notificato il 20.06.06 non rappresentava una valida diffida ex art. 1454 cod. civ. e non obbligava il COGNOME a partecipare all’incontro an che perché nulla deduceva in ordine alla mancanza
dell’abitabilità . In secondo luogo si evidenzia che, contrariamente a quanto assume la Corte d’appello . In violazione del 3° comma dell’art. 1477 cod. civ., i promittenti venditori erano legalmente obbligati a consegnargli quei documenti che con la raccomandata del 24.03.06 affermavano di possedere, pur se ciò non corrispondeva al vero; il notaio NOME era stato scelto dai promittenti venditori ed il COGNOME non l’ha mai delegato a ritirare e ad esaminare la documentazione in sua vece: in virtù dell’ar t. 1454 cod. civ., era nel diritto del COGNOME ricevere con almeno 15 gg. di anticipo sia la diffida e sia la pertinente documentazione (per avere il tempo di esaminarla e per potere incaricare un notaio di sua fiducia), mentre non solo non aveva ricevuto alcun documento, ma la maliziosa diffida non precisava nemmeno dove gli stessi fossero reperibili. Infine, si contesta l’affermazione secondo cui il notaio è ‘istituzionalmente imparziale tra le parti contraenti’ e, comunque, perché in ogni caso l’affer mazione ex se è illogica ed irrilevante e non attinente al caso concreto: perché nessun giudice ha accertato la regolarità dell’atto del 14.05.07, né risulta che questo accertamento il COGNOME l’avesse demandato al notaio COGNOME.
1.1. – I primi due motivi, da trattarsi congiuntamente, sono inammissibili.
Nei contratti con prestazioni corrispettive non è consentito al giudice del merito, in caso di inadempienze reciproche, di pronunciare la risoluzione, ai sensi dell’art. 1453 cod. civ., o di ritenere la legittimità del rifiuto di adempiere, a norma dell’art. 1460 cod. civ., in favore di entrambe le parti, in quanto la valutazione della colpa dell’inadempimento ha carattere unitario, dovendo lo stesso addebitarsi esclusivamente a quel contraente che, con il proprio comportamento prevalente, abbia alterato il nesso di interdipendenza che lega le obbligazioni assunte mediante il contratto e perciò dato causa al giustificato inadempimento dell’altra
parte (Cass., Sez. II, 12 febbraio 2020, n. 3455; Cass., Sez. II, 11 giugno 2013, n. 14648).
In caso di denuncia di inadempienze reciproche, è dunque necessario comparare il comportamento di ambo le parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti ed abbia causato il comportamento della controparte, nonché della conseguente alterazione del sinallagma (Cass., Sez. II, 30 maggio 2017, n. 13627). Tale accertamento, fondato sulla valutazione dei fatti e delle prove, rientra nei poteri del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Cass., Sez. III, 9 novembre 2006, n. 23908; Cass., Sez. II, 26 ottobre 2005, n. 20678; Cass., Sez. III, 1 giugno 2004, n. 10477).
Secondo la giurisprudenza di questa S.C., in tema di vendita di immobili destinati ad abitazione, la mancanza del certificato di abitabilità configura alternativamente l’ipotesi di vendita di ” aliud pro alio ” qualora le difformità riscontrate non siano in alcun modo sanabili, l’ipotesi del vizio contrattuale, sub specie di mancanza di qualità essenziali, qualora le difformità riscontrate siano sanabili, ovvero l’ipotesi dell’inadempimento non grave, fonte di esclusiva responsabilità risarcitoria del venditore ma non di risoluzione del contratto per inadempimento, qualora la mancanza della certificazione sia ascrivibile a semplice ritardo nella conclusione della relativa pratica amministrativa (Cass., Sez. II, 2 agosto 2023, n. 23604).
La Corte d’appello, a fronte del reciproco inadempimento, ha valutato quale fosse quello più grave (la mancata immotivata presentazione davanti al notaio per il rogito a fronte di un invito formale con atto di diffida), escludendo che vi fosse un impedimento legale alla stipula del contratto, essendo stata conseguita la sanatoria di quanto realizzato abusivamente e stante la possibilità di
ottenere il certificato di abitabilità, come peraltro accertato anche in prime cure.
Si è di fronte, pertanto, a una valutazione di merito non sindacabile se motivata, come nel caso di specie. La parte ricorrente mira invero conseguire una inammissibile rivalutazione del merito e dei fatti accertati in corso di causa.
2. -Con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione del 2° comma dell’art. 92 cod. proc. civ. (in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ.). La Corte d’appello ha preliminarmente stabilito che ‘le spese vanno regolate in base al principio di soccombenza ma poi le ha interamente ‘poste a carico di NOME COGNOME sia per il primo che per il secondo grado di giudizio, ignorando tutte le domande proposte dai promittenti venditori e respinte. La liquidazione delle spese di entrambi i gradi di giudizio sarebbe dunque illegittima, perché la Corte d’appello ha di fatto immotivatamente disapplicato sia il principio dalla stessa affermato all’esordio e sia l’art. 92 comma 2 cod. proc. civ. che, in caso di soccombenza reciproca, prevede la possibile parziale compensazione delle spese. L’applicazione dell’art. 92 cod. proc. civ. avrebbe anche potuto portare alla medesima decisione ma, se avesse esercitato la sua funzione, il giudice a quo avrebbe dovuto motivare le sue scelte. Invece, essendo tutta la sentenza l’illegittima manifestazione di un potere ingiustificatamente sanzionatorio nei confronti di una delle parti, anche nella liquidazione delle spese di lite quel collegio ha mantenuto il medesimo atteggiamento e così ha deciso senza alcuna motivazione.
2.1. -Il motivo è inammissibile.
In materia di spese giudiziali, il sindacato di legittimità trova ingresso nella sola ipotesi in cui il giudice di merito abbia violato il principio della soccombenza ponendo le spese a carico della parte risultata totalmente vittoriosa, e ciò vale sia nel caso in cui la controversia venga decisa in ognuno dei suoi aspetti, processuali e di merito, sia nel caso in cui il giudice accerti e dichiari la cessazione
della materia del contendere e sia, perciò, chiamato a decidere sul governo delle spese alla stregua del principio della cosiddetta soccombenza virtuale (Cass., Sez. II, 24 aprile 2024, n. 11098; Cass., Sez. II, 31 agosto 2020, n. 18128; Cass., Sez. I, 27 settembre 2002, n. 14023).
La facoltà di disporre la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (Cass., Sez. VI-3, 26 aprile 2019, n. 11329).
A fronte della decisione compiuta in sede di merito non sussiste pertanto la possibilità di sindacare il governo delle spese in questa sede sotto il profilo denunciato.
3. -Con il quarto motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art . comma 1 del d.l. n. 127/04 (in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ.). Parte ricorrente contesta la decisione della Corte d’appello nella parte in cui ha stabilito che “tali spese sono liquidate, quanto al giudizio di primo grado, ai sensi dell’allora vigente dm. 84-2004 n. 127, secondo gli atti e sulla base delle note spese depositate, entrambe in data 14-1-2011 … … condanna NOME COGNOME al pagamento, in favore di COGNOME NOME e COGNOME NOME, delle spese del primo grado di giudizio, che liquida in complessivi euro 23.602,95 (di cui euro 382,95 per esborsi, euro 6.217,00 per diritti, euro 17.003,00 per onorario), oltre rimborso forfettario (12,50%), IVA e CAP come per legge.’ Sul punto si denuncia una ultrapetizione nella parte in cui i promittenti venditori hanno chiesto un rimborso delle spese generali nari al 12% e la Corte ha attribuito loro il 12,50%.
Risulterebbe inoltre violato l’art. 6, comma 1, del D.M. n. 127/04 il quale stabilisce che nella liquidazione dei danni, il valore della causa è determinato dalla somma attribuita alla parte vittoriosa (nel caso di specie, siccome la caparra non è che la liquidazione preventiva di un eventuale danno, ai fini de quo il valore della causa è di euro 40.000,00, mentre deve ritenersi che la Corte d’appello abbia considerato il valore di euro 435.000, come richiesto da controparte nelle due note spese datate 14.01.2011, e come espressamente stabilito per la liquidazione delle spese del secondo grado di giudizio). Pertanto, sarebbe stato erroneamente applicato lo scaglione tariffario che va da euro 258.300,01 a euro 516.500,00, invece di quello che va da euro 25.900,01 a euro 51.700,00.
Con il quinto motivo di ricorso si prospetta la violazione degli artt . 5 e 4 del D.M. n. 55/2014 in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ. La decisione sarebbe illegittima perché adottata in violazione dell’art. 5, comma 1, del D.M. n. 55/2014, il quale stabilisce che il valore della causa è determinato a norma del codice di rito, con l’avvertimento che, nelle cause di liquidazione di danni, il valore è dato dalla somma effettivamente attribuita alla parte vittoriosa. Nel caso di specie, siccome la caparra non è che una liquidazione preventiva del danno, il va lore della causa dev’essere dunque stabilito sulla base della somma di euro 40.000 in contestazione (mentre, accogliendo la richiesta di controparte, la Corte d’appello ha illegittimamente considerato il valore di euro 435.000, che era il prezzo della compravendita, il che comporta che è stato erroneamente applicato il sesto scaglione tariffario (che va da euro 260.000 ad euro 520.000), invece del quarto (che va da euro 26.000 ad euro 52.000), con l’effetto che il compenso di euro 19.160 è illegittimo e già solo per questo motivo si riduce ad euro 9.515,00.
Si deduce, inoltre, l’illegittimità della pronuncia perché adottata in violazione dell’art. 4, comma 5, del D.M. n. 55/2014, il quale stabilisce che il compenso dev’essere liquidato per singole fasi, mentre la Corte d’appello ha fornito il solo importo totale, impedendo di fatto ogni controllo in ordine alla legittimità dei valori liquidati per ogni singola fase processuale, che possono solo presumersi corrispondenti a quelli indicati nella Tabella 12. Inoltre, il giudice ha determinato l’importo addebitato al COGNOME considerando i ‘valori medi per le fasi di studio, introduttiva, istruttoria e/o di trattazione e decisionale’, laddove nel presente giudizio è mancata la fase ‘istruttoria e/o di trattazione ‘ (che, come stabilito alla lettera c), comprende memorie integrative, richieste istruttorie, assistenza a prove e CTU, ecc.) con l’effetto che ha illegittimamente liquidato l’ importo di euro 5.600, ovvero di euro 2.900,00, considerando l’effettivo scaglione tariffario applicabile: – la Corte d’appello ha applicato i ‘valori medi’ e, quindi, ha illegitti mamente liquidato euro 6.960,00 per la sola partecipazione degli avvocati di controparte all’udienza del 24.04.19, visto che si sono limitati a riportarsi all’appello, perché non aveva autorizzato e non c’è stato il deposito di memorie difensive.
3.1. -I motivi, da trattarsi congiuntamente, sono infondati.
Ai fini del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il valore della controversia va fissato, in armonia con il principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato, nell’opera professionale effettivamente prestata, quale desumibile dall’interpretazione sistematica delle disposizioni in tema di tariffe per prestazioni giudiziali (Cass., Sez. III, 5 luglio 2024, n. 18465; Cass., Sez. III, 23 novembre 2017, n. 27871; Cass., Sez. III, n. 12227 del 12 giugno 2015; Cass., Sez. III, 12 gennaio 2011, n. 536).
Con riferimento alla domanda di risoluzione di un preliminare di compravendita, il valore della controversia va determinato ( ex art.
5, comma 1, d.m. 10 marzo 2014, n. 55; art. 12 cod. proc. civ.) dal valore del contratto stesso oggetto della risoluzione (nel caso di specie pari a euro 435.000,00) e non dal valore della sola caparra, per cui non sussiste la violazione di legge denunciata in merito all ‘ individuazione dello scaglione tariffario applicabile.
Con riferimento a tale scaglione, la liquidazione disposta risulta all’interno dei parametri di riferimento. Secondo la giurisprudenza di questa S.C., in tema di liquidazione delle spese processuali ai sensi del d.m. n. 55 del 2014, l’esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo, non è soggetto a sindacato di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario, in tal caso, che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di questo (Cass., Sez. III, 13 luglio 2021, n. 19989).
Riguardo alla fase istruttoria, il d.m. n. 55 del 2014 non prevede alcun compenso specifico ma prevede un compenso unitario per la fase di trattazione, che comprende anche quella istruttoria, con la conseguenza che nel computo dell’onorario deve essere compreso anche il compenso spettante per la fase istruttoria, a prescindere dal suo concreto svolgimento (Cass., Sez. II, 27 marzo 2023, n. 8561).
Sulla questione relativa alle spese generali, va evidenziato che le stesse sono determinate dalla legge per cui, se anche fosse sbagliata la percentuale indicata, si tratterebbe di un mero errore materiale.
4. -Il ricorso va dunque respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013, stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 10.000,00 per compensi, oltre al rimborso spese generali (15%) ed accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione